Vista la sorte della Tav sempre più incerta, l’alleanza gialloverde ha spostato l’attenzione su un nuovo, ennesimo territorio di scontro, ovvero la famosa – o famigerata – Nuova Via della Seta (detta anche BRI, Belt and Road Initiative), appoggiata dal M5S ma osteggiata dalla Lega. La BRI, sostenuta con forza dal governo cinese guidato da Xi Jinping, ha lo scopo di mettere in comunicazione tre continenti – Asia, Africa, Europa – mediante connessioni infrastrutturali. Sarebbero circa settanta gli Stati ad aver aderito all’iniziativa, che prevede finanziamenti per un valore superiore a mille miliardi di dollari americani. L’Italia, da sempre interessata al progetto, sarebbe il primo Paese del G7 a entrare a farne parte: il 23 marzo il nostro governo ha firmato un Memorandum of Understanding che ribadirà la sua posizione in merito. Ciò non ha mancato di suscitare le critiche di USA e EU, che hanno definito l’accordo della Cina con l’Italia un “cavallo di troia” per entrare in Europa.
La Nuova Via della Seta e il ruolo dell’Italia
Xi Jinping presentò la Nuova Via della Seta nel settembre 2013, in Kazakistan, pochi mesi dopo la sua elezione per il primo mandato. La Cina ha pubblicizzato questa operazione su vasta scala come un nuovo Piano Marshall, che permetterebbe ai Paesi coinvolti di realizzare le infrastrutture necessarie per favorire lo sviluppo socioeconomico. Il nome di Nuova Via della Seta deriva anche dal fatto che, come la sua antenata, mirerebbe a diventare un importante vettore economico e culturale.
La BRI prevede due direttrici, una terrestre e una marittima. La prima, chiamata Silk Road Economic Belt si strutturerebbe lungo quattro arterie principali: il New Eurasian Land Bridge, ferrovia che collegherebbe la provincia cinese di Jangsu a Rotterdam; una serie di connessioni mediante autostrade e ferrovie tra Cina, Mongolia e Russia; un corridoio diretto dalla Cina all’Asia centrale e poi occidentale, fino ad arrivare al Mediterraneo; un asse che porterebbe dalla Cina fino alla Penisola Indocinese e a Singapore. La direttrice marittima (Maritime Silk Road) seguirebbe invece due linee principali: una che arriva al Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, la seconda che raggiunge l’Asia passando per il Mar Cinese Meridionale.
Che ruolo ha l’Italia in tutto questo? Innanzitutto, è bene dire che l’Italia aveva dimostrato il proprio interesse per il progetto già con il governo Renzi: l’ex-presidente del Consiglio nel 2016 aveva infatti definito la Nuova Via della Seta una «grande opportunità». Dopo di lui, nel 2017 l’ex-premier Gentiloni era stato l’unico leader del G7 ad aver presenziato al primo Forum internazionale per la Belt and Road Initiative, e nello stesso anno anche il Capo di Stato Sergio Mattarella aveva incontrato Xi Jinping a Pechino per rinforzare i rapporti tra i due Paesi. Il M5S ha continuato lungo la stessa linea, viste le visite del vicepremier Di Maio in Cina, mentre i leghisti esprimono forti dubbi riguardo al progetto.
Pechino ha tutto l’interesse di mantenere ottimi rapporti con il nostro Paese: secondo i piani della Nuova Via della Seta, l’Italia rappresenterebbe un partner strategico soprattutto per la direttrice marittima. Se infatti la Cina ha già un accesso al Mediterraneo grazie al controllo del Porto del Pireo di Atene (per il 51% di proprietà della Cosco – China Ocean Shipping Company), il nostro Paese offre due importanti punti di sbocco verso il Tirreno e l’Adriatico con i porti di Genova e Trieste. Nel caso del porto ligure, l’obiettivo sarebbe quello di firmare un accordo con la Cccc (China Communications Construction Company), terza società di costruzioni al mondo, per cooperare nell’affidamento di appalti per la realizzazione di grandi opere nell’area. Per lo scalo di Trieste è prevista invece la firma di un accordo che migliori la rete ferroviaria, fino a costruire una tratta Trieste-Chengdu (capoluogo della provincia cinese dello Sichuan).
Le trattative in corso tra Cina e Italia hanno suscitato diverse critiche da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. La ragione principale è la paura – probabilmente non infondata – che Xi Jinping stia sfruttando la Nuova Via della Seta per costruire una vasta area di influenza geopolitica. In effetti, è stato notato come la Cina stia attuando in Asia un’operazione di debt-rapt diplomacy: Pechino ha concesso ingenti prestiti ai Paesi economicamente più deboli coinvolti nella Nuova Via della Seta per permettere loro di realizzare le infrastrutture previste, ed essi si trovano ora in una condizione di forte dipendenza economica e politica dal gigante asiatico. Per questa ragione la Malesia – che insieme a Sri Lanka e Pakistan è uno degli Stati che hanno subito particolarmente questa strategia cinese – ha cancellato 23 miliardi di investimenti nella BRI accusando la Cina di «nuovo colonialismo». Il timore dell’UE e degli USA è che la stessa cosa possa accadere anche all’Italia, permettendo così alla Cina di avere un punto di approdo da cui instaurare una maggiore influenza in Europa. Oltretutto, si vuole evitare un legame che potrebbe portare Roma ad ostacolare eventuali decisioni dell’UE contrarie alla politica di Pechino.
Un secondo motivo che crea perplessità tra i nostri alleati occidentali è il pericolo di fuga di dati sensibili a causa dell’uso della tecnologia 5G, sviluppata principalmente da Huawei. Accusando l’azienda cinese di fare spionaggio per il proprio governo, gli USA hanno vietato l’uso del 5G Huawei su suolo statunitense, e hanno spronato gli alleati occidentali a fare altrettanto. Ora gli Stati Uniti temono che il memorandum tra Italia e Cina preveda la diffusione nel nostro paese della tecnologia 5G, e vedono così a rischio la protezione di informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale.
Sebbene vi siano numerosi dubbi relativi alla Nuova Via della Seta, il progetto cinese rimane un’offerta che è difficile rifiutare a priori. La Cina sta diventando sempre più un partner economico di cui bisogna tenere conto: essa è per l’UE il secondo mercato di sbocco del nostro export e il primo Paese da cui importa merci, e tra Cina e Italia vi sono relazioni commerciali per un valore complessivo superiore ai quaranta miliardi di dollari. Oltretutto, bisogna dire che nonostante le critiche degli altri Stati dell’Unione non siamo né gli unici né i primi nell’UE in materia di rapporti con Pechino. Il valore degli scambi tra Francia e Cina equivale infatti a circa settanta miliardi di dollari, mentre quello tra Germania e Cina supera i centonovanta miliardi. L’Italia non è neanche il solo Paese a giocare un ruolo importante nella partita per la Nuova Via della Seta: la città di Duisburg, in Germania, costituisce infatti un punto fondamentale di snodo ferroviario per il progetto, da cui partono linee che si collegano con la metropoli cinese di Chongqing.
Inoltre, l’UE sbaglia a comparare l’Italia ai Paesi asiatici vittima della debt-trap diplomacy di Pechino: il nostro Paese è economicamente più forte, e dispone di strumenti finanziari che permettono di tutelare gli interessi pubblici. Un esempio è il golden share, attraverso il quale lo Stato può permettersi di esercitare potere di veto o di gradimento in merito alla privatizzazione di un’azienda pubblica.
Per quanto riguarda la minaccia di uno spionaggio cinese favorito dalla diffusione della rete 5G, bisogna ammettere che non ci sono prove, ma il pericolo comunque non può essere escluso: basti sapere che ogni azienda cinese è obbligata a fornire, qualora richieste, le informazioni possedute al governo di Pechino. Molti Paesi, come Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito, hanno infatti scelto di bloccare la rete 5G. In Italia, Huawei sta investendo molto, e detiene un terzo del mercato telefonico. Per questo la Lega – preoccupata dagli avvertimenti statunitensi – ha affermato di aver trattato per un memorandum più “soft” che non preveda l’introduzione del 5G Huawei in Italia. In realtà, già il presidente Sergio Mattarella ha affermato che nel memorandum per la BRI non è presente alcun accordo riguardante il 5G. Sicuramente, sarebbe comunque in ogni caso sbagliato ignorare del tutto gli allarmi USA: i recenti grandi investimenti della Cina in Sardegna – unica regione italiana in cui si svolgono le esercitazioni di tutti i reparti NATO europei – appaiono una coincidenza fin troppo sospetta.
L’importanza di cogliere i vantaggi con cautela
È innegabile che la Cina stia effettivamente cercando di usare la Nuova Via della Seta per conquistare una maggiore influenza geopolitica, ma ciò non significa che il progetto non offra vantaggi economici da cui il nostro Paese possa trarre profitto senza cadere nell’orbita di Pechino. Innanzitutto – come il governo ha ricordato – il memorandum non ha valore contrattuale, e può essere ulteriormente modificato: ecco perché sarebbe sciocco fermarsi ancora prima di stabilire i possibili sviluppi del progetto, in particolare per un Paese come il nostro che è appena entrato in recessione. Inoltre, bisogna ammettere che le critiche mosse dall’Europa, visti i «tanti altri accordi» tra Cina e altri paesi dell’UE che Mattarella ha ricordato, suonano, sebbene parzialmente motivate, quantomeno ipocrite. Si deve poi riconoscere che, nonostante gli allarmi lanciati da USA e UE, l’Italia non ha ricevuto controproposte che la possano indurre a rinunciare a una simile opportunità economica. Non bisogna sicuramente ignorare i rapporti di alleanza con gli USA, ma il sempre maggiore protezionismo sostenuto da Donald Trump spinge a cercare nuovi partner economici.
Tutto sta nella capacità che avrà il nostro governo di trattare adeguatamente con il gigante asiatico, presentandosi consapevole della propria appartenenza al G7 per usare quella forza economica e politica che ne deriva per far rispettare gli standard europei. Rimane una nota amara: se a presentarsi alla trattativa per la Nuova Via della Seta non fosse l’Italia, ma un Unione Europea coesa, allora anche Pechino vedrebbe il proprio peso ridimensionato. Tuttavia, l’EU-Asia connectivity strategy, progetto dell’UE lanciato nel 2018 che sembrava essere una controproposta europea alla BRI e che prevedeva un «approccio sostenibile, comprensivo e nel rispetto delle norme internazionali» sembra aver perso la propria carica propulsiva. Forse – verrebbe da dire – è morto soffocato dai singoli interessi nazionali che continuano a lacerare l’Unione.