Alla fine non c’è stato nessun testa a testa come avevano annunciato gli exit-poll: a prevalere alle elezioni regionali in Sardegna della scorsa domenica è stato il centrodestra, che con Christian Solinas e il 47,8% dei voti ha ottenuto una vittoria schiacciante. Se la Lega può gioire e vedere rafforzata la propria posizione all’interno della maggioranza di governo, lo stesso non si può dire per il Movimento 5 Stelle, rappresentato da Francesco Desogus. I grillini hanno infatti assistito a una nuova batosta elettorale – se comparata alle elezioni politiche – racimolando soltanto l’11,2%. Tra i due litiganti-alleati di governo si inserisce un terzo schieramento, che festeggia un suo inaspettato secondo posto: la coalizione di centrosinistra ottiene infatti grazie a Massimo Zedda il 32,9% dei voti. È stata questa la vera sorpresa di queste elezioni, che non a caso ha attirato la maggior parte dell’attenzione di tutti i quotidiani. Molti hanno visto nel risultato un sussulto da parte di un centrosinistra che sta affrontando uno dei suoi momenti più difficili, e credono che possa essere il primo impercettibile segno di una sua ripresa.
Se si comparano i voti raccolti da Massimo Zedda con quelli delle elezioni politiche dell’anno scorso, un balzo in avanti del centrosinistra c’è effettivamente stato, con il 17,6% ottenuto il 4 marzo 2018 che è stato quasi raddoppiato. Sarebbe però sbagliato leggere l’avanzamento del centrosinistra più nello specifico come una ripresa del PD, o comunque come un dato applicabile sull’intero suolo nazionale: il notevole miglioramento è dovuto in gran parte al modello usato da Zedda della coalizione ampia con l’inclusione anche di liste civiche. E in effetti, se osserviamo i voti ottenuti dalle singole liste si può notare come i dem abbiano raggiunto solamente il 13,5%, mantenendo così la situazione pressoché invariata – se non addirittura peggiorandola di poco – rispetto alle elezioni politiche. Il grosso del lavoro è farina del sacco delle altre liste della coalizione, che hanno contribuito con quasi due terzi dei voti ottenuti. Bisogna poi considerare il fatto che Zedda era il candidato del centrosinistra, ma non è e non è mai stato iscritto al PD (è invece membro del Campo Progressista dell’ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia). Inoltre, mentre il candidato del centrodestra ha ricevuto un forte appoggio mediatico dal ministro dell’Interno Matteo Salvini – che ha quindi messo in primo piano l’appoggio suo e del partito – Zedda aveva invece accettato di correre per il centrosinistra a condizione che i big del PD non comparissero al suo fianco in campagna elettorale. Insomma, la cosiddetta ripresa del centrosinistra se è avvenuta lo ha fatto non di certo grazie all’appoggio del Partito Democratico, che continua a mostrare tutte le sue difficoltà.
Allo stesso modo, nemmeno la vittoria del centrodestra è da attribuire interamente al partito del Ministro dell’Interno, visto che il 27,5% dei voti che hanno sancito la vittoria di Solinas arriva da liste in coalizione diverse da Lega, FDI e FI e assenti su suolo nazionale. In questo caso il discorso è però diverso: mentre chi ha votato Zedda potrebbe non riconoscersi nel PD, molte delle liste nello schieramento di centrodestra rivendicano un certo nazionalismo che avrebbe buone probabilità, in caso di nuove elezioni politiche, di andare a confluire nel più vasto bacino dei leghisti. L’unico cambiamento davvero rilevante è stato il tracollo del Movimento 5 Stelle, per il quale il grande appoggio ricevuto in Sardegna in occasione delle politiche è ormai un ricordo ben lontano. Il vicepremier Luigi di Maio ha più volte ribadito che il MoVimento ha sempre avuto difficoltà nelle amministrative, e diversamente da PD e Lega non era in coalizione con nessun’altra lista. Tutto vero, ma resta il fatto che i pentastellati hanno perso più del 30% dei voti in un solo anno: la prova di governo ha logorato il MoVimento, che ha perso la sua carica propulsiva più interessante – la novità – e che non riesce a mantenere nell’immediato le promesse fatte prima delle elezioni. I suoi elettori speravano in soluzioni e decisioni rapide, non in progetti a lungo termine (basti ricordare le famose code per richiedere il reddito di cittadinanza che si sono generate subito dopo la vittoria del 4 marzo). Poco importa le rassicurazioni che tutto sarà realizzato prima della fine dell’esecutivo: per il momento il reddito non è ancora partito, la Tav è ancora in discussione, e per questo i grillini hanno perso la fiducia dell’elettorato.
Le elezioni regionali in Sardegna suggeriscono quindi due conclusioni. La prima, che riguarda il futuro della sinistra, è che si è liberata effettivamente una vasta area politica composta da quelle persone rimaste deluse dalla prova di governo dei grillini, ma al momento essa non si riconosce in nessuno dei partiti presenti. Secondo i dati forniti dall’Istituto Tecnè il grosso dei voti che il M5S aveva raggiunto alle politiche è infatti finito nel baratro dell’astensione: troppo lontani dalla destra nazionalista di Salvini, molti elettori non riescono però a identificarsi nella sinistra del PD. Eppure, il fatto che Zedda abbia riconquistato una parte di tale area mostra come la sfiducia che si può leggere a livello nazionale nei confronti del PD sia dovuta non tanto alle idee di sinistra, che sembrano continuare a trovare terreno fertile, quanto alle persone che tali idee rappresentano. Laddove non ci siano i “volti noti ” e il simbolo del PD non sia in primo piano – come è stato il caso in Sardegna – il centrosinistra pare in grado di riscuotere ancora un discreto successo. A questo punto, è possibile supporre che il manifesto europeista redatto da Carlo Calenda in vista delle elezioni europee di maggio, in cui si promuove l’idea di una coalizione di partiti europeisti che vada al di là del PD, abbia una sua validità. Le recenti elezioni regionali suggeriscono però che in questa coalizione servano figure che con il Partito Democratico poco o nulla hanno a che fare, altrimenti sarà difficile che il progetto riesca a decollare.
La seconda conclusione riguarda invece il futuro dell’attuale governo. Dopo queste ultime elezioni regionali in Sardegna, così com’era stato fatto dopo quelle in Abruzzo, il vicepremier Matteo Salvini ha più volte ribadito che nulla sarebbe cambiato per l’esecutivo, e che il contratto di governo Lega-M5S avrebbe continuato ad essere valido. Nonostante le affermazioni del ministro dell’Interno, molti prevedono una crisi di governo dopo un probabile successo della Lega alle Europee: in questo modo Salvini potrebbe procedere all'”incasso” dei nuovi voti e formare una nuova maggioranza composta solo dal centrodestra, in cui la Lega sarebbe il partito principale. A dire il vero, è probabile che il vicepremier sia sincero, e che l’attuale esecutivo sopravviva anche alle elezioni di maggio. Per quanto riguarda il M5S, difficilmente i grillini romperanno il contratto di governo, soprattutto in questa fase di declino. Sanno che se si andasse a nuove elezioni sarebbero fortemente ridimensionati in Parlamento, e in ogni caso avrebbero prima bisogno che il reddito di cittadinanza funzionasse a pieno regime per potersene attribuire il merito e sperare in un ritorno dei consensi.
Per ciò che concerne l’altro membro del governo, Salvini potrebbe non avere alcun interesse a governare insieme al resto del centrodestra. Prima di tutto perché un’alleanza con FI lo costringerebbe a ridimensionare le proprie posizioni sui temi riguardanti l’immigrazione e l’Europa (visto che FI siede nel Parlamento Europeo con lo schieramento europeista del PPE). Inoltre, l’estrema pluralità che caratterizza la compagine del M5S fa risaltare per contrapposizione Salvini come leader forte al governo: di fronte all’indecisione dei grillini su alcuni argomenti (ad esempio la Tav) il capo della Lega risponde con certezza, incurante delle opinioni dell’alleato. Sembra infatti che sia proprio questa figura del “capitano” che gli elettori cercano in Europa. Ruolo tuttavia rischioso, come insegna l’esperienza di Matteo Renzi, perché il consenso può svanire molto rapidamente.
C’è però una differenza: mentre il PD è “geneticamente” poco propenso ad affidarsi alla guida di un solo leader (tant’è che ancora adesso fatica a trovarne uno) perché legato alla struttura del partito tradizionale, la Lega si è ben adattata per riunirsi intorno al carisma di un unico personaggio. Stando le cose in questo modo, se le elezioni regionali mostrano che qualcosa nello scenario politico sta cambiando rispetto alle elezioni dell’anno scorso, sarebbe forse un errore prender per buoni gli stessi risultati anche a livello nazionale. Una rimonta del centrosinistra sembra ancora molto lontana, mentre l’esecutivo Conte continua a godere di largo consenso. E – almeno per il momento – a nessuno dei due alleati sembra convenga voltare le spalle all’altro
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