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L’insostenibilità di chiamarsi True Detective 3

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Alessandro Rosa

Quando uscì, agli inizi del 2014, la prima stagione di True Detective, la serie venne elogiata all’unanimità da pubblico e critica. Scritta da Nic Pizzolato e prodotta da HBO, venne considerata da tutti una vera e propria perla e ottenne immediatamente lo status di cult cinematografico. Le atmosfere lugubri e paludose di un annebbiato paesino della Louisiana, la scrittura tagliente e dal sapore nichilista, la magistrale interpretazione di Matthew McConaughey nei panni di Rust: un’alchimia spaventosa che ridisegnò il serial investigativo per come era conosciuto. Il clamoroso successo della prima stagione convinse HBO a rendere la serie antologica, producendone quindi una seconda che non facesse alcun riferimento alla storia della prima: altra ambientazione, altro stile narrativo, altri personaggi. Vuoi per le aspettative esageratamente alte, vuoi per una certa fretta nel proporre altro materiale agli spettatori, True Detective 2 non riuscì a convincere gli appassionati, nonostante gli indubbi pregi. La reazione degli spettatori fu così critica da costringere Pizzolato a prendersi una pausa per ripensare con calma a un’altra possibile incarnazione della serie. Il risultato di questa lunga riflessione, durata quasi tre anni, sono gli otto nuovi episodi usciti tra gennaio e febbraio di quest’anno. Dopo aver esplorato le distese più ampie della California, la serie ritorna alle sue origini con un’ambientazione rurale e chiusa. Il compito di True Detective 3, però, è difficile: deve confrontarsi prima con un incredibile successo e le relative aspettative, e poi un clamoroso fallimento e, quindi, la voglia di riscatto.

Il peso del cult

Bisogna chiarire fin da subito un punto molto importante: aspettarsi un prodotto all’altezza della prima stagione era sicuramente fuorviante. Come molti cult, ciò che rese la prima stagione di True Detective il capolavoro che effettivamente è consiste in una serie di fattori e contingenze impossibili da replicare, a partire dalle scelte di casting e dall’idea di ispirarsi a opere come La cospirazione contro la razza umana (Thomas Ligotti). Dopotutto, la seconda stagione, seppur con i suoi difetti e le sue mancanze, aveva dimostrato che era assolutamente possibile scrivere un True Detective negli ampi spazi californiani, un’atmosfera ben diversa da quella paludosa della Louisiana. Eppure, nelle pesanti critiche che sono state mosse alla seconda stagione, è facile leggere la volontà di un’autentica riproposizione delle tematiche e delle vibes esistenzialiste, quasi come se l’anima di True Detective fosse solo quella. Hanno valso poco la drammaticità del rapporto personale di Velcoro con il proprio figlio e con il proprio lavoro di investigatore, la bramosia di ascesa sociale di Frank Semyon (quasi fosse un personaggio di Verga) o il controverso rapporto con la sfera della sessualità di Bezzerides. Alla luce di ciò, la decisione di Pizzolato di tornare ad un’ambientazione e a una scrittura molto simili a quelle del 2014 per questa terza stagione può essere letta in due direzioni. Da una parte, sembra voler sottolineare che True Detective è effettivamente l’ambientazione lugubre, rurale, oscura e gravida di un male incurabile che ci ha colpiti fin dall’inizio. Dall’altro lato, si può leggere la scelta dal punto di vista del marketing, ovvero come discostamento radicale dal clamoroso fallimento della seconda stagione e quindi un riavvicinamento allo spettatore appassionato. Il problema è che, in entrambe le direzioni, True Detective 3 non sembra in grado di soddisfare le aspettative.

Da sinistra a destra, Roland West e Wayne Hays nel 1980.

Ricapitoliamo brevemente la situazione. Tornando alla struttura narrativa della prima stagione, anche True Detective 3 è costruito su più linee temporali (in questo caso ben tre). Il caso investigativo che apre la stagione è ambientato in uno sperduto e rurale paesino dell’Arkansas nell’anno 1980. Un pomeriggio due bambini, fratello e sorella, chiedono il permesso al padre per andare a passare il pomeriggio da un loro amico e si allontanano in bicicletta. Quando, all’ora di sera, i bambini non hanno ancora fatto ritorno, il padre si preoccupa e avvisa la polizia. Iniziano subito le indagini, che vengono seguite dalla coppia di detective protagonista: Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff). Il fratello, Will, viene trovato morto alla fine del primo episodio, mentre si continua a cercare la sorella scomparsa, Julie. Torna l’ambientazione rurale, abitata da contadini rozzi e poco disposti alla collaborazione con la polizia. L’Arkansas è un luogo misterioso e desolato e anche la situazione familiare critica dei genitori dei bambini scomparsi, i coniugi Purcell, sembra volerci dire che una disgrazia di questo calibro aspettava solo di arrivare. La seconda linea narrativa è ambientata negli anni Novanta e, sempre facendo il verso ai tempi di Rust e Marty, vede Wayne impegnato in una specie di interrogatorio sui fatti avvenuti nel 1980, salvo poi avviare una seconda indagine. La terza linea narrativa, invece, fa un balzo temporale in avanti fino al 2015, quando Wayne ormai ha settant’anni ed evidenti problemi di natura psichiatrica. Anche in questo caso è impegnato in un’intervista, non della polizia di stato ma di una reporter indipendente che vuole conoscere i dettagli delle investigazioni degli anni Ottanta e Novanta per capire se ci possano essere stati episodi di insabbiamento da parte dei piani alti. Si tratta di una struttura a matrioska parecchio intricata, che da una parte vuole richiamare quella della prima stagione, dall’altra sembra voler rischiare di complicare l’intreccio come ha fatto la seconda.

Purtroppo, queste complicazioni non hanno giovato alla narrazione. Al di là di un ritmo piuttosto blando, reso ancora meno intrigante da una love story tra Wayne e l’insegnante di Will e Julie (Amelia) a dir poco sconclusionata e ricca di dialoghi poco sensati, la sensazione è quella che Pizzolato abbia forzato la mano con l’operazione nostalgia e non sia riuscito a spingere sugli elementi più originali. Come già detto, l’atmosfera richiama molto quella della prima stagione, ma ci sono anche molti altri elementi che le si avvicinano. Il problema è che, appunto, ci si avvicinano senza mai toccare le stesse vette: dunque, il confronto diventa necessario (e poco positivo). Un esempio lampante è quello delle bamboline: si tratta di piccole decorazioni dai tratti piuttosto inquietanti che vengono trovate sul cadavere di Will. Il richiamo alle costruzioni in rametti della prima stagione è evidente, e se la cosa finisse qui si potrebbe dire che sia una piacevole strizzata d’occhio ai fan della serie. Il problema è che le bamboline diventano uno degli indizi più importanti per l’indagine e assumono nel finale un ruolo chiave per svelare l’enigma e il colpevole. In questo modo, la serie sembra volerci fin da subito dire: «Questo dettaglio, che se fosse la prima volta che lo proponiamo sarebbe irrilevante, effettivamente è fondamentale». Così lo spettatore è costretto a vedere i due investigatori vagare da una pista falsa all’altra, consapevole che la chiave di volta stava proprio in quegli oggetti appositamente lasciati nel dimenticatoio a meno di metà della narrazione. Anche l’espediente della demenza senile del Wayne settantenne, uno degli elementi inizialmente più intriganti, poteva essere sfruttato molto meglio per rendere la narrazione meno banale. Invece la fragilità psichica dell’investigatore in pensione viene messa in risalto solo nella conclusione. Un finale, tra l’altro, che di per sé è coerente con la narrazione e ha dei risvolti molto interessanti dal punto di vista dell’evoluzione psicologica dei personaggi. Il problema è la via scelta per raggiungerlo: la matassa viene sbrogliata in maniera del tutta artificiosa.

Le inquietanti bambole disseminate sulla scena del crimine.

Tutto ciò rappresenta un peccato ancora più grande se si prendono in considerazione le cose in cui True Detective 3, come da tradizione per la serie, riesce ad eccellere. A partire dalla recitazione, nel complesso di gran livello e semplicemente spettacolare e nel caso specifico di Mahershala Ali, capace di una ricca espressività e incredibilmente calzante anche nella sua controparte settantenne. I momenti di grande recitazione non sono pochi e in generale la coppia di detective lavora molto bene assieme, soprattutto negli episodi che raccontano le vicende del 2015. Il rapporto tra i due investigatori, in costante evoluzione nelle tre linee temporali, è reso molto bene ed è capace di far appassionare lo spettatore alle sorti dei protagonisti. Ma anche la fotografia regala alcuni momenti mozzafiato, complice l’ambientazione sempre affascinante e alcune scelte molto felici in termini di inquadrature. Bastano questi elementi per controbilanciare una scrittura indebolita da alcune parti meno riuscite? Alcuni risponderanno che è sufficiente, per altri non lo sarà. La vera domanda da porsi è: com’è stato possibile essere contemporaneamente troppo simili alle atmosfere della prima stagione per reggere il confronto e, contemporaneamente, non aver compreso le vere criticità della seconda stagione? Sembra quasi che l’autore pensasse che sarebbe bastato ritornare alle tematiche più cupe e nichiliste per doppiare il successo di cinque anni prima. Purtroppo, il risultato è stato quello di bissare gli errori già commessi senza riuscire a introdurre qualcosa di davvero nuovo.

Essere True Detective

L’ultima incarnazione di True Detective pone le basi per una riflessione più ampia, non solo sull’intera salute della serie ma anche sui meccanismi che ne hanno influenzato la produzione. Senza ombra di dubbio, molte delle scelte fatte riguardo True Detective 3 sono dovute a una volontà di redenzione dallo scontento creatosi per la seconda stagione. Purtroppo, alcune di queste scelte hanno portato a un impoverimento della narrazione, che aveva invece le potenzialità di spiccare nel suo genere. Non possiamo sapere quanto le pressioni economiche abbiano spinto HBO a puntare su un ritorno alle radici, ma la sensazione è che sia stato proprio Pizzolato a sentire la necessità di fare i conti col passato. In ogni caso, True Detective sembra pagare ancora il prezzo del (meritatissimo) successo della sua prima stagione. Quest’ultimo capitolo, nonostante lo sforzo di riproporre un’ambientazione più vicina alle sue origini, fallisce nel mettere a fuoco quale sia la vera essenza della serie. Si tratta solo di un serial poliziesco ben riuscito, o c’è dell’altro? L’atmosfera lugubre e i toni nichilisti sono un imperativo? Bisogna lasciare le vicende investigative in secondo piano, concentrandosi sulla psicologia dei protagonisti? Che cosa vuole dirci davvero True Detective? Questa terza stagione avrebbe potuto fornire una risposta a questi interrogativi e, in questo senso, fornire davvero gli strumenti per comprendere che cosa ci fosse di sbagliato nella seconda. Purtroppo, parafrasando al contrario il finale della stagione, True Detective per ora non si è ritrovato.

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