Come ogni anno in NBA, aprile significa due cose: cominciano i playoff e si chiude il periodo di valutazione per assegnare il titolo di MVP (Most Valuable Player, letteralmente “giocatore più prezioso”) della regular season. Mentre da un lato il premio più importante è sicuramente l’anello di campione NBA, certamente l’MVP è il riconoscimento individuale più alto che si possa ottenere su un campo di basket, che dà l’opportunità di riconoscere il valore di un giocatore anche se non supportato da una squadra che può competere al Larry O’Brien Trophy.
Il titolo di MVP è assegnato in base al voto di un gruppo di giornalisti e commentatori sportivi che indicano cinque prefenze: il primo giocatore di ogni lista riceve dieci punti, quantità che scala fino al quinto, che ne riceve solo uno. Da quando, nella stagione 1980-1981, si è passati al voto dei giornalisti sopracitato (prima a votare erano gli stessi giocatori NBA), un solo giocatore è riuscito a ricevere il premio all’unanimità: Stephen Curry nella stagione 2015-2016. Sicuramente quest’anno non sarà il secondo a regalare un altro MVP unanime, anzi, la battaglia per il titolo sembra più incerta che mai.
Con poche partite al termine della regular season infatti, quest’anno la lotta per il titolo di MVP sembra ormai una corsa a due tra l’MVP uscente della scorsa stagione, la guardia degli Houston Rockets James Harden, e il trascinatore dei Milwaukee Bucks, Giannis Antetokounmpo. I due cestisti hanno uno stile di gioco completamente differente l’uno dall’altro, ma entrambi hanno dimostrato di saper condurre la propria squadra a diventare da una parte una seria candidata alla vittoria a Est, dall’altra probabilmente una delle poche squadre che potrebbero infastidare i campioni in carica, i Golden State Warriors. Volendo entrare nello specifico, ci sono altri giocatori che hanno impesierito Harden e Antetokounmpo durante questa stagione. In particolare, tra gli altri candidati si possono citare l’ex MVP Curry, un Joel Embid finalmente operativo al cento per cento e Paul George alla sua migliore stagione in carriera. Nessuno, però, sembra nemmeno vicino alla coppia di testa e, a poche giornate dal termine, non sembra esserci la possibilità che qualcuno possa recuperare questo svantaggio.
James Harden è, a buon ragione, il candidato principale al titolo: è uno scorer puro che in questo momento sta viaggiando a una media di 36.3 punti per partita, accompagnati anche da 6.5 rimbalzi e 7.5 assist. Rispetto alla stagione passata, quando ha vinto l’MVP, le sue medie sono migliorate sia per quanto riguarda i rimbalzi che, soprattuto, per i punti, che sono aumentati di 6 a ogni allacciata di scarpe. Se la stagione regolare finisse in questo istante e la sua media punti dovesse essere confermata, saremmo di fronte a dei numeri fenomenali: per trovare un giocatore con una media punti più alta sarebbe necessario tornare indietro di oltre trent’anni, alla stagione 1987-1988, quando niente meno che Michael Jordan nei suoi prime years accumulò una media di 37.1 punti per partita. Ancora più assurdo, i punti che the Beard produce in tre quarti di partita (27.9) lo posizionerebbero secondo nella classifica di scorer di questa stagione, dietro solo a Paul George.
Ma non sono solo le statistiche a fare in modo che Harden sia uno dei due candidati princiapli all’MVP di quest’anno. Il barba ha dimostrato che le sue capacità di leader sono indubbiamente migliorate e che i punti messi a segno ad ogni partita non sono solo un modo per riempire il suo tabellino, ma aiutano effettivamente gli Houston Rockets a essere una delle principali minacce agli alieni della baia. La stagione dei Rockets, infatti, non era partita nel migliore dei modi con le altre due star, Paul e Capela, spesso infortunate e un record negativo che non lasciava ben sperare. Ciononostante, Harden è riuscito a portare i suoi al terzo posto (in questo momento) in una Western Conference più competitiva che mai e lo ha fatto con un percorso incredibile. In particolare, Harden ha collezionato una striscia di trentuno partite consecutive da almeno trenta punti in un periodo di due mesi e mezzo iniziato a metà dicembre, record inferiore solo a quello di sessantacinque partite dell’inarrivabile Wilt Chamberlain. Durante questa striscia, Harden ha viaggiato ad una media irreale di 41.2 punti per partita, ma soprattutto ha portato la squadra di Houston da un record di 12-14 a uno di 33-24.
Nonostante la sua migliorata leadership e i suoi numeri da capogiro, the Beard è sempre tra i giocatori più criticati della lega, con gli haters che lo attaccano per i suoi step back al limite dei passi e per l’alto numero di tiri liberi fatti in ogni partita (frutto di una ricerca costante di contatto con il difensore). Se da un lato queste critiche sono ben fondate, dall’altro sono entrambe tecniche accettate dalla NBA, che Harden riesce a sfruttare solo grazie alle sue incredibili doti cestistiche.
Altra conference, altro giocatore, altro stile. Se da un lato Harden è il prototipo del play/guardia tiratrice, dall’altro Giannis Antetokounmpo è il giocatore dal fisico perfetto, atlteticamente devastante e che si affida poco (per fortuna degli avversari) al tiro da fuori. Quest’anno il greco sta viaggiando a 27.7 punti per partita, accompagnati però anche da 12.5 rimbalzi e sei assist ad allacciata di scarpe. In generale, Antetokounmpo può essere considerato un all-around in quanto riesce a mettere a disposizione le sue straordinarie doti atletiche (è alto due metri e undici, con un’apertura alare di due metri e ventuno, racchiusi in centodieci chili di muscoli) per la squadra, dove è leader nelle tre statistiche più importanti (punti, rimbalzi e assist) e secondo in palle rubate e stoppate.
Statistiche a parte, the Greek Freak è fondamentale sia in attacco, dove può coprire tranquilamente tutti e cinque i ruoli, che in difesa, dove può marcare senza problemi ali piccole, grandi e centri, senza comunque sfigurare anche contro cestitisti più piccoli e rapidi. Come nel caso di Harden, anche Antetokounmpo ha dato prova di maturità durante tutta la regular season con prove solide e costanti, che non si sono limitate al suo strapotere fisico, ma hanno dimostrato anche un’intelligenza cestistica superiore alla media. Giannis, inoltre, è un modello per i suoi compagni anche a livello di attitudine, in quanto famoso nello spogliatoio per spingere sempre tutti a migliorare, lavorando sodo sia a livello fisico e individuale che a livello collettivo.
Grazie al suo contributo, i Bucks stanno guidando la Eastern Conference per la prima volta nella loro storia, davanti a squadre che a inizio stagione erano molto più quotate, come Raptors e Celtics. Ma la leadership della squadra di Milwaukee non è solo limitata alla Eastern Conference: a oggi i Bucks hanno il migliore record di tutta l’NBA, una statistica che sicuramente favorisce Giannis nella corsa all’MVP, soprattutto in una stagione che sta confermando il fatto che il dislivello tra le due conference si sta assottigliando sempre di più.
È chiaro dunque che quest’anno la sfida per l’ambito titolo individuale è più agguerrita che mai, con Harden e Antetokounmpo che ogni notte si sfidano a distanza, cercando di condurre le loro relative squadre alla vittoria. Nelle sfide dirette tra Bucks e Rockets nessuno dei due giocatori è riuscito a prevaricare nettamente l’altro, lasciando quindi la sfida ancora più incerta. La speranza di molti appassionati è quella di rivedere questa sfida durante le finals, ma perchè questo accada è necessario che i Rockets riescano nell’impresa non certo facile di battere i campioni in carica e che i Bucks continuino a produrre basket di qualità durante i playoff; fatto non scontato, soprattutto con un roster realtivamente inesperto in post season. Con tutte queste incertezze in gioco, non sarà un compito facile per i giornalisti scegliere il miglior cestista della stagione regolare. Una cosa, però, è certa: vedere entrambi lottare durante i playoff sarà sicuramente un gran divertimento.
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