«Era il venticinque di luglio del millenovecentotrentotto, e Lisbona scintillava nell’azzurro di una brezza atlantica, sostiene Pereira». Pereira è un uomo semplice, mite, amante della letteratura, senza pretese e senza aspettative. Per trent’anni ha lavorato nella cronaca nera, e ora dirige la pagina culturale del Lisboa, un piccolo quotidiano locale. In quel torrido pomeriggio d’estate tra le due guerre, Pereira sta per incontrare Francesco Monteiro Rossi, giovane laureato in Filosofia di origini italiane, che ha da poco discusso una tesi sulla morte. La persona giusta, quindi, per scrivere necrologi anticipati di grandi scrittori, da tenere nel cassetto e pubblicare all’occorrenza in caso di improvvisa dipartita (un giornalista non deve mai farsi cogliere impreparato). Spossato, ansante, madido di sudore, Pereira arranca fino al luogo dell’appuntamento. Non sa che quell’incontro cambierà la sua vita.
La vicenda esistenziale e politica di Pereira è nata dalla penna di Antonio Tabucchi, prolifico scrittore pisano e grande studioso del Portogallo. Già docente di Lingua e letteratura portoghese all’Università di Siena, è stato tra i primi e più affermati lusitanisti italiani. Scomparso nel 2012 nell’amata Lisbona, città natale della sua consorte, ha dato alle stampe romanzi e racconti dal sapore esotico e avvolgente, ma sempre innervati di una forte coscienza sociale che traspare in filigrana in tutta la sua opera. La narrazione di Tabucchi si ispira spesso a episodi di vita vissuta – si veda la Nota all’edizione 2016 di Sostiene Pereira – o a fatti di cronaca, come in La testa perduta di Damasceno Monteiro. Forte è dunque la connotazione politica dei suoi scritti, che potrebbero inserirsi in uno dei filoni narrativi più fortunati del Novecento: il racconto-testimonianza, tra i cui più grandi esponenti figurano Beppe Fenoglio, Primo Levi, Carlo Levi. E tuttavia Tabucchi ha ricordato, in una breve ma intensa intervista per la Rai, che Sostiene Pereira è prima di tutto un romanzo esistenzialista: solo in ragione del suo cambiamento di vita, infatti, Pereira diventa un simbolo, l’archetipo dell’uomo che abbandona il proprio individualismo per calarsi nella realtà del suo tempo e scegliere di agire. In questo sta la sua lenta ma inesorabile metamorfosi, che il lettore saluta con un misto di sorpresa e soddisfazione; impossibile, del resto, non fare il tifo per Pereira. Un uomo solitario, prigioniero dei ricordi, che apre il suo cuore solo quando parla a voce alta col ritratto della moglie, morta anni prima di tubercolosi.
A più riprese, nel romanzo – e nel film omonimo di Roberto Faenza, dove è Marcello Mastroianni, in una delle sue ultime interpretazioni, a vestire i panni di Pereira – si intrecciano rassegnazione e impegno, dolcezza e dolore. Francesco Monteiro Rossi, poco più che ragazzo, ama la vita e ama Marta, giovane rivoluzionaria che lo porterà sul sentiero scivoloso della lotta politica. Pereira, dal canto suo, fa tutto il possibile per non farsi coinvolgere in faccende che ritiene estranee al suo moderato e abitudinario stile di vita. D’altro canto l’entusiasmo di quei due scapestrati, pieni di belle speranze e innamorati della libertà, non può lasciarlo indifferente. E infatti si infila nei suoi pensieri, attaccando il suo modus vivendi come un virus benefico: ben presto, Pereira si ritrova a fare cose che non avrebbe mai fatto, a indulgere in pensieri che non l’avevano mai sfiorato, fino a costruirsi una nuova identità. Il vecchio giornalista appesantito dai chili di troppo e dalle memorie del passato si trasforma in un cittadino consapevole e attento, sensibile alle ingiustizie perpetrate dal regime salazarista e pronto a denunciarle in prima persona. Nelle prime pagine del romanzo, la notizia del massacro di un carrettiere alentejano lo aveva soltanto sfiorato, lasciandolo pressoché indifferente o comunque senza smuoverlo dalla sua totale inazione. Più avanti, invece, l’evento tragico che lo colpirà in prima persona smuoverà la sua coscienza, fino a renderlo capace di un gesto di coraggio che, solo qualche mese prima, non avrebbe mai compiuto.
Diversi sono i personaggi che partecipano, in modo più o meno diretto, al cambiamento di Pereira. Oltre a Monteiro Rossi e a Marta, che per primi riescono – non del tutto intenzionalmente – a pungolare l’animo infiacchito del direttore culturale del Lisboa, sono due i corresponsabili della sua rinascita spirituale. La prima è Ingeborg Delgado, una donna sui cinquant’anni, tedesca di origini portoghesi, che Pereira incontra su un treno per Parede. Nel corso di una breve conversazione informale tra compagni di viaggio, la signora Delgado pianta un seme nel terreno inaridito della coscienza di Pereira, colpendola con una stoccata decisa: «Forse tutto si può fare, basta averne la volontà». Una rivelazione, per un uomo abituato ad agire macchinalmente, per abitudine, senza impeto; ma soprattutto un invito all’azione. E come ogni seme che cade su un terreno arido, questo invito sarebbe rimasto lettera morta se a rendere fertile quel terreno non fosse giunto l’intervento del dottor Cardoso.
Interpretato da un Daniel Auteuil nel pieno della sua carriera, il dottor Cardoso è il primario della clinica talassoterapica di Parede, in cui Pereira si è recato malvolentieri per ordine del suo cardiologo. Cardoso è senz’altro un medico sui generis per l’epoca; forte di una doppia specializzazione in dietologia e psicologia, si prende cura della salute del nostro eroe vietandogli le omelette alle erbe aromatiche e le dolcissime limonate – «metà bicchiere di limonata e metà di zucchero», ammette Pereira – e al tempo stesso gli fa da mentore nella sua metamorfosi spirituale. Proprio grazie al dottor Cardoso, infatti, Pereira viene a conoscenza di una teoria astrusa quanto interessante, che si può riassumere nel principio della “confederazione delle anime”, sostenuto dai medecins-philosophes francesi. Secondo costoro, l’anima di ogni uomo non è unica e indivisibile – come sostiene l’antico retaggio della tradizione cristiana – bensì poliedrica e sfaccettata. Anzi, l’uomo possiede in sé più anime: un’intera confederazione di anime capeggiate da un io egemone, ovvero un’anima più forte delle altre, che solitamente identifichiamo con la nostra personalità. Tuttavia può capitare, e spesso capita, che in seguito a un periodo più o meno lungo di riflessione – suscitato da un evento scatenante, o anche solo da una “corrosione” lenta e costante dell’io egemone – l’individuo si ritrovi ad avere pensieri del tutto nuovi, si sorprenda a compiere azioni prima ritenute inaccettabili. Episodi simili non sono altro che il campanello d’allarme della lotta interiore tra il nuovo io egemone che cerca di affermarsi, prendendo il posto dell’io precedente, e le sovrastrutture consolidate presenti da sempre nel nostro animo. E se il nuovo io vince la battaglia e si pone alla testa della confederazione delle anime, l’individuo diventa un uomo nuovo, con nuovi ideali e nuove regole di vita. Un nuovo Pereira, insomma: un Pereira che riesce a diventare ciò che, in qualche recondita piega del suo animo, è sempre stato.
Non è vero allora, come voleva Francesco Guccini, che gli eroi son tutti giovani e belli. Certo, Monteiro Rossi – cui presta il volto uno Stefano Dionisi agli inizi della sua carriera – potrà pur esserlo. Ma Pereira, obeso, cardiopatico e ormai avviato all’epilogo della sua esistenza, dimostrerà di possedere un’indole altrettanto forte. La sua metamorfosi spirituale era iniziata con dei primi, timidi accenni di ribellione; aveva pubblicato, sulla sua pagina culturale, un romanzo filofrancese dell’Ottocento, suscitando le ire del direttore del Lisboa, salazarista convinto. Lui stesso, Pereira, aveva definito questo azzardo come un voler lanciare «un messaggio nella bottiglia che qualcuno avrebbe raccolto»; e non a caso aveva scelto un racconto sul pentimento, «perché c’era da pentirsi di molte cose». Qui Pereira collega, in parte inconsciamente, il suo pentimento individuale – per non essere ancora pienamente diventato l’uomo che presto sarà – con l’esigenza di un pentimento collettivo, per l’indifferenza che sembra aver contagiato, come un’epidemia, tutto il tessuto sociale cui appartiene, salvo rare eccezioni. Come Manuel, il cameriere del Cafè Orquidea, unica fonte affidabile d’informazioni in un’era in cui il giornalismo sembra aver dimenticato il suo dovere fondamentale: riportare fedelmente la verità dei fatti. Erano in pochi ad accorgersi che fosche nubi coprivano l’orizzonte degli eventi: Salazar, Franco, Mussolini – e soprattutto Hitler, loro ispiratore – erano ormai prossimi a condurre l’Europa nel baratro. Pereira lo sapeva, o quantomeno lo intuiva: «Questa città puzza di morte, tutta l’Europa puzza di morte.»
Di Sostiene Pereira si è parlato, ma non abbastanza. È un’opera conosciuta, ma meno del dovuto. Ne è stato tratto il film già citato, che riscosse un buon successo di pubblico; e più recentemente, persino una graphic novel, andata in ristampa per i tipi di Tunué. Non è poco, ma non basta: questo piccolo romanzo intensissimo, che nella sua semplicità arriva dritto al cuore, va letto, diffuso, apprezzato. Di Pereira si deve parlare, lo si deve conoscere. Merita di diventare, per ogni lettore, un vecchio amico, uno specchio in cui riflettersi, un’ispirazione. Ma soprattutto, un antidoto ai rigurgiti di nazionalismo che avvelenano l’Europa. Servono tanti Pereira, oggi più di ieri.
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