Dopo le recenti novità in vigore nell’ambito dell’assegnazione dei diritti tv, molti tifosi delle principali squadre italiane hanno “perso” (almeno in questo frangente e in questo contesto) la possibilità di ascoltare la telecronaca tematica, dedicata dunque a una compagine specifica. Tra loro, ovviamente, anche quelli del Napoli non hanno più potuto usufuire della travolgente passione di Raffaele Auriemma, la cui voglia di raccontare i destini azzurri non si è però smarrita. Ancora oggi, infatti, dopo anni di onoratissima carriera, Auriemma continua a coltivare con dovizia e bontà l’amore per la radio – attraverso la trasmissione Si gonfia la rete, in onda ogni giorno su Radio Marte – e la volontà di fare informazione sportiva (non solo sui colori azzurri) tramite la testata gonfialarete.com.
Il giornalista partenopeo si è concesso ai nostri microfoni per analizzare, nello specifico, uno degli aspetti più appassionanti e coinvolgenti di chi il calcio lo guarda dall’esterno (ma solo fino a un certo punto): negli anni, la telecronaca ha subito mutamenti e modifiche, continuando però a rimanere una costante per il mondo del pallone, che ancora necessita di essere raccontato.
Raffaele Auriemma analizza la storia e i mutamenti della telecronaca sportiva nel corso degli anni
Sono passati tanti anni dal tuo “primo giorno”: quanti e quali cambiamenti hai percepito, nel corso della tua carriera, nell’ambito del mestiere del tele/radiocronista?
«È cambiato praticamente tutto. Quando ho iniziato non esistevano le partite di campionato in diretta tv e le poche che riuscivamo a vedere, erano solo per le coppe europee o la Nazionale. Oggi il calcio è diventato meno appassionante di prima, anche da raccontare, perché gare epiche come quella del Milan sconfitto a Verona e il Napoli, vincendo a Bologna, che lo sorpassa nel rettilineo Scudetto, sembra che non si ripeteranno più».
Soprattutto a livello tecnico e lessicale, sembrano evidenti moltissime evoluzioni nel modo di raccontare le partite. Come hai valorizzato e, in seguito, adattato il tuo stile ai cambiamenti della società e del pallone?
«Sinceramente, non ho dovuto modellare nulla del mio lessico. Come ero a inizio anni Ottanta, così sono adesso e pare che la cosa funzioni: soprattutto i bambini sono i miei più grandi fan».
Qual è la qualità principale che un giornalista deve utilizzare per raccontare una partita dal vivo, senza magari apparire noioso o monotono alle orecchie di chi ascolta?
«Deve avere ritmo e fantasia. Ritmo, perché la partita non deve apparire per quella che è, soprattutto quando la stessa diventa troppo noiosa. Fantasia, utile proprio a coprire quei “buchi” che crea il semplice racconto di una partita senza brio».
Tra le tante figure emerse nel corso degli anni, quella del telecronista tifoso ha spesso fatto discutere, pur vivendo un’esistenza parallela rispetto alle figure “tradizionali”. C’è chi la reputa inaccettabile, chi – al contrario – è sempre stato a favore di questa ramificazione. Un parere su questo dibattito e su questa particolare figura?
«La verità è sempre al centro. Ogni telecronista deve far venire fuori una vena da tifoso, nel senso, di racconto appassionato. Ben diverso, invece, è il fazioso: quello è inaccettabile. Quando ti si chiudono gli occhi e cominci a dire cavolate, offendendo gli avversari, quello è un aspetto che non può essere racchiuso nell’ambito di una telecronaca. Certo, può capitare a tutti, telecronisti-tifosi o no, di dire una castroneria, l’importante è scusarsi ed evitare che si ripeta».
A proposito di questo, negli anni abbiamo assistito a telecronache da “tifoso” anche da chi avrebbe dovuto essere superpartes. In particolare, nelle gare europee delle italiane o nelle partite delle rappresentative nazionali si percepisce sempre una ricerca del racconto nazionalpopolare, a volte persino troppo esagerato o esagitato. Non è forse questo uno step successivo rispetto a ciò che avveniva prima? Ed è questo, probabilmente, che il pubblico vuole adesso, oppure no?
«Io credo proprio di sì. Quando sento il collega Trevisani accalorarsi per un gol di Vecino con l’Inter oppure per un rigore non dato a Zaniolo, lì capisco che il lavoro da me svolto in trent’anni ha avuto un senso: il telespettatore vuole un telecronista coinvolto e non uno che faccia semplicemente da notaio».
Se fossi costretto a scegliere tra radio e tv, quale sceglieresti?
«Dipende da ciò che ti offrono di fare…».
Soprattutto in questo momento storico in cui discriminazioni, accuse, razzismo e violenza sembrano essere tornate alla ribalta (sempre che se ne fossero andate), pensi che chi esercita il mestiere del giornalista debba sentire particolarmente presente il peso della responsabilità, nella scelta di parole e azioni?
«Credo che il giornalista abbia tutto il diritto di dire la sua, di esprimersi e schierarsi, facendo sempre attenzione alla qualità del lessico che va ad adoperare».
Se arrivasse l’occasione giusta torneresti, nel prossimo futuro, a fare il telecronista per una delle emittenti attualmente esistenti?
«Sinceramente? Non so perché questa “occasione giusta” non sia capitata. Eppure se lo chiedono migliaia di utenti della pay per view…».