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Vertice di Hanoi: Kim e Trump in un nulla di fatto

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Carlo Paganessi

Alla fine di febbraio il presidente degli Stati Uniti e quello della Corea del Nord si sono riuniti per il vertice di Hanoi, dove hanno ripreso in mano un discorso lasciato in sospeso dal precedente vertice di Singapore della scorsa primavera. L’incontro sullo stretto di Malacca si risolse con un’essenziale vittoria di Kim, che promise una riduzione del programma nucleare a fronte di un alleggerimento delle sanzioni. La grossa falla della strategia negoziale di Trump in quella circostanza fu di non aver previsto una road map o dei controlli periodici da effettuarsi nei siti missilistici e nucleari nordcoreani. Il vertice di Singapore venne considerato da più parti un fallimento dell’attuale amministrazione statunitense.

Il secondo vertice tra Washington e Corea del Nord non si è aperto con i migliori auspici per il versante americano, considerando la contemporaneità mediatica degli scandali che hanno investito la presidenza Trump. Nei giorni precedenti, un revival del caso Cohen ha portato alla luce nuove rivelazioni in merito alla campagna elettorale del 2016 e alla vita privata del presidente. Tale avvenimento ha, in parte, oscurato il summit e annullato i benefici che questo doveva avere sul consenso interno del presidente. La Corea del Nord, dal canto proprio, arrivava al summit forte di una posizione da pari, de facto, ma con diversi scheletri nell’armadio da nascondere: nei giorni precedenti circolavano già foto di impianti missilistici in ricostruzione dopo le demolizioni che seguirono il vertice dello scorso anno.

Quest’anno i toni sono stati comunque distesi, ma non si è arrivati ad una bozza di accordo: la mattina del secondo giorno, infatti, le due delegazioni hanno interrotto le negoziazioni in modo abbastanza repentino. Il motivo della rottura verte principalmente sul numero di impianti da chiudere e sulle sanzioni da togliere. La versione di Trump è che la Corea del Nord richiedesse una totale rimozione delle sanzioni a fronte della chiusura dell’impianto di Yongbyon, ma è stato prontamente smentita dal ministro degli esteri nordcoreano Ri Yong Ho, il quale ha svelato che la richiesta di cancellazione era solo parziale: gli Stati Uniti avevano richiesto la chiusura di più siti, non solo legati all’ambito nucleare. Dopo il rifiuto nordcoreano, le negoziazioni si sono interrotte e i le parti si sono allontanate dal tavolo.

L’uscita dal tavolo negoziale non ha però contemplato porte sbattute con eccessiva violenza e questo consente un ritorno ai negoziati in un futuro prossimo. Almeno questa è la speranza dell’amministrazione Trump, anche nella sua componente più estremista. Persino un falco come John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, ha auspicato il ritorno ai negoziati, sebbene abbia posto un’alternativa decisamente severa come quella dell’aumento delle sanzioni verso Pyongyang. La Corea del Nord, dal canto suo, presenta diversi stimoli a tornare al tavolo negoziale, primo tra tutti l’interruzione delle sanzioni.

Se Pyongyang da un lato continua a mostrarsi disponibile per un’eventuale risoluzione sul tavolo negoziale, dall’altro continua a ricostruire strutture. Un report dei servizi d’intelligence di Seul, pochi giorni prima del vertice di Hanoi, ha mostrato al mondo come Pyongyang stesse ricostruendo diverse strutture nel sito di Sohae, in passato usato prevalentemente per lanci di satelliti. Altro sito in cui si sono registrate attività sospette è quello di Sanmudong, dove, secondo le intelligence occidentali, si starebbe preparando un nuovo test missilistico da interpretarsi come risposta alla mancata cancellazione delle sanzioni.

Trump sperava nel vertice di Hanoi anche per risollevare la propria immagine nel paese a fronte degli scandali e in previsione delle prossime probabili primarie del partito repubblicano. Il fallimento del negoziato, invece, può rappresentare un problema per l’immagine del presidente, dando la sensazione di essere un capo di stato che non è in grado di farsi rispettare e di proiettare la forza statunitense all’estero. La chiusura infruttuosa del negoziato è stata colpa di entrambi, con i due schieramenti che si sono presentati al tavolo negoziale del vertice di Hanoi con aspettative diametralmente opposte: l’uno con lo smantellamento completo del programma nucleare nordcoreano, l’altro con la rimozione completa delle sanzioni.

La delegazione nordcoreana si è presentata al tavolo con la convinzione che portare avanti gesti che imitassero il disarmo (senza che ve ne fosse uno vero e proprio) fosse sufficiente a placare gli Stati Uniti ma così non è stato. Tali gesti includevano disattivazioni di impianti e demolizioni di edifici collegati all’ambito nucleare e missilistico. Dal lato statunitense, invece, una delle più grandi colpe è stata proprio la volontà di Trump di aggirare i canali della diplomazia tradizionale per puntare al dialogo tra leader. Se da un lato questa tecnica può funzionare perché garantisce la fiducia personale tra i due capi di stato, diventa controproducente nel momento in cui vi è uno stallo, perché non esistono livelli più alti che possono intervenire per risolverlo.

La responsabilità del fallimento del vertice di Hanoi sta da ambo le parti: la continua ricerca di metodi alternativi alla diplomazia tradizionale ha danneggiato la qualità dei colloqui e ha facilitato l’insorgere di crepe nella fiducia tra i due leader. Entrambi perdono qualcosa, ma la situazione di Trump sembra essere più grave, considerato che la storia passata recente in politica estera (la debolezza mostrata nei vari dossier Nato e Medio Oriente) può influire negativamente sulla campagna elettorale per le primarie repubblicane. Le porte negoziali con la Corea del Nord sono ancora aperte, ma una situazione irrisolta sulle sanzioni può portare a una nuova escalation di tensioni come quella di fine 2017.

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Carlo Paganessi

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