DISCLAIMER: l’autore dell’articolo ha provato in tutti i modi a riportare fedelmente passo dopo passo lo sviluppo della Brexit, ma lo psicodramma del parlamento britannico lo impedisce, dal momento che ogni giorno a Westminster un nuovo accordo viene bocciato dalla Camera dei Comuni.
Londra, 23 giugno 2016. I risultati del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea cominciano lentamente ad arrivare. Si parla di un testa a testa fra remain e leave. I Londoners attendono con ansia l’esito della consultazione elettorale, così come buona parte dei Geordie del Tyneside che hanno votato leave. Il risultato finale è leave al 52% e remain al 48%. I sondaggi si erano sbagliati: il Regno Unito ha votato per uscire dall’Unione Europea. David Cameron, che con questo referendum aveva scommesso sull’integrità del suo governo e sulla sua carriera politica, fugge e lascia la situazione in mano ai Tories. Theresa May viene nominata Primo ministro. Comincia così la Brexit.
In realtà, parlare già di Brexit non sarebbe del tutto corretto. La Brexit vera e propria non è neppure cominciata. Il Regno Unito è, ad oggi, Stato membro dell’Unione Europea. Si è discusso per più di due anni circa la data ufficiale in cui si sarebbe dovuta formalizzare la Brexit. In un primo momento, il governo britannico aveva concordato con l’Unione Europea di uscire il 29 marzo 2019 alle ore 21:00. Per parecchio tempo, questa è stata la deadline a cui tutti facevano riferimento. Perlomeno fino a qualche mese fa.
A partire dal mese di gennaio, il governo May, uscito indebolito dai numerosi rimpasti occorsi negli ultimi anni, è stato quasi sempre sconfitto in parlamento. L’accordo di uscita negoziato da Theresa May con Bruxelles è stato rifiutato da Westminster quattro volte di fila, con maggioranze mai vista prima nella storia della politica britannica. L’opposizione dura e pura dei laburisti – anch’essi tutt’altro che immuni dalle critiche, visto che hanno sofferto una scissione che ha portato alla nascita dell’Independent Group – ha fatto eco e molti membri del Partito Conservatore, scontenti per come May ha gestito la situazione, hanno votato contro il governo.
Non solo: il parlamento britannico ha rigettato in blocco qualsiasi altra proposta presentata in aula. Unione doganale o accordo alla norvegese? Nope. Secondo referendum? Apriti cielo. Eppure, nonostante questo atteggiamento prevalentemente masochista, l’opzione no deal Brexit, ovvero l’uscita immediata senza alcun accordo, talvolta chiamata anche Hard Brexit, è stata rifiutata qualche giorno fa dalla Camera dei Comuni, a seguito dell’ennesima sconfitta del governo May sul suo accordo. A questo punto è naturale chiedersi: cosa vuole davvero fare il Regno Unito? Vuole uscire? Vuole altro tempo? E all’Unione Europea, tutto questo va bene?
Prima di rispondere a queste domande, sarebbe opportuno dedicare particolare attenzione a quello che pensano gli altri soggetti coinvolti in questo marasma. I cittadini britannici sono stanchi della Brexit. I remainers vogliono a tutti i costi ribaltare il risultato del referendum, visto lo stallo che si è creato. Una petizione online da presentare al parlamento britannico, che aveva come oggetto la revoca dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che lo UK ha attivato per uscire dall’UE, è stata sottoscritta da più di sei milioni di persone. Il governo britannico ha respinto questa proposta. «Questo governo non revocherà l’articolo 50», si legge nell’email automatica inviata da 10 Downing Street a coloro i quali hanno sottoscritto la petizione. «Onoreremo il risultato del referendum – continua l’email – e lavoreremo affinché il parlamento produca un accordo che ci assicura che usciremo dall’Unione Europea».
Gli hard brexiteers, ovvero quelli che intendono uscire subito unilateralmente senza accordo, hanno dato voce al loro malcontento in questi ultimi mesi e godono, peraltro, di una folta rappresentanza parlamentare. Jacob Rees-Mogg, Peter Bone, l’ex ministro Boris Johnson e Nigel Farage, il più famoso, combattono per avere una Brexit che rispetti la volontà popolare. Ultimamente, però, è prevalso il buonsenso. All’ultima votazione sull’accordo May, osteggiato dagli hard brexiteers e dai nordirlandesi del DUP per la parte sul backstop, Boris Johnson e i suoi hanno votato a favore, sostenendo la necessità di porre fine il prima possibile a quest’impasse.
Le conseguenze economiche della Brexit sono state il leitmotiv di molti analisti che hanno previsto fin da subito un crollo dell’economia britannica. Dal 2016 la sterlina ha effettivamente perso di valore sul mercato valutario e il Paese è entrato in stagnazione economica. Le multinazionali stanno già programmando il trasferimento dal Regno Unito verso altre nazioni dell’Unione Europea. La casa automobilistica giapponese Honda, per esempio, ha annunciato che entro il 2021 chiuderà tutti gli stabilimenti in Regno Unito, causando la perdita di 3.500 posti di lavoro. Importanti banche come Barclays e Bank of America hanno spostato in Irlanda e in Francia asset dal valore di centinaia di miliardi di euro.
La Brexit avrebbe allontanato anche importanti investimenti destinati allo sport provenienti dall’estero. Il Regno Unito, che ha investito come nessun altro Paese europeo sullo sport (e lo abbiamo visto nelle ultime due edizioni delle Olimpiadi), rischia di isolare se stesso dal resto del mondo. Il calcio in UK genera un indotto economico come pochi. Le squadre della Premier League, il campionato di calcio più seguito al mondo, sono composte principalmente da giocatori stranieri. La possibilità che quello britannico diventi un mercato più ristretto dopo la Brexit esiste e il fascino che ha suscitato in tutti questi anni potrebbe svanire da un momento all’altro. Tutti i contratti televisivi milionari e i calciatori stranieri che hanno segnato la Premier League negli ultimi decenni potrebbero diventare parte del passato.
Qualcuno tuttavia potrà obiettare, dicendo che nel mondo non esiste solo il calcio. È vero, c’è anche il basket. Uno sport abbastanza praticato in Europa, ma non in Gran Bretagna, dov’è considerato inferiore a tutti gli altri. E nonostante questo, il Regno Unito è il primo mercato europeo per l’NBA, la lega americana di basket che genera ogni anno miliardi di profitti. Londra è stata, dal 2011 al 2019, la sede dell’unica partita europea stagionale dell’NBA. Un evento che attira decine di migliaia di tifosi europei e porta con sé un ritorno economico non indifferente.
La Brexit ha fatto cambiare idea al commissioner della National Basketball Association Adam Silver, che ha deciso di spostare la partita a Parigi a partire dal 2020. Ufficialmente, non è stato fatto nessun riferimento alla Brexit, ma non è difficile riflettere sul ragionamento dell’NBA in merito a questo spostamento. La Brexit impedirà a molti cittadini europei di raggiungere il Regno Unito per andare a vedere le partite dell’NBA. Pertanto, è meglio agevolare chi non vive in Regno Unito, oltre a offrire una logica di alternanza che premi anche altri Paesi. Un privilegio strappato a una delle più importanti capitali europee e il colpo di scure allo sviluppo del basket in Regno Unito, destinato a rimanere uno sport “minore”.
Insomma, a giudicare da quello che dovrebbe succedere a causa della Brexit, non dovrebbe verificarsi un’apocalisse ma poco ci manca. Un fenomeno pervasivo sta sfiancando il popolo britannico, che rimane profondamente diviso a tre anni dal referendum. Tocca agli attori in gioco trovare una via di uscita a questa situazione, mentre il tempo scorre più velocemente di quanto sembra.
Adesso che tutte le opzioni sono sul tavolo, l’Unione Europea segue con attenzione gli sviluppi di questa vicenda. La prossima scadenza concessa da Bruxelles a Londra è il 12 aprile. Il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha convocato un consiglio straordinario per il 10 aprile. Il Regno Unito chiede una proroga fino al 30 giugno, ma l’UE difficilmente accetterà questa richiesta, perché obbligherebbe il Regno Unito a partecipare alle elezioni europee di maggio e il termine ultimo per presentare le candidature è il 12 aprile. Verosimilmente, si opterà per un’estensione di un anno, anche se non si esclude una clamorosa revoca dell’articolo 50.
È impossibile trovare una risposta alle domande poste in questo articolo. Tutti noi abbiamo pensato a cosa potrebbe accadere nelle prossime settimane, ma nessuno – probabilmente nemmeno il governo e il parlamento britannico – sa con certezza come risolvere questo dilemma, che nel frattempo si è trasformato in psicodramma e si spera non diventi tragedia.
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