Pietro Alessandro Alosi, in arte semplicemente Alosi, è uno che ne ha macinati, di chilometri. Cantautore, musicista e produttore siciliano, con lo scatenato duo folk/bluegrass Il Pan Del Diavolo (dieci anni di carriera e quattro album all’attivo) è stato tra i protagonisti di quella felice fase della musica indie da poco conclusa, che vedeva in prima posizione per successo e prolificità gli artisti de La Tempesta Dischi. Per la stessa etichetta, chiusa l’esperienza con Il Pan Del Diavolo, esce ora 1985, esordio solista di Alosi, che lo definisce: «un viaggio musicale viscerale e intenso, un portale musicale attraverso quello che siamo, quello che saremmo potuti essere e quello che saremo».
Le chitarre restano ancora lo strumento protagonista in 1985: non più indemoniati e sanguigni giri di chitarra acustica, ma infuocati wall of sound di elettrica in un contesto, tra registrazione in presa diretta e distorsioni spinte, che ammicca a territori internazionali, a quella schiera di musicisti che negli anni Novanta ha portato all’estremo lo spettro sonoro dello strumento, il tutto accompagnato da testi introspettivi e profondi, personali e riflessivi.
Abbiamo incontrato Alosi per parlare di 1985, delle sue scelte stilistiche e per mettere a confronto la sua idea di musica e le esperienze di un musicista navigato con i profondi e rapidi cambiamenti che sta vivendo la scena indipendente italiana in questi anni, il tutto all’alba di un all’alba di un tour che porterà l’album live nelle maggiori città italiane.
Alessandro, ti diamo il benvenuto su TheWise Magazine. Partiamo da dove avevamo lasciato Il Pan Del Diavolo, alla pausa in seguito al tour di Supereroi (La Tempesta, 2017), il vostro quarto e ultimo album. In questi due anni cosa è cambiato e cosa ti ha portato alla scelta di intraprendere questa nuova carriera, stavolta come solista?
«In due anni sono cambiate un sacco di cose sia nella mia vita personale che musicale. Nel frattempo ho intrapreso questa avventura solista, questa volta alle prese con un genere per me, almeno discograficamente, inedito: un disco dall’animo diretto, rock, con una band completa al seguito. Ho messo al primo posto la mia creatività e ho seguito ciò che avevo voglia di fare. L’idea alla base è stata quella di mantenere in tutto il lavoro una buona dose d’istinto: se quello che stavo facendo riusciva a farmi stare bene, se la mia idea musicale continuava a crescere e svilupparsi, allora andava bene. Ho iniziato a registrare le canzoni di questo album solo dopo averci lavorato a lungo e sono molto soddisfatto del risultato, un risultato che è la fine di un lungo percorso».
Un percorso che ti ha portato alla creazione di 1985. Un album diverso, dalla scrittura tipicamente diretta e pungente, uno stile a cui ci avevi abituato nei tuoi precedenti lavori, ma con sonorità più dure e strutturate rispetto al passato. Quali sono i punti di raccordo con il tuo percorso finora e quali le novità che dovremmo aspettarci?
«I punti di raccordo sono decisamente meno di quelli di rottura. Anche se non faceva parte del mio manifesto lavorativo, anche se non era in programma ai tempi de Il Pan Del Diavolo, sapevo già che stavo dirigendomi verso una direzione diversa dagli inizi e mi piaceva così. Sono sempre io, la mia voce e i miei testi, ma in una veste nuova, lontana da quello che era il mio vecchio gruppo. Il progetto aveva quindi bisogno di una diversa musica, di una diversa creatività».
Immagino quindi che il nuovo contesto che si è venuto a creare, con una band al completo e con la scelta di registrare l’album in presa diretta, sia stato una scelta necessaria ad esplorare questa diversa creatività.
«Si, decisamente. Sono venute fuori sonorità a tratti punk, a tratti new wave, molto spinte. Più che 1985, e questo me lo fa notare chiunque ascolti l’album, effettivamente ci si spinge quasi al 1991. Ci sono ispirazioni che vanno dallo shoegaze all’hardcore dei Raid, ai Killing Joke, Shellac, The Replacements. Un altro mondo musicale che faceva comunque parte della mia formazione, essendo musica con cui sono cresciuto e che ho continuato a scoprire e riscoprire negli anni, visto che il mondo del punk e della new wave è un universo sterminato con tanti tesori da apprezzare».
Quanto hai pensato al mercato musicale attuale prima di decidere di uscire con un disco così duro? Molti dei brani che costituiscono l’ossatura di 1985 hanno un sound granitico e testi complessi che, rispetto ai generi che il pubblico sembra preferire oggi, sembrano quasi fuori posto.
«Nessun ragionamento sul mercato! Da questo punto di vista, ho avuto la possibilità di fare qualcosa di veramente artistico e di seguire l’istinto. Guardo al mercato per una curiosità personale riguardo alle nuove uscite e a come si evolve, ma quando poi mi siedo e scrivo canzoni preferisco inseguire quel qualcosa, piuttosto che adattarlo al momento storico».
In due anni di assenza dalla scena ti sei ritrovato davanti un ambiente completamente diverso, un ricambio generazionale di artisti impressionante, anche a causa dei meccanismi quasi ipertrofici della scena itpop. Cosa pensi della situazione della musica indipendente italiana?
«Non saprei cosa dirti, sta cambiando tutto così rapidamente! Da ascoltatore tanti anni fa ero fuori da questo mondo, non ci ragionavo particolarmente. Oggi da musicista continuo a guardare, dico ‘figo, c’è spazio per tutti’. So che il rock non è più in classifica da anni, m’importa poco al momento: il mio linguaggio musicale potrebbe cambiare ancora in futuro. Per ora il risultato è questo album, e lo difendo a spada tratta. Chi produce e ascolta buona musica sta bene anche senza pensare troppo al mercato».
In questo scenario fatto di cambiamenti, riesci comunque a trovare artisti con cui rapportarti? Mi viene in mente la tua collaborazione con Motta, ormai lanciatissimo, di qualche anno fa (Se continuiamo a correre, da La fine dei vent’anni, Woodworm 2016). Che evoluzione ti aspetti per l’ambiente attuale?
«Le mie collaborazioni e amicizie storiche in ambito musicale, soprattutto quelle legate a una certa scena toscana degli inizi de Il Pan Del Diavolo, oggi esplosa in termini di successo, sono ancora lì. Nel frattempo, ho cercato di allacciare nuovi rapporti, di spingermi verso nuove realtà con cui non avevo ancora lavorato, ma non mi verrebbe da farti nomi specifici, al momento. Questo album è molto personale, parla di me. Per dedicarmi a collaborazioni e contaminazioni ci sarà tempo, in questa fase ero maggiormente interessato a capire musicalmente chi sono io e cosa stavo facendo.
Le collaborazioni vere, in questo caso, sono quelle dei musicisti che hanno suonato con me [Luca Di Blasi, Ugo Cappadonia, Massimo Palmirotta, Julian Zyklus, N.d.R.], che hanno supportato e fatto crescere la mia idea; più che sulla struttura dei pezzi, sono stati le colonne portanti dell’album in senso più strettamente musicale. Io ci ho aggiunto la produzione, la mia idea di registrare in presa diretta, anche cantando, così che tutti potessimo essere più coinvolti. Tutto quello che stavamo facendo era lì sin da subito e potevamo ascoltarlo. Questo ha fatto bene dal punto di vista della registrazione, ha fatto si che emergesse il cuore pulsante dei singoli brani».
Pensi di portare live l’album con la stessa formazione? Quanto dell’alchimia e della solidità di 1985 sarà presente anche ai tuoi concerti?
«I pezzi sono stati essenzialmente registrati live, quindi le sensazioni, la potenza, saranno le stesse. Il batterista sarà un altro, ma il sound sarà esattamente quello».
In brani come la title track 1985 o Hotel ci parli di crescita, di disillusione nei confronti di un mondo diverso dal passato. Il tutto è sorretto da ritmiche e riff granitici e solidi. Che importanza daresti rispettivamente ai testi e agli arrangiamenti di 1985? Quale delle due parti ha maggiormente contribuito a generare l’intero album?
«Resto sempre del parere che la scrittura si porti dietro tutto il resto. La scrittura del pezzo, i testi, sono decisamente la parte più importante. Il linguaggio musicale, gli arrangiamenti, sono invece una veste. Non ho scelto questo vestito per poi cercare dei contenuti da metterci dentro. Quello che dicevo, quello che cantavo aveva probabilmente bisogno di più spinta e l’ho vestito così, ma i testi sono davanti a tutto. Ho dato un significato molto personale a 1985, è un po’ una osservazione di me stesso».
Qual è il tuo brano preferito di 1985?
«Oggi come oggi ti direi Destinazione Marte. Lo considero il brano a cui ho lavorato per più tempo, su cui ho speso più energie, era molto difficile da domare. Un pezzo lunghissimo che parla di fantascienza e speculazione economica, forse il brano più attuale e macchinoso dell’album. Gli riservo un posto speciale».
Cliccare qui per ascoltare l’album: Alosi-1985
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