6 aprile 2009. Alle 3.32 della notte la terra dell’Appennino centrale ha tremato. L’Aquila, città capoluogo abruzzese, e la sua provincia hanno tremato: 309 vittime, 1600 feriti, 80000 sfollati.
6 aprile 2009. Il nuovo anno Zero. Per almeno tre generazioni di aquilani, il tempo non è più scandito convenzionalmente dagli anni, c’è solamente un “prima del terremoto” e un “dopo il terremoto”. Un evento del genere diventa, inevitabilmente, uno spartiacque. Secondo questo calendario, dunque, siamo nell’anno Dieci. Sono appena passati poco più di dieci anni da quella notte e dell’Aquila, scomparsa dall’attenzione nazionale per un po’, si è tornato a parlare sui media e sui giornali.
Il decennale ha portato tante telecamere in città, giornalisti e curiosi sono cominciati ad arrivare settimane prima per fare i loro servizi e mettere su un lavoro innovativo che «mettesse al centro gli aquilani». L’anniversario, come era normale che fosse, è stato particolarmente sentito dalla cittadinanza. La malinconia e la tristezza si percepivano nell’aria, ancor più pesante dei nove anniversari precedenti, e il tutto è culminato con la fiaccolata tenutasi nel centro storico nella notte tra il 5 e il 6 aprile. Gli eventi e le commemorazioni sono state tante, dunque: una delle più toccanti e suggestive è stata sicuramente quella realizzata dal fotografo aquilano Roberto Grillo.
La sua mostra, “Ricordo, Memoria, Futuro”, è stata esposta sui portici di corso Vittorio Emanuele. È composta da tredici ritratti di uomini e donne che hanno in qualche modo avuto a che fare con il sisma, direttamente o indirettamente. Sono Pierluigi Biondi e Massimo Cialente, l’attuale sindaco dell’Aquila e il precedente, Guido Bertolaso, l’ex capo della Protezione Civile, Fabio Picuti, il PM dell’inchiesta sulla Commissione Grandi Rischi. Ma ci sono anche il volto di Alice, la bimba nata il 10 aprile 2009, e quello di Dina Sette, la mamma che con il sisma ha perso i suoi due figli. Hanno gli occhi chiusi e i loro volti sono segnati da parole significative, come se fossero delle cicatrici sulla loro pelle. Un’esposizione commovente, senza dubbio, che prova a guardare non solo al passato, ma anche al futuro della città con un pizzico di speranza.
L’Aquila è cambiata, in questi dieci anni. Usciti dall’autostrada, la città accoglie i visitatori con uno skyline fatto di gru. Dove c’erano macerie e polvere, ora ci sono ponteggi. Dove c’erano puntelli, ora ci sono attività commerciali aperte. Il centro storico, il cantiere più grande d’Europa, è considerato un esperimento di avanguardia tecnologica e urbanistica, per come si è deciso di restaurare gli edifici e per il progetto complessivo. Si stima che i lavori possano finire entro il 2024. Ma intanto? Nell’attesa che la ricostruzione faccia il suo corso, ci sono più di sessantamila persone che la città vorrebbero e dovrebbero viverla, invece si ritrovano ad abitare in un luogo che promette tanto, ma attualmente offre poco.
Il 6 aprile 2009 non è uno spartiacque solamente per gli aquilani. Lo è anche un po’ per l’Italia. Quella data ha inaugurato un periodo in cui, purtroppo, ci sono succeduti diversi eventi simili. Dalle alluvioni, agli altri terremoti, ai ponti crollati. L’Aquila è diventato il metro di paragone per qualsiasi emergenza nazionale, nel bene e nel male. È diventata il modello da seguire o da non seguire, a seconda della fazione politica a cui si appartiene. Dal 2009 ad oggi in Italia si sono succeduti sei governi. Sei Presidenti del Consiglio che hanno proclamato di avere la soluzione in tasca per ricostruire un’intera città distrutta. Le promesse spesso non sono state mantenute. Spesso sono stati proposti progetti per accontentare chi di dovere, ma non realmente utili.
Oggi, a dieci anni dal terremoto, quelle case provvisorie che hanno permesso ai cittadini di avere un tetto sopra la loro testa ad appena quattro mesi dal sisma, non sono più tanto provvisorie. Ancora più di settemila aquilani vivono nelle cosiddette “casette di Berlusconi”, agglomerati residenziali che necessiterebbero di una manutenzione continua che non viene fatta, interi quartieri dormitorio che hanno contribuito ulteriormente alla disgregazione sociale della comunità. È proprio il tessuto sociale la cosa più difficile da rimettere su. Una città costruita intorno al suo centro storico brulicante di vita si ritrova ora divisa in decine di quartieri periferici, dove i luoghi di aggregazione sono diventati i centri commerciali. Le scuole, prima situate per la maggior parte in centro, sono ancora ospitate nei M.U.S.P, Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio, che tanto provvisori poi non sono. La disgregazione e la poca attenzione ai giovani è forse il peggior danno che una comunità possa farsi: taglia le gambe al suo futuro.
È vero anche che tante cose sono state fatte, in questi dieci anni. Molte case della periferia sono state ricostruite, molti edifici di importanza storica e artistica anche. Parte del merito va senza dubbio dato agli aquilani, che nei primi anni dopo il sisma hanno dimostrato una tenacia e una compattezza non comune. Hanno liberato le loro strade dalle macerie prendendo guanti e carriole, hanno dovuto sopportare insulti, botte e risate inappropriate. Hanno resistito. Ora la loro testardaggine sta cedendo, forse per stanchezza, o per abitudine. Quelli che nei primi anni dopo il sisma hanno rappresentato dei luoghi d’incontro e aggregazione, ora sono diventati centri di disgregazione. Cattedrali nella periferia di una città vuota, che ha perso il suo centro di riferimento. Un centro che, nonostante siano passati dieci anni, fatica a riprendere vita. Lo straniamento, il sentirsi straniero in casa propria, il vivere in un limbo tra una casa e l’altra, sono sentimenti che, a lungo andare, rischiano di minare la forza dei cittadini.
Il terremoto è stata una lezione importante. Rimarrà nella memoria degli aquilani per un bel po’ di tempo, in quella degli italiani purtroppo per meno. La memoria nazionale tende ad essere flebile. Vivere un evento di questa portata inevitabilmente ti cambia la vita. Fai attenzione a non appendere mensole sopra il letto di tuo figlio, a posizionare i soprammobili appena un po’ più dentro, non sul bordo del mobile, ad assicurarti che la tua casa sia costruita sul terreno giusto e nel modo giusto. Si guarda tutto da una prospettiva diversa, dai gesti banali alle cose importanti, tutto cambia.
Da giovane aquilana da un po’ lontana, fisicamente e spiritualmente, dalla sua città, posso dire che una menzione d’onore va fatta ai ragazzi dell’Aquila. A quelli che sono rimasti, ma anche a quelli che sono andati via: entrambi hanno fatto una scelta coraggiosa. I giovani hanno avuto e hanno tuttora un ruolo preponderante nella ricostruzione del tessuto sociale della comunità. Si sono fin da subito impadroniti prepotentemente del centro storico, anche quando quest’ultimo era sinonimo di buio, vuoto e tristezza. Si sono accontentati di passeggiare in un’unica via, aperta solo per metà, senza nessun bar o locale dove fermarsi. Hanno invaso il centro tutti i giovedì e i sabato sera, nonostante le temperature invernali e i lavori in corso. C’è una generazione di ragazzi che non ha vissuto nient’altro che questa città, che non ricorda neanche il nome delle vie di un centro che non ha mai conosciuto. Quella generazione è il futuro dell’Aquila e sta dimostrando di volersi riprendere il suo spazio non per una nostalgia del passato, ma per un amore profondo nei confronti di questa città, quella nuova.
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