Molte sono le chiavi di lettura che è possibile dare rispetto all’evento dello scuolabus sequestrato e dato alle fiamme dal proprio autista a San Donato di Milano, mercoledì 20 marzo. Una in particolare è stata scelta per definire un simile atto, di certo vile e premeditato: quella del pericoloso e folle immigrato che viene a dettar legge “a casa nostra”, un apocalittico araldo del disordine, dell’intolleranza e dell’inarrestabile scontro tra culture. A continua riprova di quanto la nostra linea temporale sia spesso contraddittoria e ridicola, si tratta di una storia completamente diversa da quella che è possibile raccontare guardando più attentamente alla realtà dei fatti: l’altra interpretazione sulla quale si vuole far riflettere è, ovviamente, riportata nel titolo del presente editoriale.
Si può non essere immediatamente d’accordo, si può cercare la faziosità in una dicotomia di questo tipo. Fatto sta che secondo il diritto vigente è andata così. L’autista dello scuolabus di Milano, Ouesseynou Sy, è francese di origine senegalese ma cittadino italiano dal 2004. I suoi trascorsi personali, che includono denunce per guida in stato di ebbrezza e abusi sessuali su minori, non hanno a che fare con nient’altro che la vita di questo individuo.
Sy non è giunto in Italia col barcone nel corso dell’attuale fase migratoria, ma vive in Italia da quasi vent’anni e ha ottenuto la cittadinanza attraverso il matrimonio. Il colore della sua pelle non dovrebbe nemmeno lasciar trasudare chissà che pensieri sul suo background socio-culturale: Sy è nato in Francia e lì ha vissuto tutta la vita prima di trasferirsi al di qua delle Alpi. L’uomo si dichiara inoltre ateo e il suo movente “panafricano” non ha i tratti del terrorismo che ci aspetteremmo.
Di certo, l’atto che ha fatto parlare tutta Italia dello scuolabus di Milano è deprecabile, folle e per molti versi sconclusionato: l’idea era quella di impedire ai fratelli africani di venire in Italia, promuovendo l’intolleranza autoctona e la pubblicità del suo gesto. Ciò fa di Sy non un pericoloso immigrato, bensì – semplicemente – un pericoloso idiota, caratteristica associabile a personaggi di qualsivoglia nazionalità o provenienza, come ad esempio l’italianissimo Luca Traini o i suoi recenti e bianchissimi emuli neozelandesi.
Viceversa, il piccolo Ramy Shelata, tredici anni, vive in Italia da che ha memoria, ma – data l’inesistenza giuridica dello ius soli – il suo passaporto è egiziano come quello del papà e lo rimarrà fino al compimento dei diciotto anni, più i tempi amministrativi. Ramy non deve averci pensato due volte: giocando d’astuzia ha finto di pregare in arabo, mentre si metteva in contatto telefonico con il padre per informarlo della situazione e favorire l’intervento dei Carabinieri. Un atto di grande coraggio, soprattutto data la giovane età, ma anche di altruismo verso il destino dei propri compagni. E il coraggio e l’altruismo, checché possa dirne qualcuno, non sono caratteristiche strettamente connesse alla genetica o alla cultura italiana.
I recenti movimenti dell’alta politica e la volontà del popolo che l’ha messa in posizione di agire potrebbero perfino dimostrare il contrario. Il decantato altruismo dell’Italia, storicamente incrocio di culture ed etnie, risulta non pervenuto ormai da qualche tempo. Mentre il coraggio, quella virtù “socialissima” che si contrappone all’ignavia e all’individualismo, pare spesso nient’altro che cristallizzato nelle parole forti dello spaccone di turno.
Le parole – a quanto pare – volano per poi essere scordate, non sia mai che qualcuno possa poi rinfacciare una decisione che si è avuto l’ardire di prendere. Ma all’atto concreto ecco ancora, anche nel caso dello scuolabus di Milano, trasparire l’immobilismo del Giano bifronte che cerca di andare in tutte le direzioni senza fare un solo passo. Se Luigi Di Maio chiede che sia data la cittadinanza onoraria al piccolo Ramy, vero e proprio eroe, Matteo Salvini risponde laconicamente: «Valutiamo», per poi tornare alla carica e prendere in giro un ragazzino sfidandolo a cambiare la legge sulla cittadinanza, candidandosi a una carica che gli è preclusa per età e nazionalità. Se questi sono i “valori culturali” che costituiscono un italiano, c’è da stupirsi che chiunque sia intenzionato a chiederla, la cittadinanza.
Detto questo, non si cada nella retorica opposta: è bene riflettere sulla contraddizione della narrativa dominante, quella del “non passa lo straniero”, ma ciò è inutile se, alla fine dei giochi, si riesce solo a riempirne il vuoto e porsi come antitesi buonista, indirettamente legittimando la tesi. L’obiettivo di una provocazione come la presente è semmai scardinare e distruggere il dualismo dello schema razzista, capovolgere il punto di vista inculcato per terrorismo mediatico e comodo politico, perché un giorno si riesca a riferire le cose esattamente come è necessario che sia: «A Milano, un bambino ha salvato i suoi compagni di scuolabus dal piano criminale di un autista pazzo». E nient’altro.
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