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Euforia: recensione del nuovo film di Valeria Golino

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Elia Brocchini

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2018, Euforia è il secondo lavoro da regista di Valeria Golino che, come già aveva fatto in Miele (2013), torna a parlare del tema della malattia terminale. Questa volta però lo fa attraverso il punto di vista della vittima e dei suoi cari. Oltre a questo, il film riesce anche ad affrontare altri temi durante il suo svolgimento: uno fra tutti i rapporti famigliari, ma anche l’omosessualità, l’amore, la religione e il concetto di etica e moralità.

Lo scontro e l’incontro tra due fratelli

Il film si apre presentandoci Matteo (Riccardo Scamarcio), un imprenditore di successo e apertamente omosessuale che vive circondato dal lusso e che all’apparenza conduce una vita perfetta. Lo vediamo infatti come un uomo sicuro di sé, con un buon lavoro e una vita sessuale e sociale soddisfacente. Tuttavia questo si rivela solo un’effimera facciata rispetto alla vera personalità di Matteo, che scopriremo poco a poco essere dipendente dalla droga e fondamentalmente insicuro della sua persona, tanto da arrivare ad intervenire chirurgicamente per rifarsi i polpacci. Il fratello maggiore di Matteo, Ettore (Valerio Mastandrea), è invece l’opposto. Un uomo pacato, insegnante in una scuola di provincia, che ha lasciato la moglie dopo essersi innamorato di una donna più giovane. La scoperta della malattia di Ettore, che Matteo terrà nascosta sia al fratello che al resto della famiglia, porterà i due ad avvicinarsi e a conoscersi come mai avevano fatto prima.

Inizialmente il film sembra svolgersi in maniera corale, presentando i vari amici e parenti di Matteo che si riuniscono per un pranzo di gruppo. La scena ricorda molto i film di Özpetek, con la famiglia riunita a tavola che racconta aneddoti di vita quotidiana, ridendo e scherzando sullo sfondo di una tragedia che lo spettatore sa che si profilerà di lì a poco. Questo apparente idillio, infatti, durerà poco: sarà Ettore stesso a chiedere a Matteo di far andare via tutti, quasi fosse infastidito dalla loro presenza. Da questo momento in poi gli altri personaggi rimarranno sullo sfondo e l’intero film si concentrerà sul rapporto tra i due fratelli. Il tono stesso della narrazione subisce un cambiamento. I momenti da commedia andranno sempre più affievolendosi, portando il film a collocarsi pienamente nel genere drammatico.

Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea in una scena del film.

La relazione tra Ettore e Matteo diventa quindi l’occasione per affrontare uno scontro non solo caratteriale ma anche generazionale. Da una parte Matteo rappresenta la modernità, un imprenditore senza scrupoli che si esprime mischiando parole inglesi all’italiano e che vuole sempre apparire al meglio esteriormente, come ormai la società richiede sempre di più. Ettore rappresenta invece l’uomo classico e tradizionale, che conduce una vita normale e che ha un lavoro normale, che non si preoccupa troppo del suo aspetto esteriore e la cui vita sociale è pari a zero. Sulla carta i ruoli sembrano chiari ma, con l’andare del film, le parti si invertiranno e scopriremo una forza vitale in Ettore che mai ci saremmo aspettati, mentre dall’altra parte capiremo che la sicurezza mostrata da Matteo è in realtà una copertura che nasconde un animo più fragile e insicuro rispetto a ciò che vediamo a primo impatto. La scelta di Matteo di non far sapere la reale gravità della malattia a Ettore sembra quasi un modo per proteggere sé stesso ancor prima del fratello. Il bisogno di avere tutto sotto controllo fa sì che Matteo stesso si autoconvinca che la malattia non sia poi così grave. Il suo circondarsi di amici con cui far festa, uomini con cui fare sesso o droghe di cui abusare sono tutti modi per cercare di colmare un vuoto interiore e dare l’idea di star bene, quando in realtà non è così. E quando nel finale Ettore verrà a conoscenza della gravità del suo male, per assurdo sarà Matteo a essere il più sconvolto tra i due, come se la malattia fosse stata vissuta da entrambi nella stessa misura.

Un altro punto positivo del film è il modo in cui rappresenta l’omosessualità. Troppo spesso nel cinema italiano siamo abituati a vedere personaggi gay che sono delle semplici macchiette, caratterizzate in larga parte (se non totalmente) da stereotipi banali e anacronistici. È bello vedere che in questo caso l’omosessualità di Matteo non sia il tratto caratterizzante della sua personalità ma un semplice orientamento sessuale, che non condiziona la sua vita ma che, anzi, viene accettato da lui stesso e da chi gli sta intorno con la massima naturalezza. Oltre a questo, è apprezzabile anche il modo in cui si è scelto di raccontare la malattia e il suo decorso, senza scene dirette verso il pietismo o strappalacrime. Ciò che viene mostrato è la quotidianità e i piccoli gesti che possono migliorare anche solo una giornata. Pur sapendo che Ettore morirà, il film decide di fermarsi prima che ciò avvenga o che la malattia diventi estremamente debilitante per la mente e per il fisico dell’uomo. La regista sceglie di chiudere una storia drammatica e destinata alla morte con un finale che vede il riavvicinamento dei due fratelli. Viene offerto allo spettatore un lieto fine, anche se la consapevolezza è che la storia non finisca qui ma terminerà inevitabilmente con la morte di Ettore.

Una riconferma per la regista Golino

Valeria Golino in una foto dal set.

Euforia rappresenta il secondo titolo con la firma di Valeria Golino come regista. Il primo, Miele,con protagonista Jasmine Trinca, aveva già ottenuto riconoscimenti positivi da parte della critica italiana ed estera e questo secondo lavoro segna una conferma per il lavoro registico dell’attrice. Euforia ha infatti ricevuto ben sette nomination ai David di Donatello, tra cui miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura originale. Nominati anche i due attori Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, rispettivamente come miglior attore protagonista e non. Se per Mastandrea non è una sorpresa (sono ormai ampiamente riconosciute le sue capacità attoriali), ciò che sorprende nel film è un Riccardo Scamarcio in stato di grazia che riesce a reggere l’intero film con una performance convincente e solida, probabilmente la sua miglior interpretazione di sempre. Valeria Golino, dopo essere stata nominata come miglior regista esordiente (ai David la categoria registica è divisa in due categorie) per Miele, riesce quest’anno a prendersi un posto tra i cinque candidati per la miglior regia. Da sottolineare come, oltre alla Golino, sia nominata in questa categoria anche Alice Rohrwacher per la regia di Lazzaro Felice, dimostrazione che il cinema italiano sembra essere molto più aperto alle regie femminili rispetto a Hollywood e agli Oscar.

Nell’edizione dei David del 2014 anche Miele riuscì ad ottenere sette nomination, ma purtroppo tornò a casa a mani vuote. Non è da escludere che lo stesso possa succedere anche in questa edizione, a causa della forte concorrenza in ogni categoria. Sono presenti film importanti e che già hanno ricevuto riconoscimenti internazionali, come Chiamami col tuo nome o l’acclamato Dogman di Garrone. Non va dimenticato nemmeno Sulla mia pelle, il film basato sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, che ha colpito sia per il tema trattato che per la perfetta interpretazione di Alessandro Borghi, nominato come miglior attore protagonista insieme a Scamarcio. Ma a prescindere dai premi che porterà o meno a casa, Euforia rimane un film valido che punta tutto sull’interpretazione dei suoi due attori principali, riuscendo a unire con il giusto equilibrio momenti di dramma e tensione ad altri che riescono a strappare un sorriso, in un racconto basato sull’euforia delle piccole cose che spesso hanno un significato più profondo e aiutano a sopportare i momenti più difficili della vita.

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Elia Brocchini

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