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Nella mente di un politico: dialogo con Patrizia Catellani

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Davide Finazzi

Negli ultimi anni è cresciuta l’importanza della psicologia negli studi di tipo politico. L’analisi dei comportamenti di voto, della psiche e della mente dell’elettorato e della personalità degli appartenenti alle varie posizioni politiche è divenuta oggetto di dibattito e anche uno strumento per analizzare i cambiamenti sociali, oltre ovviamente a essere una fonte di suggerimenti alle forze politiche nella ricerca del consenso. Se la psicologia ci può dire molto del rapporto con la politica da parte degli elettori, sicuramente può rivelarci molto anche sul modo di agire, pensare e organizzarsi dei politici stessi e magari aiutarci a considerare da una prospettiva diversa le trasformazioni che sta attraversando la scena politica degli ultimi anni. Su questo argomento, theWise Magazine ha intervistato Patrizia Catellani, docente di psicologia politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

La classica distinzione coniata da Max Weber tra i politici che vivono di politica e quelli che vivono per la politica è secondo lei una guida ancora valida oggi? Ritiene che siano emersi dei nuovi idealtipi?

«Direi due cose: il clima che c’è nell’aria conduce a svalutare la professione di politico, specie tra i giovani. La percezione delle élite corrotte e dei politici corrotti è molto in crescita. I politici hanno sempre avuto il problema della percezione della loro moralità ma ultimamente, tramite i social, dove ognuno può dire la sua e i pareri si diffondono con rapidità, si diffonde un atteggiamento negativo verso la professione politica, che porta poi anche al populismo. Ci può essere anche una selezione a monte, che conduce giovani anche ideologicamente coinvolti a non intraprendere la carriera politica. Inoltre, i meccanismi della persuasione politica stanno cambiando e il politico usa i media come si usano nel mercato, cercando di vendere un prodotto, suscitando emozioni e dando al cittadino ciò che desidera. C’è quindi il rischio che il politico rinunci alla prospettiva di medio e lungo termine ma cerchi di rispondere ai bisogni di medio periodo: una risposta ai bisogni strumentale al consenso, senza necessariamente rispondere ai bisogni reali dei cittadini, di cui possono essere essi stessi inconsapevoli».

Possiamo tracciare un quadro delle motivazioni tipiche che spingono a intraprendere la carriera politica? E queste motivazioni hanno un’influenza sullo schieramento in cui si sceglierà di militare?

«Ci sono alcuni politici motivati da spinte più di tipo strumentale: cioè fare qualcosa che risponda di più ai propri interessi. Altri, invece, più motivati da spinte espressivo-ideologiche, ovvero dei valori e degli ideali da raggiungere. Un esempio può essere il Movimento 5 Stelle delle origini, che era un scelta di rottura rispetto ai tradizionali meccanismi del potere. Si trattava di una scelta che partiva dalla base, dai cittadini comuni, e si suppone che le loro motivazioni fossero più espressive. Quando il partito va al potere è inevitabile che le sue motivazioni si modifichino. In generale possiamo dire che ci può essere una motivazione più egoistica (voglio difendere gli interessi miei e del mio gruppo) e altre motivazioni dovrebbero essere più legate a valori di tipo espressivo (entro in politica per fare gli interessi anche di chi è fuori dalla mia sfera, anche a costo di andare contro i miei interessi). C’è comunque una motivazione personale nel combattere in difesa di un principio, ovvero l’esprimere sé stessi. Tradizionalmente, la prima è stata più una scelta di centrodestra e la seconda di centrosinistra».

Luigi Di Maio, Alessandro di Battista e Roberto Fico, i principali esponenti del Movimento 5 Stelle. Foto: corriere.it

La scienza politica classica ci dice che, man mano che si scalano le gerarchie del potere, le élite politiche affrontano dei cambiamenti psicologici che le portano a diventare sempre più interessate al mantenimento del potere stesso e meno alla fedeltà ai loro ideali. L’azione di meccanismi del genere sulla psiche è effettivamente riscontrabile?

«Indubbiamente per natura siamo egoisti e tendiamo ad affermare noi stessi quindi, psicologicamente parlando, lavoriamo per arrivare a un’immagine positiva di noi stessi. Quindi, se ci troviamo in una posizione di potere, tendiamo a fare così. Tuttavia esistono diversi stili di leadership: c’è chi si rapporta con gli elettori in termini di dominanza, orientandosi al potere (in gergo tecnico, “leader maschile”) e c’è chi lo fa in termini di condivisione (in termini più tecnici, “trasformazionale” o “femminile”). Si tratta di una leadership orientata più alla condivisione che al potere, quindi si richiama a dei valori e dei principi comuni. Sono state fatte richieste alle persone sulle caratteristiche più importanti per un leader politico: è risultato fossero energia o leadership, onestà e, in misura minore nel caso italiano, competenza. Nel centrodestra risulta dominante la leadership. Nel centrosinistra a questo aspetto si affianca l’onestà, intesa anche come empatia. La fatica del centrosinistra nel trovare un leader si deve a questa richiesta più complessa. Un buon esempio di leader del genere negli ultimi anni è Obama. In Italia si possono considerare Berlusconi o Salvini come esempi più tipici del centrodestra e il Partito Democratico, che cambia continuamente leader, come esempio della difficoltà della sinistra in questo ambito. Renzi sembrava in grado di fare questo ma, a causa della sua personalità narcisistica (in senso tecnico), ha avuto bisogno di affermare sé stesso, ha faticato ad accettare le sconfitte e questo gli ha causato problemi nel gestire la leadership e nell’affrontare le difficoltà degli ultimi anni. Berlusconi invece si è ripreso da numerose sconfitte perché si sentiva meno coinvolto personalmente, avendo già il successo economico alle spalle: per chi investe tutto su una cosa sola, invece, è molto più difficile accettare gli insuccessi».

La recente assemblea nazionale del Partito Democratico. Foto: democratica.it

Affrontiamo uno stereotipo classico. Il politico di successo è più cinico e quello che non riesce a fare carriera è più idealista? O questo vale solo in alcuni contesti (organizzativi, istituzionali) rispetto ad altri?

«La percezione condivisa che noi abbiamo è che il politico sia una persona con moralità bassa. Abbiamo fatto ricerche sulle caratteristiche tipiche di varie professioni: è emerso che il politico sia considerato quello meno morale, ma quando si chiede quale sia la sua caratteristica più importante è emersa proprio la moralità. Si ha una sorta di sclerotizzazione della percezione. Questo in Italia è più accentuato: negli USA, ad esempio, emergono altre qualità come la competenza. Certo, questa percezione è diffusa in tutto il mondo ma ha dei picchi, come nel nostro Paese. Inoltre, dalle ricerche è emerso che più i politici sono pagati più sono considerati corrotti, perché si ha la percezione (erronea) che tolgano soldi ai cittadini comuni».

Numerosi casi di politici ritiratisi dalla scena pubblica ancora relativamente giovani ci hanno dimostrato che la politica è un’attività logorante. Ci sono alcuni tratti psicologici comuni tra chi continua l’attività pubblica fino in tarda età, magari smettendo solo per impedimenti fisici, e chi invece si ritira a vita privata a cinquant’anni?

«Innanzitutto, va detto che chi fa politica a livello locale spesso ha un buon riscontro di quello che fa: svolge delle attività che possono dare soddisfazione perché si vede subito il risultato dei propri sforzi. A livello nazionale abbiamo, soprattutto in Italia, un sistema instabile, con frequenti cambi di governi e di legislatura: si fa fatica a fare progetti a lungo termine, dato che è frequente che a ogni cambio di governo si cambino anche tutti i programmi. Per esperienza diretta, fatta parlando con alcuni parlamentari e altri ex politici, posso dire che questo è logorante, perché si ha l’impressione che tutto il proprio lavoro sia caduto nel nulla. A questo si aggiunge il fatto che alcune categorie di politici, o perché appartengono a gruppi meno considerati (vedi le donne) o perché non appartengono ai gruppi dominanti di partito, sentono di non avere voce i capitolo e si sentono inutili. E anche questo è logorante. Non si tratta dunque di una questione di stress ma di inconcludenza: infatti, se si è molto stressati ma si raggiunge il proprio obiettivo si può essere gratificati e diventare anche più creativi».

Si dice che i politici delle nuove generazioni siano più inclini all’obbedienza ai vertici dei propri partiti, più arroganti e spesso meno preparati delle precedenti generazioni. Trova che si sia verificato un cambiamento nel profilo del politico medio e del suo modo di pensare?

«Per numerosi motivi c’è un allontanamento dei giovani dalla politica attiva: alcuni motivi li abbiamo detti prima,ma incide anche il desiderio dei giovani di creare nuove forme di partecipazione dal basso (la democrazia partecipativa) soprattutto grazie alla rete, ma questo diventa spesso un discorso temporaneo, basato sulle emozioni del momento. Una volta cessata la spinta emozionale, l’interesse si affievolisce. C’è la necessità di un gruppo che abbia dei valori per proseguire. Altrimenti il rischio è anche quello di vedere la politica in un’ottica strumentale, come strumento di carriera, allontanandosi sempre di più dall’ideologia. Va comunque detto che altre forme di mobilitazione via web hanno il vantaggio di coinvolgere persone che altrimenti non sarebbero venute a conoscenza della problematica. Certo ci vuole un’organizzazione che consenta di mobilitare a lungo».

Nel corso del tempo si è indagato molto sulla personalità dell’attivista di destra e di quello di sinistra. Negli ultimi anni sono emerse nuove forze che si pongono come nuova destra, nuova sinistra o oltre le stesse. Il dibattito sul fatto che esse possano essere ricondotte o meno verso la polarità tradizionale è molto acceso. Secondo lei i sostenitori, e soprattutto gli esponenti, di queste nuove forze presentano effettivamente un profilo nuovo o il loro modo di pensare è ancora debitore della dicotomia tra conservatorismo e progressismo?

«La dimensione sinistra-destra psicologicamente è e rimane molto importate. A livello psicologico, quando si prende pozione su un tema, è molto importante che si possa agganciarsi a dei valori generali. Le persone, spesso poco informate sulla politica, fanno meno fatica a decidere in merito a essa se hanno un aggancio a un’idea o a dei valori, dato che tendiamo ad organizzare e categorizzare le cose in questo modo. È più facile ragionare in termini di opposizioni: vedi la fatica di molti a capire come collocare un partito al centro. Molti partiti di oggi negano questo aggancio, come ad esempio il M5S. Questo ha certamente delle buone ragioni in termini di protesta, però ha dei limiti: sia per i motivi psicologici menzionati sia perché ciò può consentire a chi si richiama a questa idea di cambiare rotta e di fare politiche strumentali e legate più alle esigenze del momento che non a un insieme di valori. Con Itanes abbiamo scritto il saggio Vox Populi, uscito l’autunno scorso, e relativo alle elezioni politiche del 2018: ne è emerso che, con l’eccezione dei Cinque Stelle, i cittadini rispondono ancora bene alla domanda «Dove ti collochi politicamente?». Inoltre, più cambia la scena politica più il bisogno di collocarsi è forte. Ma su cosa si basa oggi la differenza tra sinistra e destra? Attualmente, è meno legata alla diseguaglianza economica, perché è un problema percepito da tutti: quella più importante, almeno secondo le dichiarazioni, è quella di difesa e conservazione della propria cultura rispetto all’apertura al diverso. È una questione di disuguaglianza culturale e di ampiezza della difesa dei diritti: se la si vorrebbe diffusa a tutti si è a sinistra, se la si vuole solo per i membri della comunità nazionale si è a destra».

Riguardo all’attualità, recentemente i Cinque Stelle sono stati definiti più ingenui e idealisti, mentre i leghisti più cinici e pronti al compromesso rispetto ai propri principi politici. Trova che ci sia del vero?

«Ai politici della Lega è attribuita più capacità di leadership e dominanza, ma anche (a ragione) più esperienza di governo e quindi competenza. Queste caratteristiche vengono date in misura minore ai leader dei Cinque Stelle, giudicati meno competenti e meno dominanti. Ma non vedo grosse differenze nella classe dirigente dei due gruppi riguardo all’equilibrio tra il pragmatismo e l’idealismo».

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Davide Finazzi

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