La spettacolarizzazione, attuata tramite l’abuso di effetti visivi e scene d’azione fine a se stesse, ha danneggiato il panorama sci-fi degli ultimi anni; se infatti in passato anche le più commerciali produzioni mantenevano una salda identità, autoriale o quantomeno stilistica, proponendo divertissement capaci di spingere lo spettatore a oltrepassare il mero intrattenimento e riflettere sui temi posti agli autori, oggi il cinema di fantascienza ad alto budget è vessato da continui sequel, remake e reboot di successi del passato. Le major investono su incassi sicuri e tocca dunque alle produzioni minori sperimentare e proporre storie e idee interessanti: pellicole come Moon di Duncan Jones, District 9 di Neill Blomkamp o Ex Machina di Alex Garland hanno dimostrato come sia possibile realizzare ottimi film fantascientifici grazie a solide sceneggiature e libertà da restrizioni imposte ai blockbuster, non lesinando sulla qualità effettistica. Captive State si inserisce in questo filone sci-fi low budget, preferendo mostrare l’impatto di una possibile invasione aliena sulla società e la politica del nostro contemporaneo, lasciando ampio spazio alle azioni e ai valori delle singole persone nei confronti di un vero e proprio regime straniero impostosi sul nostro pianeta.
L’idea alla base di Captive State è semplice quanto intrigante: in seguito a un conflitto con una razza aliena, gli umani sono sconfitti e obbligati ad essere comandati dai Legislatori, creature extraterrestri che si instaurano al vertice della catena di comando della Terra, dettando ordini ai politici e sovrani delle varie nazioni. A distanza di pochi anni, la divisione sociale è alle stelle, i ricchi godono del regime instauratosi mentre le classi sociali più deboli sono sempre più sfruttate nel raccoglimento delle risorse naturali e nella costruzione di zone vietate agli umani nelle quali risiedono i Legislatori, degli enormi “formicai” posti nelle principali città del globo. La storia segue due fratelli, orfani a causa della guerra tra razze: uno di loro, Rafe (Jonathan Majors), è leader di un gruppo di rivoluzionari, mentre il minore, Gabriel (Ashton Sanders), è un operaio che verrà costretto dal governo, ormai sottoposto agli invasori, a trovare e incastrare il fratello in latitanza. Il più grande difetto della pellicola è proprio in questa dicotomia: la prima parte, incentrata su Gabriel e la sua riluttanza nel collaborare con il comandante della polizia Mulligan (John Goodman), ha un ritmo eccessivamente lento, soprattutto dopo i primi adrenalinici minuti di azione e presentazione del mondo in cui è ambientata la storia. La debolezza di questo inizio si attenua quando, a circa metà film, viene presentato il gruppo della Resistenza guidato dal fratello maggiore Rafe: nonostante siano presentati molti personaggi in breve tempo, la regia di Rupert Wyatt li rende riconoscibili e accattivanti, anche solo per un dettaglio dell’abbigliamento o un particolare gesto compiuto dall’attore. Anche la narrazione subisce un’accelerazione, mettendo in scena un’operazione “terroristica” gestita come se fosse quella di un heist movie. Il film proseguirà in un continuo crescendo, inserendo alcuni colpi di scena inaspettati e qualche breve sequenza d’azione, senza però perdere la sua natura di thriller con elementi politici e spionistici, oltre che sci-fi.
Lo spunto, riuscito, di unire fantascienza, e in particolare la minaccia di un’invasione aliena, alla critica sociale ha avuto illustri predecessori nella cinematografia americana: nel 1988, John Carpenter realizza Essi vivono, in cui, a differenza di Captive State, il controllo da parte degli extraterrestri è ancora più subdolo e impercettibile. Il film di Wyatt deve molto al capolavoro di Carpenter e, nonostante sia meno apertamente anti-consumista, riesce ad adattare lo spirito della lotta di classe ai giorni nostri, sottolineando l’importanza della cultura per poter comprendere il mondo e ribellarsi ai soprusi. Non si pone però in maniera pacifista: i ribelli sono disposti ad uccidere chiunque li ostacoli nel portare a termine la loro missione, Legislatori o umani che siano. Captive State ha anche degli elementi che richiamano fortemente Cronenberg e la cultura bio-cyberpunk: ogni persona ha addosso delle vere e proprie larve sottopelle che ne tracciano i movimenti per comunicarli alle forze dell’ordine oppure, sfruttando le tecnologie del nemico, i rivoluzionari hanno ideato delle bombe invisibili e “vive”, delle bio-armi simili a seppie che possono essere attaccate sul bersaglio per poi esplodere dopo pochi secondi. Il lavoro sul design delle creature aliene, fondamentale in questo tipo di produzioni, ha dato ai Legislatori una forma particolarissima: degli enormi e longilinei ibridi tra umani e insetti completamente ricoperti di aculei, minacciose figure che, seppur si vedano poco nel corso della pellicola, sono capaci di inquietare e catturare l’attenzione dello spettatore.
Captive State è un prodotto decisamente interessante, in particolare per il sua approccio thriller piuttosto che d’azione nei confronti dello scenario tipico dell’invasione aliena; pecca sicuramente di una generale acerbità del regista nel saper gestire determinate situazioni, personaggi e ritmi: considerato però che i maggiori difetti si riscontrano nella prima parte mentre nella seconda il film si risolleva man mano fino a un finale molto riuscito, non si può dunque negare la generale bontà del progetto. Il messaggio di ribellione agli oppressori, leggibile sia con valenza storica che di attualità, è una delle parti fondamentali e più interessanti: la fantascienza ha sempre parlato del contemporaneo, dalle distopie orwelliane al pacifismo di Star Trek, per arrivare, negli ultimi anni, a ridursi spesso a mera azione per bambini e famiglie, sfornando prodotti sterili di pensieri e riflessioni sulla società e sul come migliorarla. Captive State, seppur non raggiungendo pienamente in qualità capolavori come District 9 o Moon, dialoga e fa dialogare il pubblico su temi che, nel nostro presente, non appaiono più tanto scontati.
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