In Algeria ormai il caos politico ha raggiunto il culmine. Diverse settimane di protesta sono culminate con il ricovero del presidente Bouteflika in Svizzera, ufficialmente per problemi cardiaci, in realtà per sottrarsi all’ira dei rivoltosi e per evitare possibili attacchi. All’inizio di marzo il presidente ha fatto ritorno, non prima di annunciare che non si sarebbe ricandidato per la quinta volta come presidente alle elezioni algerine di aprile. All’annuncio le manifestazioni di protesta sono diventate cortei di giubilo, ma alcuni giorni dopo lo stesso Bouteflika ha provveduto a fermare l’entusiasmo rinviando di diverso tempo le elezioni.
Secondo quanto espresso dal presidente, le elezioni algerine si terranno dopo la riforma costituzionale e dell’ordinamento che dovrebbe avere luogo entro la fine del 2019, il che porta una possibile data per le elezioni al 2020. L’annuncio ha fatto tornare le persone in piazza, a meno di una settimana dalla conclusione delle manifestazioni. Il timore, infatti, è quello che in tale spazio di tempo Bouteflika si cerchi un delfino che ne prenda il posto come guida dell’Algeria, bloccando così la naturale alternanza al potere delle democrazie.
I problemi maggiori vi furono sul versante dell’ordine pubblico, con la primavera nera del 2001 in Cabilia, regione a maggioranza berbera. Alle elezioni del 1999 la Cabilia registrò il 5% di affluenza e, durante la campagna elettorale, Bouteflika venne preso a pietrate durante il suo passaggio nella regione. La ragione di tanto odio focalizzato in quella parte dell’Algeria è l’accento nazionalista arabo con cui Bouteflika ha sempre condito la propria azione politica. Questo, insieme a diverse affermazioni e rassicurazioni sul fatto che il berbero non sarà mai lingua ufficiale del Paese, ha seriamente danneggiato i rapporti con la comunità berbera.
Vent’anni dopo, la situazione è cambiata per Bouteflika: buona parte dell’Algeria, dopo gli insuccessi nel medio termine dei piani quinquennali, gli è contro. Persino il suo partito (lo storico FLN, Fronte di Liberazione Nazionale) negli ultimi giorni lo ha abbandonato, con il suo attuale leader Djamel Abbes che ha scaricato l’ormai ex uomo di punta del partito. Le settimane precedenti sono state caratterizzate da continui scioperi, in cui i maggiori sindacati del Paese sono scesi in piazza, oltre a proclamare una serie di scioperi parziali.
Le principali teorie sul chi stia dietro al CNC sembrano convergere sul FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, partito bannato dalla vita politica del Paese dopo aver scatenato il conflitto che sarebbe sfociato, nel 1991, in una guerra civile durata fino al 1999. Il rifiuto di tali piattaforme ha provocato l’intensificazione delle proteste negli ultimi giorni e un rinnovato rischio di violenze, cui il partito di Bouteflika ha reagito ponendosi dalla parte dei manifestanti e, pertanto, tagliando i ponti con il presidente uscente.
L’Algeria ha una storia ultratrentennale di conflitti irrisolti e di cattiva gestione del Paese, per non parlare dell’approccio alla partecipazione popolare alla cosa pubblica che è spesso stato pressoché inesistente. Soprattutto negli ultimi vent’anni, poi, l’inclusione delle minoranze all’interno della vita politica algerina è stata pressoché nulla. Questo necessariamente porta una nazione, presto o tardi, al collasso sociale e, in definitiva, alla rottura del contratto tra Stato e cittadini. L’Algeria è uno degli esempi più vicini all’Europa di come la tipologia di Stato nata e creata in Occidente non sia esportabile in copia carbone in altri contesti con storia e culture molto diverse rispetto a quelle europee.
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