La lista dei live action Disney si fa sempre più corposa e, dopo il successo ottenuto da progetti come La bella e la bestia (2017) e Il libro della giungla (2016), questa volta è toccato a Dumbo subire la trasformazione dall’animazione al reale. Si è voluto puntare decisamente in alto per la realizzazione del film, sia grazie a un cast ricco e di spessore sia grazie alla regia di Tim Burton, qui al suo ritorno dietro la macchina da presa dopo tre anni da Miss Peregrine (2016). Analizziamo quindi il nuovo lavoro di Burton, considerando le differenze e le analogie rispetto al cartone animato originale.
Dumbo – L’elefante volante rappresenta il quarto classico Disney, uscito nel 1941. La sua storia produttiva è particolare poiché, dopo l’insuccesso al botteghino di Fantasia (1946), Disney decise di produrre un film decisamente meno costoso per contenere le perdite. Questo lo possiamo intuire, oltre che dalle animazioni meno dettagliate, dal fatto che il film avesse la bizzarra durata di soli 64 minuti. La RKO, che si occupò della distribuzione della pellicola, cercò di far allungare il film o di distribuirlo come un B-movie, ma la Disney fu irremovibile. Nonostante in pochi credessero nelle potenzialità del progetto, i risultati finali furono sorprendenti. Dumbo conquistò un traguardo straordinario, diventando il maggior successo economico degli anni Quaranta per la Disney.
La storia è ambientata in un circo ed è incentrata sulla figura dell’elefantino Dumbo, deriso da tutti per le sue enormi orecchie. Quando la madre viene rinchiusa poiché considerata troppo aggressiva, l’unico ad aiutarlo è il topolino Timoteo con il quale Dumbo stringe amicizia. Nel finale, grazie a una piuma donatagli da tre corvi, Dumbo riesce a volare usando le sue orecchie come ali e si ricongiunge alla madre. A livello di trama, il live action di Tim Burton è molto simile all’originale. Il ruolo di Timoteo viene traslato sui piccoli Milly e Joe, i due bambini che sostengono Dumbo fin dall’inizio, mentre le ambientazioni restano quelle del circo. Nello specifico, il film è ambientato in un piccolo circo nel 1919, con a capo Max Medici (Danny DeVito). Tornano anche alcune scene o momenti memorabili dell’originale, per i fan di vecchia data. Una su tutte la canzone Bimbo mio, cantata mentre la mamma di Dumbo lo accarezza con la proboscide da dietro le sbarre, così come l’iconica scena degli elefanti rosa, non più generati da allucinazioni alcoliche dell’elefante ma da uno spettacolo di bolle di sapone, decisamente più adatto per un pubblico di bambini.
La differenza più grande sta però nel finale. Nel classico del 1941, Dumbo ottiene la fama e si riunisce alla madre, rimanendo però parte del circo. In questo live action, invece, il messaggio più forte è quello contro lo sfruttamento degli animali. Ogni volta che vediamo un animale esibirsi in uno spettacolo ne percepiamo la sofferenza: alla fine del film Dumbo viene portato nel suo habitat naturale insieme alla madre, dove incontrerà altri suoi simili coi quali convivere. Un’altra differenza a livello di trama sta nell’eliminazione dei personaggi dei corvi. Milly e Joe, infatti, ricopriranno non solo il ruolo che nell’originale era di Timoteo ma anche quello dei corvi (saranno loro a donare la piuma a Dumbo). La decisione era prevedibile, poiché i tre corvi sono stati tacciati di essere una rappresentazione razzista della comunità nera, anche se il giudizio non è unanime e tanti critici li considerano invece personaggi positivi. Tuttavia, la Disney ha preferito evitare le polemiche e fare a meno di questi personaggi.
Passiamo ora nel dettaglio all’analisi del film in live action. In molti si aspettavano un Dumbo rivisitato secondo l’estetica e lo stile di Tim Burton, ma così non è stato. L’unico elemento che può far pensare al famoso regista è la scelta degli attori, ricorrenti nei suoi film, ma per il resto la sua impronta è quasi del tutto assente. Inoltre è evidente come il target di riferimento sia quello dell’infanzia. Non ci sono sottotesti, dettagli da cogliere o messaggi più o meno impliciti per un pubblico più adulto. Tutto è esposto in maniera diretta e le azioni si svolgono solo e unicamente in funzione dell’obiettivo finale. Anche i personaggi subiscono la stessa sorte. Nonostante il cast sia ben nutrito, infatti, nessuno riesce a spiccare e ogni personaggio è rinchiuso nel suo ruolo senza alcun tipo di approfondimento. Avremo quindi il cattivo, che parla, si muove e fa solo cose da cattivo, il buono, l’aiutante, l’eroe e così via. La sensazione è quella di aver voluto riempire il film, lasciandolo però allo stesso tempo vuoto. Lo stesso Dumbo, per quanto tenero e realizzato in modo impeccabile, fa sempre le stesse cose e si riesce ad andare poco oltre rispetto al riconoscimento di quanto carino possa essere. Apprezzabile, però, l’aver mantenuto il mutismo dell’elefante che, così come nell’originale, non parla mai durante il film. Per questo motivo è lodevole l’utilizzo registico della soggettiva, che ci fa entrare più in empatia col personaggio. Assistiamo inoltre molto spesso a dei primissimi piani dell’occhio di Dumbo, nel quale si riflette ciò che sta vedendo. In questo modo lo spettatore vede letteralmente attraverso i suoi occhi l’oggetto in questione.
Anche la narrazione soffre di una ripetitività abbastanza marcata, soprattutto agli occhi di un adulto. Sicuramente non è stato facile riadattare un classico di soli 64 minuti in una storia che durasse quasi due ore. Tuttavia si potevano scegliere altri modi per diluire il racconto, magari focalizzandosi sulla storia degli altri personaggi che, man mano che il film prosegue, rimangono sempre più sullo sfondo. La strada scelta è stata invece quella di sdoppiare il racconto in due parti pressoché identiche. La svolta avviene quando l’impresario Vandevere (Michael Keaton), dopo aver saputo dell’esistenza di Dumbo, invita Max Medici e il suo circo a Dreamland, un enorme parco divertimenti in cui far diventare Dumbo una star. Il problema è che il canovaccio utilizzato è lo stesso nella prima parte, ambientata nel circo di Medici, e nella seconda, ambientata a Dreamland. In entrambi i casi Dumbo fallisce nel suo numero d’apertura per poi riuscire invece nel secondo, in seguito a varie prove per riuscire a volare; prima grazie all’aiuto di Milly e Joe, poi della trapezista Colette Marchant (Eva Green).
Questo non significa che Dumbo sia un film realizzato male o con una pessima sceneggiatura. Semplicemente, si tratta di una sceneggiatura indirizzata ai più piccoli, che hanno bisogno di messaggi chiari, diretti e a volte ripetitivi per poter comprendere al meglio la morale dell’opera. È chiaro che per un adulto, ancorato magari al ricordo del Dumbo originale, questo remake possa sembrare noioso o poco stimolante, ma per un bambino che non conosce la storia e vede Dumbo per la prima volta risulterà sicuramente una visione piacevole ed educativa. Rimangono infatti centrali i temi del credere in sé stessi (Dumbo non ha davvero bisogno della piuma per volare e lo capirà nel finale, sia del film che del cartone originale) e degli emarginati che prima vengono derisi per poi prendersi la loro rivincita. Abbiamo poi l’aggiunta di tematiche più vicine alla nostra epoca, come lo sfruttamento degli animali e il loro bisogno di vivere nella natura alla quale appartengono. Nonostante questo, visto il tiepido riscontro ottenuto al botteghino nei primi giorni di programmazione e l’imminente uscita di altri due live action ripresi da classici Disney come Aladdin e Il re leone, probabilmente Dumbo sarà tra quelli meno ricordati o amati negli anni a venire.
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