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theWise racconta: L’isola delle rocce che camminano

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Bianca Giacalone

Te ne sei andato di casa con quel sorriso del cavolo che avevi sempre sulla faccia. Beato come un bambino che gioca a fare l’esploratore nel giardino di casa. Avevi una grossa sacca blu colma di cose, di cui la metà probabilmente non ti sarebbero servite perché so come sei fatto tu. Ti sei voltato e hai sceso le scale toccando il muro come per salutare anche lui. Io ti ho guardato andare via dalla finestra, ho scostato la tenda piano per non farti vedere che stavo piangendo disperatamente e che mi sentivo già sola senza di te. Ma tu probabilmente te lo sentivi perché sei tornato su e mi hai abbracciata forte forte come se avessi intenzione di comprimermi e mettermi nella tua sacca blu. Poi te ne sei andato per la seconda volta con la mente rivolta alla tua nuova avventura.

Sei partito verso l’aeroporto di Roma via dai tuoi carruggi chiassosi, via dalla tua vita. Mi hai chiamata alla stazione e mi hai detto soltanto: «Sono arrivato, ci sentiamo quando sono a Roma». Io sono rimasta zitta e riascoltavo soltanto la tua voce che si ripeteva nella mia testa come un nastro registrato perché non volevo dimenticarla. Chissà cosa hai pensato sul treno. Chissà se eri triste o impaurito, chissà se ti mancavo già, se ti mancava già la nostra casa piccola, i vecchi mobili, il mio lavoro a maglia, i miei centrini di pizzo sotto ogni soprammobile, il tuo letto a una piazza e mezzo perché cadi sempre dai letti stretti e ti muovi troppo, le stelline che avevi appeso da piccolo sulla parete perché ti piaceva sognare ad occhi aperti. Sono sicura che avevi gli auricolari alle orecchie e che guardavi fuori dal finestrino e non ascoltavi nessuno se non te stesso.

Quando sei arrivato a Roma mi hai chiamata di nuovo, non mi hai mandato un messaggio come avresti fatto solitamente, sapevi quanto per me fosse fondamentale ascoltarti, ascoltare il tuo vagito di agnellino che avrei potuto riconoscere tra altri mille. Hai iniziato a vaneggiare, non sapevi nemmeno tu cosa stessi dicendo probabilmente, parlavi a raffica giusto per dirmi qualcosa, per sentire ancora la tua casa. «E come sta Mimì?» mi chiedevi ogni due minuti. «Mimì sta bene, è qui con me» ti rispondevo e nel mentre davo uno sguardo alla cuccia dove avevi lasciato quel gatto tutto spelacchiato e vecchio. Hai dormito tutta la notte con lui prima di partire, ti sei impregnato del suo odore e dell’odore di ammorbidente. Poi hai chiuso la chiamata perché dovevi imbarcarti per l’altro volo, verso Città del Capo.

Ti immaginavo tutto il tempo trascinare la sacca con la spalla e camminare un po’ sbilenco tra la gente, buttare i pezzetti della tua merenda ai piccioni o condividerla con qualcuno. Ti lasci abbindolare da qualcuno che attacca bottone e ti parla e tu lo ascolti perché ascolti sempre tutto e tutti con attenzione, gli tieni la valigia se va in bagno anche a costo di perdere il volo. Ti perdi nell’aeroporto e chiedi scusa più volte perché ti dispiace disturbare e poi ti perdi di nuovo perché pensi ad altro, perché sei già arrivato con la tua testa, è questo ammasso di ossa e carne che fatica ad arrivare ed è ancora lì a migliaia di chilometri di distanza.

Dopo quattordici ore di volo sei arrivato in Africa, a Città del Capo e metà del tuo viaggio era già terminata. Io in quelle quattordici ore ho dormito e mi sono alzata la mattina alle sei per pulire e riordinare la casa, anche se non c’era bisogno. Era una scusa per tenere occupata la mente e per sentire di meno l’attesa anche se il mio sguardo era per la maggior parte del tempo rivolto verso il telefono in attesa che squillasse per darmi un tuo segno. Alle nove ha squillato forte e ho risposto senza nemmeno guardare chi fosse: «Mamma, sono arrivato. Non sono riuscito a prendere sonno in aereo, nemmeno a chiudere gli occhi. Adesso troverò una stanza e andrò a riposarmi, ci sentiamo dopo». Mi hai detto questo e io da mamma preoccupata ti ho sgridato e ti ho detto di riposarti tutto il giorno.

Sapevo già che difficilmente avresti preso sonno perché quando devi fare qualcosa che ti piace pensi solo a quello e sogni e t’immagini come sarà e cosa farai. Mi ricordo che da piccolo la sera prima che dovevi andare al mare con i tuoi amici ti scoppiava il cuore dalla gioia e non ti davi tregua. Poi il giorno dopo arrivavi tutto stanco e assonnato e non riuscivi a stare dietro ai tuoi amici, dopo un po’ ti addormentavi sotto l’ombrellone e la giornata al mare per te era finita. Hai sempre preferito il momento prima di una cosa bella piuttosto che la cosa stessa perché davanti ai tuoi occhi era tutto già passato. Avevi un’immaginazione talmente fervida che vivevi nella tua testa e non fuori. Questo mi ha fatto sempre paura da una parte perché non hai mai la concentrazione su quello che fai, su quello che ti accade. Dall’altra sei immune a qualsiasi delusione perché sei tu che decidi come devono andare le cose.

Hai trovato un ostello da quattro soldi poco dopo l’aeroporto e ti ci sei fiondato. Hai preso una camera matrimoniale, insistendo un po’ con il proprietario perché non si può occupare una camera per due da una sola persona, poi gli hai dato il doppio e lui è stato zitto e ti ha dato le chiavi per la stanza. Sei entrato e non hai manco guardato cosa ci fosse, quanto fosse pulita e se il bagno funzionasse a dovere. Hai spalancato le braccia come per spiccare il volo e sei caduto nei tuoi sogni buttandoti sul letto. Le molle hanno rimbalzato e hanno fatto un po’ di rumore ma tu stavi già dormendo.

Fuori faceva un caldo insopportabile e hai sudato tutto il letto. Quando ti sei svegliato era pomeriggio inoltrato. Ti sei passato le mani in faccia per sentirti e ti sei guardato attorno. La stanza era sporca, piena di polvere e puzzolente. Le pareti erano rosa antico e il letto aveva le coperte tutte macchiate. Hai notato con disgusto quanto fossi sudato e sei andato a lavarti con quel filo di acqua che scendeva dalla doccia.  Ti stavi preparando già a Tristan da Cunha. L’indomani mattina avresti preso una nave cargo che ti avrebbe portato in quell’isola sperduta in mezzo all’Atlantico, un’isola che ha pochissimi legami con il resto del mondo.

Quando hai deciso di fare l’antropologo dopo martorianti indecisioni per tutto l’anno del liceo, non ho mai pensato che avresti potuto portare avanti questo progetto per così tanto tempo. Sei sempre stato un bambino poco sicuro di te stesso e delle tue decisioni quando si trattava del mondo esterno e non riuscivi mai a portare veramente avanti un’idea, un progetto che ti costringevi o ti costringevano a fare. Sei sempre stato assonnato, poco presente nel mondo che condividevi con gli altri. Non avrei mai pensato che saresti partito così lontano, che avresti fatto un viaggio vero e non suoi libri o nei tuoi pensieri. Mi cullavo con l’idea che non avresti lasciato il nido e saresti sempre stato con me. È stata una decisione troppo difficile per te così alla fine ho scelto di convincerti ad andare. In realtà mi sentivo in dovere di farlo, dovevi staccarti da questi sogni e svegliarti, andare a fare un’esperienza vera, autentica in tutte le sue forme. Così hai deciso di svegliarti poco alla volta e sei partito. So che in questa stanza, in questo viaggio non sei così presente. Ma almeno devi ricordarti che hai dei bisogni e delle scadenze a cui devi fare riferimento.

Il giorno dopo sei già all’alba sulla nave cargo che ti porterà sull’isola. Hai scelto di andare proprio lì perché gli abitanti sono distaccati dal resto del mondo almeno quanto lo sei tu, quindi pensi che non ti potrai mai trovare a disagio. Il viaggio è lungo, troppo. Ti ritrovi a fantasticare mentre ti sporgi al mare e al vento. Hai i capelli lunghi scompigliati e tiri su con il naso ogni tanto. Ci sono momenti in cui non capisci ciò che stai facendo, ma cerchi di ricordarti di me quando ti dico che devi essere presente qui e vivo come una cosa viva che si nutre delle cose che esistono. Passi una settimana lì su quella nave e sei in bilico tra la realtà e la fantasia, un miscuglio di immagini che ti confondono, da una parte mare, solo mare, dall’altra la tua avventura. Non parli con nessuno perché non ti va e sei solo curioso della gente che reputi tua simile ma che difficilmente riesci a trovare. Ecco perché hai scelto questo mestiere, penso, per non sentirti solo. Io sono il tuo collegamento col mondo, ma quando non ci sono sei solo come l’ultimo della tua specie. E allora vai cercando i tuoi simili in questo mondo che non sembra appartenerti.

Arrivi a Tristan da Cunha e dopo tutto quel tempo non ti sembra vero di vedere qualcosa che sia così differente dall’acqua. Gli abitanti ti stanno aspettando tutti al porticciolo per darti il benvenuto. Sono duecentosettanta anime tutte in attesa della nave cargo che porta con sé anche qualche parente che fa visita. Per l’occasione le scuole sono chiuse e i bambini sono i primi che ti vengono incontro e ti salutano. John è il primo che si presenta, ti stringe forte la mano, ha una di quelle mani grandi e callose e con la sua stretta ti senti già al sicuro. John ti ospita nella sua casa e ti introduce nella sua comunità. Esiste solo il baratto, nessuna moneta. Tutti lavorano per tutti. Non ci sono le forze dell’ordine. Ti sembra di essere finito dentro i tuoi stessi pensieri per un attimo. Pensi che non sarà difficile studiarli, pensi che vorresti rimanere lì. Il telefonino non prende lì e io ascolto il tuo lungo silenzio sapendo che sei arrivato.

Ti guardi un po’ intorno e noti che il paesaggio toglie il fiato. Un’immensa distesa di verde ai piedi di un vulcano minacciosissimo che sonnecchia, ma che da un momento all’altro potrebbe attivarsi. E poi le rocce. Quelle rocce che sembrano così massicce in realtà sono spostate dal vento, passive e lasciano il verde per cercare altro verde più in là. Il vento infatti è fortissimo quel giorno e lo è quasi sempre. Quando soffia piano tutto tace e si sente solo il mare. Vedi tante mucche che pascolano serene e ogni tanto si nascondono dietro quelle grandi rocce e fanno capolino solo con la testa. «Cucù», dici, «Cucù» e ridi e sei felice e già probabilmente non mi pensi più. Perché sei morto e risorto in quell’isola.

La casa di John è una casetta modesta e accogliente, una piccola tana. Ti presenta sua moglie Kate e le sue tre figlie: Jude, Jane e Janine. Ti offrono una cena a base di tonno e ti preparano un letto grande e accogliente nella stanza degli ospiti. La mattina vieni svegliato da John alle cinque. Non sei abituato, ma vai con lui pensando che ti riposerai poi. Mentre ti cambi nella tua stanza vedi fuori una fila di donne e ragazze armate di stivali e secchi che vanno a prendere le mucche per mungerle. Ti sembra tutto molto surreale sia perché sei un po’ intontito dal sonno, sia perché le atmosfere sono davvero strane e non hai mai visto una cosa del genere.

Aiuti John a curare la terra tutto la mattina fino a pranzo. Gli parli ogni tanto in inglese con il tuo accento italiano e ogni tanto lui ride sotto i baffi. Zappi la terra, semini, raccogli le verdure dell’orto. Ti rimbocchi le maniche come non hai mai fatto e pensi che con l’arrivo del pranzo il tuo lavoro sia finito. Invece John ti porta a distribuire il cibo a tutti gli abitanti e riesci a memorizzare ogni viso, ogni faccia, parli con loro. Sono persone estremamente semplici e terrene. Non creature dei sogni come ti eri immaginato tu, ti hanno spiazzato, ti hanno ingannato, ti sei ingannato. Eppure sei attratto lo stesso da loro perché sono così fuori dal mondo e pure ci sono così dentro. Nascono dalla terra, si nutrono di essa, sono presenti tutti i giorni, stanno con lei. Ma stanno anche con il mare che li circonda, con il vulcano e con le rocce che si spostano. Toccano le cose, le venerano, sono tutto ciò che hanno. E allora ti viene un po’ più difficile capire. Pensi per un attimo che non troverai mai la tua specie. E io ti sento da lontano che soffri, che forse vorresti tornare da me, sotto le tue lenzuola del tuo letto e stare lì fino ad estinguerti. Io da madre ti mando coraggio figlio mio.

I giorni passano e ormai ti abitui all’alzataccia mattutina. Ti curi della terra con gesti concentrati, a volte ti perdi nel paesaggio. A volte lasci tutto e inizi a gironzolare da solo e vieni meno ai tuoi impegni di antropologo e di agricoltore. Ti perdi. Come solo tu sai fare. Ti perdi.

John ti sgrida come se fossi il tuo primogenito maschio. Questo ti colpisce perché non hai mai avuto un padre. E adesso ti sembra di stare in un’altra vita. Ti senti prudere il corpo perché forse tutto questo ti sta stretto e la notte scalci come per scappare. Ma la prossima nave cargo che passerà di lì arriverà fra quattro mesi. È tutto troppo reale e terreno e sbatti la testa e corri in cerchio perché è anche tutto troppo ristretto. Duecentosettanta persone e tu le conosci ormai tutte, conosci le loro abitudini, le saluti. Conosci i loro riti, uccidono le mucche tutti in cerchio, praticano la mattanza. Osservi con quanta precisione si dedicano alle loro attività, con quanta cura si occupano di tutti e dell’isola. E tu vorresti essere come loro per saper rimanere lì.

Poi arriva il giorno in cui il vento soffia ancora più forte, ancora più potente. Il cielo diventa nero e le rocce vanno a spasso per l’isola. Dovete mettere le mucche a riparo e rintanarvi in casa tutto il giorno aspettando che il vento si plachi. Ma lui continua con la sua violenza a spostare tutto e scoperchia il tetto della casa di Vincent, il vostro vicino. E si scatena il panico. Sembra che si sia messo a piovere ma non capite più se è il vento che sposta il mare o i nuvoloni che calano acqua. Forse entrambe le cose. Prendi coraggio ed esci di casa. Leghi ai tuoi piedi due grossi pezzi di ferro che peseranno almeno un chilo a testa e ti incammini verso casa di Vincent perché vuoi salvare lui e la sua famiglia dalla tempesta. Sembri risoluto. John non dice niente e ti sta a guardare. È molto preoccupato per te, ma prende la cosa come una sorta di rito di passaggio. Lui ti vuole presente.

Riesci ad arrivare a casa di Vincent dopo mezz’ora e ti senti distrutto e pensi a come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere. Forse per la prima volta hai agito senza ben pensare. Infatti non sai nemmeno come porterai Vincent e sua moglie a casa di John al riparo. Intanto sei lì. Leghi al corpo di Vincent e Clara qualsiasi cosa di pesante per stare bene saldi a terra, con corde e pezzi di lenzuola. Ti senti di star compiendo un’impresa disperata e senza senso, ma gli sguardi grati dei tuoi vicini continuano a farti andare avanti. Riesci a essere presente e a salvare quelle persone. A casa di John tutti ti abbracciano, lui ti guarda orgoglioso. Se lì con loro anche i giorni seguenti quando il vento si placa. Riesci a toccare tutto, le tue mani sono forti, presenti, gentili. Tutto sembra che faccia parte di te. Adesso stai in compagnia dei paesani, ti sono grati del tuo gesto e ti fanno partecipare ai loro riti. Si sta sulla spiaggia la sera quando fa caldo. Cantano e ti insegnano i passi dei loro balli. Cerchi di impararli, ti impegni. Ti senti un po’ come loro adesso e capisci che forse non ti serve fantasticare lì perché è la tua casa. A casa qui io ti aspetto più serena, mancano pochi giorni e potrò rivederti. Mi hai mandato una lettera dove mi raccontavi tutto. Hai anche cambiato grafia, è meno disordinata e più attenta alla punteggiatura. Mi fa piacere che almeno in una parte del mondo tu sia presente.

Il giorno in cui devi partire da Tristan da Cunha gli abitanti sono in lutto. John ti ha pregato diverse volte di rimanere e diverse volte tu hai pensato che in fondo potevi restare lì per altro tempo. Ma sapevi che un’altra vita ancora ti aspettava e che avresti avuto altre occasioni di tornare. Hai abbracciato John come avrebbe fatto un figlio. Tu sei suo figlio, in quei quattro mesi ti ha cresciuto e ti ha svegliato dal tuo lungo sonno. Piangi e le tue lacrime sono fatte di mare e di verde e di rocce di quest’isola. Saluti anche loro, le compagne delle tue lunghe passeggiate.

Arrivi in primavera, ad aprile. L’aria è fresca ma il sole picchia sulle finestre tutto il giorno. Sto stendendo i panni e canticchio. Non ti sento nemmeno aprire la porta di casa. Mi abbracci da dietro e io quasi svengo. Non mi sembra vero di toccarti, di parlarti. Hai una voce che sa di altri posti in cui hai vissuto e dormito, sa delle braccia del mare, sa di ore sveglio in viaggio. Ti sei fatto crescere la barba e hai un’aria più matura e solenne. Mi sussurri che presto andrai via di casa, hai scritto un libro sulla tua esperienza e hai intenzione di pubblicarlo. E di partire di nuovo e cercare nuove parti di te stesso che non conosci e che solo così puoi conoscere.

Il tempo si è fermato in quell’istante. Ti guardo e vedo solo quelle rocce che si spostano spinte dal vento verso una nuova direzione.

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Bianca Giacalone

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