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La casa di Jack: l’ultima provocazione di Lars von Trier

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Anastasia Piperno

Lars von Trier, punto cardinale del cinema europeo contemporaneo, torna dopo Nymphomaniac (2013) a gettare scompiglio nella critica e nel pubblico. Bandito dal festival di Cannes dopo le sue dichiarazioni nel 2011, in cui affermava di capire Hitler e simpatizzare con lui, con un atto di pacificazione è stato riaccolto – ma fuori concorso – nell’ultima edizione svoltasi per presentare il suo The House that Jack Built (2018), arrivato qui in Italia dopo diversi mesi con il titolo La casa di Jack. Infatti anche l’ultima fatica del regista danese non ha mancato di suscitare clamore e scandalo, in questo caso per i contenuti violenti (sono presenti scene di violenza verso donne, bambini e animali), tanto che alcuni spettatori presenti alla première sarebbero usciti disgustati dalla sala.

Si tratta infatti della storia di un serial killer americano, Jack (Matt Dillon), che racconta ad un interlocutore all’inizio non meglio identificato la sua esperienza di dodici anni, scegliendo cinque “incidenti”, come da lui definiti, ovvero cinque assassini chiave per lo sviluppo delle sue imprese. Il film è stato ritardato nell’uscire anche qui in Italia proprio per delle traversie legate alla censura: nel 28 febbraio 2019 arriva nelle nostre sale con una versione doppiata italiana, in cui sono presenti dei tagli sulle scene più cruente, ma anche con una versione originale e sottotitolata integrale, entrambe vietate ai minori di diciotto anni. Rispetto a tanto del cinema horror contemporaneo le scene di violenza grafica non prendono una parte estesa del film, talvolta vi sono anche elusioni (il taglio di un seno, ad esempio, il cui movimento viene mostrato solo nel suo inizio e poi troncato in montaggio), perché la provocazione fondamentale – tipica di un regista che ama scioccare, disturbare e sfidare i limiti dell’accettabilità nella ricezione pubblica – non risiede nella violenza nuda e cruda, ma nel viaggio nella mente di Jack.

L’arte del serial killer

Pare un cerchio che si chiude. Il primo lungometraggio di Trier infatti era L’elemento del crimine (1994), dove un detective seguiva un pericoloso metodo di indagine che prevedeva l’identificazione totale con il serial killer. Il film presentava un’affascinata curiosità per la mente del criminale, che torna ne La casa di Jack. Il legame tra le due opere non è affatto casuale: non solo nell’opera del ‘94 c’era una filastrocca popolare, che recitava «this is the cow with the crumpled horn / that tossed the dog / that worried the cat / that killed the rat / that ate the mold / that lay in the house that Jack built», echeggiando dunque il titolo originale di The House that Jack Built, ma in quest’ultimo Trier integra riferimenti al suo cinema precedente, compreso il suo esordio, suggerendo l’idea che si possa trattare del suo lungometraggio finale.

Il regista infatti ha affermato di non reggere più lo stress di questo tipo di operazione e che forse in futuro farà soltanto cortometraggi. Qui l’identificazione (non totale) con il serial killer è rintracciabile, ma come riferimento autobiografico: Trier infatti costituisce un visibile ed ironico, parodistico parallelismo tra la sua carriera e trascorsi artistici e il racconto di Jack, che concepisce pure sé stesso come artista. Questo è già un punto provocatorio più centrale. È importante dire che tutta la narrazione si costituisce come filtrata dalla percezione di Jack, il quale infatti nei primi minuti del film parla al suo interlocutore chiedendo di poter raccontare di sé, e il secondo accetta, lasciando ad intendere tante esperienze in merito, visto che le persone «sono sopraffatte da una strano bisogno di confessarsi durante questi viaggi».

L’ambientazione iniziale non è ancora definita, echeggiano rumori acquei, e il film per il resto, a parte il finale, sarà costituito dalla narrazione di Jack inframezzata da interventi in voice-over del dialogo tra i due. Nel corso del film, intensificandosi la crudezza malata dei suoi atti e così anche dello stato mentale con cui sono stati commessi, ci saranno interruzioni visuali sempre più larghe, dove si inseriscono immagini di repertorio, esemplificazioni illustrative dei discorsi di Jack e della sua filosofia. Questo riunire disparati materiali, dalla letteratura, arte, storia, cinema, musica e cronaca (si trovano persino immagini sulle tecniche di decomposizione degli zuccheri nell’industria vinicola) non è nuovo a Trier, che aveva impostato così anche il suo precedente Nymphomaniac e costituisce un parziale intento enciclopedico, didascalico della sua opera.

Tutto è orientato e rimaneggiato dalla tesi di Jack, secondo cui gli omicidi da lui commessi sono opere d’arte. Il primo accenno si può trovare quando il viso deturpato di Uma Thurman, che interpreta la vittima nel primo incidente, viene sovrapposto a un dipinto cubista di Juan Gris. L’arte di Jack quindi è un arte effettivamente sui generis, distorta e soprattutto distruttiva. Insistendo sull’importanza del materiale, che sembra spesso suggerire da sé la via all’artista, ciò con cui ha a che fare Jack sono prima vittime innocenti, a cui strappa la vita e la cui morte è assolutamente gratuita dal punto di vista morale, e poi con i loro corpi lividi, mutilati, putrefatti, che sistema con un suo modo compositivo grottesco. Si costituisce debolmente, negli intenti del protagonista, un’altra opera in corso, che appartiene più canonicamente alla sua professione di ingegnere: l’edificazione di una casa.

Jack infatti, che vive di una cospicua eredità, è un ingegnere e “aspirante” architetto («l’ingegnere legge la musica, l’architetto la compone», dice lui). Il personaggio di Dillon ha una mania perfezionistica, un senso del controllo maniacale e un disturbo ossessivo-compulsivo che ha anche il regista, ma Jack si trova in un’impasse per quello che riguarda il piano della sua futura casa. Sempre più durante il film gli assassinii assorbiranno i suoi intenti artistici, espressivi e il piano della casa, dopo esitazioni, cancellazioni, passerà in secondo piano. Si può leggere in questo accantonamento l’evidenza dell’impossibilità di Jack di fare un’arte realmente costruttiva e positiva, sprofondando invece nella distruzione in cui trova un crudo, più energico piacere, tanto da ri-integrare ad un certo punto la distruzione del suo stesso piano architettonico come un’ulteriore affermazione artistica.

Pensando ai casi di cronaca e ai serial killer realmente esistiti, fino a capi di Stato quali Hitler (che viene ri-citato da Trier durante il film, in un atto ancora parzialmente provocatorio e di ammiccamento alle traversie vissute a Cannes, quando Jack si accosta ad esso nel gruppo dei “grandi artisti del male”),  ad esempio possono essere interpretati come personalità il cui fallimento artistico – da una parte per quel che riguarda la musica, dall’altra per quel che riguarda la pittura – è stato pure causa della deviazione verso un progetto ben diverso, omicida, interpretato specialmente da Hitler come la realizzazione megalomane di un grosso piano. L’incapacità, dunque, di realizzarsi un ambito più canonicamente positivo e l’inadeguatezza per esso può aver concorso nell’accostarsi a ben altri piani, come succede a Jack. Allora l’arte di quest’ultimo è un arte della rovina, del fallimento, nonostante l’egotismo, il narcisismo che fanno rileggere il tutto al diretto interessato come tutt’altro che come prova in negativo, di una sconfitta, ma come persuasiva attestazione delle proprie capacità.

Trier d’altronde inserisce Jack in una storia del cinema di genere (il regista danese infatti non è alieno ad alcune rielaborazioni, come quella dell’horror in Antichrist), giocando sulla figura tipica dell’omicida seriale attraverso, ad esempio, il servirsi di un classico furgoncino rosso, un certo abbigliamento e alcuni tipici comportamenti, come la mancanza di empatia e la capacità di recitarla, adottare una maschera empatica, materia di commedia nera durante il film. Esplicito è poi il dialogo tra Jack e la petulante, fastidiosa prima vittima, che scherza sull’eventualità che lui possa essere un serial killer, dato l’aspetto e il contesto; ma anche l’uso beffardo dei cartelli per la definizione psicologica di sé che Jack fa con lo sguardo rivolto all’obiettivo della camera.

Lars von Trier ricostruisce in questa inquadratura un celebre dipinto di Eugène Delacroix, La barca di Dante (1822). Foto: frammentirivista.it

Trier costituisce appunto un dialogo tra Jack e il suo interlocutore, che presto verrà nominato come Verge (Bruno Ganz), ovvero Virgilio. Bruno Ganz, recentemente scomparso, non può che ricordare un altro suo ruolo nell’ormai classico Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, dove interpretava uno dei due angeli che passeggiavano, invisibili, per le vie di Berlino, riflettendo su Berlino e i berlinesi, tra passato e presente. Replica allora questo ruolo peripatetico e ultraterreno qui in La casa di Jack, ma il riferimento è all’immaginario della Divina Commedia. Si intuirà, infatti, che la percezione acustica di essere in un ambiente acqueo non era casuale, dato che Jack, accostato a Dante (indossa persino le sue vesti), si trova nell’Inferno e Virgilio lo sta accompagnando nella sua discesa. Dopotutto possiamo ricordare che Dante descriveva l’Inferno come il regno di coloro che hanno rifiutato i valori spirituali, cedendo ad appetiti bestiali e alla violenza o pervertendo il loro umano intelletto alla frode o alla malizia contro gli altri uomini.

Si pone che la stessa discesa nell’Inferno è interpretabile come una figurazione mentale di Jack, che integra nel suo colto immaginario anche la condanna morale del mondo in cui vive (pur nobilitandosi e non potendo fare a meno di accostarsi a Dante, il quale pure era impegnato in un’impresa artistica, letteraria di grande portata) attraverso illustri, universali esempi della propria cultura occidentale. In un film che dà tanto alla parte intellettuale non può che essere calzante che infatti l’intelletto di Jack sia stato piegato ai propri impulsi sia bestiali che perversi, attraverso cui ha fatto danno anche ad altri esseri umani, tra le sue azioni e le illustrazioni che offre a Verge sul suo pensiero. Trier usa il personaggio di Ganz per integrare la parte argomentativa avversa, quindi quella della morale, che interviene nel corso del film, rispondendo a Jack, proponendo un’arte fondata al contrario sull’amore, sull’umanesimo (uno dei suoi esempi illustrativi è Goethe).

Trier in The House that Jack Built dunque si pone come previdente, interpretando anche una spontanea reazione dello spettatore e inserendola. In questa reazione dunque c’è un rifiuto, talvolta un’indignazione e poca persuasione verso l’idea di un’arte superiore ai punti più sacri e universali della morale (“non uccidere” è un comandamento radicato nella coscienza umana, e che va chiaramente oltre al campo religioso). Quello di Trier quindi è un sistema in parte dialettico, dove sarebbe riduttivo credere che stia sostenendo letteralmente la posizione di Jack, come quella di Verge: La casa di Jack è anche un esperimento, un’altra sonda sui confini umani, dove toccare un estremo tanto oscuro è anche un modo non soltanto per solleticare uno shock estemporaneo dello spettatore, che lascia appunto il tempo che trova, ma per solleticare una riflessione più ampia con una sorta di coraggiosa spregiudicatezza, per smuovere qualcosa che pure alberga nell’umano nei suoi anfratti più nascosti, poco illuminati dalla società civilizzata. Sotto questo aspetto la possibile opera-testamento di Trier è anche l’ennesimo approfondimento della natura umana fino all’estremo, e che pure si rifà alla sua una concezione antropologica notoriamente pessimista.

Nell’esempio forse più compiuto, migliore che è Dogville – concepito a sua volta come un’illustrazione, qui proprio sulla profonda essenza dell’uomo -, ma anche in tante altre sue opere, l’uomo è puntualmente smascherato nei suoi istinti più maligni, abietti e violenti, lontano da un’immagine idealistica di empatia, generosità, bontà. La parte irrazionale, distruttiva e bestiale che accomuna l’uomo agli altri animali porta in molte dinamiche dei film di Trier ad una deriva e una distruzione definitiva, senza redenzione. Senza redenzione infatti è anche Jack, che va contro la comune idea secondo cui il cammino nell’Inferno sia anche quello di un pentimento, di un ravvedimento e riconoscimento del proprio male e delle proprie colpe. Il suo personaggio invece non cambia atteggiamento, idee e obbedisce ad un suo connaturato e puntuale egoismo.

Così anche nell’arte si scatena l’irrazionale e un impulso che è al di là di un dualismo morale, tanto che è Jack stesso a citare un’idea diffusa secondo cui le atrocità che si commettono nel contesto della creazione finzionale – ed è qui che Trier fa una sequenza di estratti dai propri precedenti film – sono desideri che dimorano nel nostro interno e che non potremmo realizzare nella controllata civiltà. L’arte come esorcismo di un dolore, di una pena, di un impulso è accostabile a Trier stesso, attraverso ad esempio la sua trilogia della depressione (Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac) che parte da situazioni e sentimenti personali, per trovare sfogo nel processo artistico, una sublimazione (persino un sublimato bisogno di estinzione, se si pensa allo sfondo apocalittico di Melancholia).

Così anche si può inserire quella parte di repertorio in La casa di Jack dedicata a William Blake, dedicata alla tigre e all’agnello. Si tratta di un ulteriore riferimento non soltanto ad una comune mentalità omicida, assetata dell’innocenza e del dolore della propria vittima, ma anche al processo artistico di Trier che affonda così tanto nella discesa vertiginosa nel dolore. Jack, pure da manipolatore qual è, pone un punto interessante rispetto a Trier stesso quando dice che la tigre, che vive nella sete di sangue e di assassinio, e uccide l’agnello, è come l’artista, che concede all’agnello una consacrazione eterna nell’arte, la quale è divina. Nella filmografia di Trier trova spazio anche una trilogia dei cuori d’oro (Le onde del destino, Dancer in the Dark, Idioterne), accostabile poi anche a lavori successivi come Dogville: nei primi due della trilogia e in quest’ultimo al centro c’è una protagonista, spesso di indole buona, se non proprio descritta come pura (nel caso, ad esempio, de Le onde del destino) o accostata a figure cristologiche come Grace in Dogville, che emerge come una mosca bianca in un mondo spietato, che risucchierà le sue energie, i suoi affetti, subirà una progressiva distruzione emotiva, prosciugamento. In questi casi l’innocenza della protagonista, inquadrata come vittima di una situazione sempre più serrata, claustrofobica, sia psicologicamente che fattualmente, è sfruttata da Trier probabilmente per rivedervi un proprio dolore, per sfogarlo, e tutte le pene che fa attraversare al proprio personaggio ne fanno una figura finzionale che catalizza su di sé un’esperienza artistica catartica, sia per il creatore che per lo spettatore, partecipe delle sue pene.

Foto: projectnerd.it

Non è un caso neppure che molte protagoniste di Trier siano donne e che i cinque “incidenti” scelti da Jack riguardino, ancora, donne. È da Il grande capo (2006), quindi da dodici anni, che Trier non sceglieva come protagonista di un suo film un personaggio maschile. Le donne di La casa di Jack emergono indistintamente come oche, ottuse, stupide e mediocri. Tuttavia è legittimo sollevare la possibilità che molti dei dialoghi che avvengano nella narrazione di Jack siano stati distorti dalla sua percezione, facendo sì che i ritratti offerti siano una peculiare percezione aprioristica della donna che l’omicida ha, dall’alto del suo senso di sé, della sua intelligenza e della sua superiorità verbale. Nel suo intento integrativo, attraverso la parte di Verge, si solleva infatti la domanda su questo ritorno di vittime soltanto femminili e con questo tipo di sprovvedutezza.

Jack nega un’accusa di misoginia, e questo non fa che riecheggiare in un’ottica finzionale appunto parodistica, un po’ grottesca le accuse di misoginia rivolte allo stesso Trier, sia per il contenuto di alcuni suoi film, dove è la donna primariamente a soffrire, sia per alcuni comportamenti, si dice, sul set. L’empatia data verso la donna a Trier però può suggerire un altro livello di interpretazione, ovvero che Jack rappresenti anche l’operato maschile verso la donna, dunque un intero sistema radicato nel corso dei secoli di violenza, di cui aveva già parlato, ad esempio, in Antichrist (come decifrato pregevolmente da Quinlan). Anche qui il maschile si carica di una razionalità superiore, qui attraverso la parte enciclopedica di tutta l’estensione di una cultura nel corso del tempo, di un’arte di sopraffazione e distruzione. Le armi del maschile sono armi depotenzianti, riducenti del mondo intorno a sé, comprendendo dunque anche il polo femminile, additato spesso come stregonesco, irrazionale, inferiore.

Stolida e infima però è anche la società statunitense ritratta da Trier – che aveva già dato una visione pessimistica del “paese delle promesse” in Dogville, ad esempio. Oltre i veli di perbenismo, ottimismo, religione fondativa protestante e puritana, dimora un cuore marcio, un’indifferenza generale, testimoniata dal silenzio che circonda le richieste di aiuto di altre vittime, un’eccessiva credulità – è la stessa che poi avrebbe causato la caccia alle streghe di Salem, per tornare ad Antichrist, ma anche alla facili accuse nei processi mediatici di oggi, in cui può essere inglobato lo stesso scandalo recepito per il film di Trier, senza tanta riflessione –, una cecità o indolenza della giustizia americana, ma anche un’ipocrisia di fondo rispetto ai valori millantati. Essi sono puntualmente spazzati via dalla più universale natura umana già sopra descritta.

Che sia un’opera testamentaria, finale o no, l’opera di Trier si presenta come controversa, provocatoria, ma non di certo senza reali punti di interesse, da parte di un regista che ormai ha fatto la storia del cinema e lancia un’ultima pietra nel panorama artistico, smuovendo la sensibilità del pubblico e della critica.

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