Una deriva militare in Libia potrebbe dare il via a una nuova ondata migratoria. Ottocentomila migranti pronti a partire, mentre Tripoli viene bombardata dalle truppe di Haftar, il generale che sogna di riunificare militarmente la Libia. A difendere la capitale, il governo di Sarraj, sostenuto dall’ONU. «Siamo di fronte ad un’aggressione che potrà diffondere il suo cancro in tutto il Mediterraneo. C’è bisogno che Roma e l’Europa siano unite e ferme nel bloccarla», afferma il premier libico. Difatti, l’Italia di Conte sta già mediando per sostenere la pace, mentre quella di Salvini e Di Maio si scontra di nuovo sui rifugiati. Se il paese entra in crisi quando un paio di navi si avvicinano alle sue coste, la gestione di un esodo risulta inevitabilmente complessa.
Per il leader della Lega i porti rimangono chiusi. Sigillati. «Chiunque parta dalla Libia non può essere ritenuto un rifugiato, non con me ministro dell’Interno». In quel grande numero di migranti comparirebbero, infatti, anche criminali e jihadisti legati all’ISIS, sostiene Sarraj. Ecco dunque che Salvini rilancia il problema del rischio terrorismo con una ulteriore stretta sulle ONG: qualunque ingresso in acque territoriali di navi italiane con migranti a bordo verrà bloccato.
Una questione (troppo) politica
È un «pericolo imminente», quello del terrorismo. D’altronde per Salvini lo è sempre stato. C’è una rigida coerenza nella sua fermezza sullo stop all’immigrazione clandestina, un tema caldo che resta sempre popolare tra la maggioranza degli elettori. Con la crisi libica, il rischio di ingresso sul territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche può apparire tangibile. Così, con una direttiva ad hoc per bloccare la missione della nave umanitaria Mare Jonio, il ministro dell’Interno chiude le acque italiane anche a una nave italiana. Il blocco ha suscitato non solo l’irritazione della ministra della Difesa Trenta, ma anche tra i vertici militari, che lo accusano di fare pressione impropria nei confronti del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Secondo il vicepremier, la direttiva è doverosa e legittima, poiché approfittando del caos libico, potrebbero arrivare in Italia centinaia di terroristi islamici, e proprio attraverso il soccorso delle Ong. «Siccome sui barconi c’è la possibilità che ci siano dei terroristi, rischio dei processi ma non mi interessa: se è a rischio la sicurezza italiana, io non do l’autorizzazione allo sbarco neanche ad un barcone», commenta Salvini a Dimartedì su La7.
L’ostinazione del ministro nella lotta all’immigrazione lo ha infatti spesso incastrato in vicende giudiziarie, dalle quali è stato una volta sollevato dai centomila e più iscritti del Blog delle Stelle – nel caso Diciotti – mentre nell’altro caso, quello della Sea Watch, è rimasto nel registro degli indagati per sequestro di persona, accanto ai nomi del premier Conte, del vicepremier Di Maio e del Ministro dei Trasporti Toninelli. Tuttavia, questo cono d’ombra giudiziario gettato sulla figura politica più amata dagli italiani non sembra in grado di curvare la linea retta della politica di Salvini. Semplice, chiara, lineare e ostinatamente coerente. Anche se si tratta di non considerare la crisi libica un vero e proprio conflitto. E quindi di non riconoscere a chi scappa da quel conflitto lo status di rifugiato. «Al momento non c’è guerra, ci sono scontri», dice ancora ospite da Floris. E questa fedeltà a sé stesso non rischia mai di incrinare la fiducia cieca che guida la matita dei suoi elettori a votarlo. Tra l’altro le elezioni europee sono prossime, ma fare della crisi libica una questione semplicemente politica non è un bene per nessuno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il bilancio dell’offensiva lanciata il 4 aprile scorso su Tripoli è di almeno 205 morti e 913 feriti e le stime dell’ONU contano almeno venticinquemila sfollati. Uno sfondo tragico, che si staglia dietro un dibattito semplicistico e surreale, in cui nessun schieramento politico si sgancia dalla catena delle responsabilità.
Sfida M5S-Lega: porti aperti sì o porti aperti no (e il PD che fa?)
Anche stavolta il governo ha fallito nel mostrare una linea unitaria. Gli alleati pentastellati non hanno mai fatto dell’immigrazione il proprio cavallo di battaglia, relegandolo ai margini di un programma politico più concentrato sul tema dell’anti-establishment. Tuttavia, in questo caso, il fronte Cinque Stelle lascia intendere che la politica dei porti chiusi non sia più adeguata. «La politica sull’immigrazione dell’Italia non si è mai ridotta a porti aperti sì o porti aperti no. Questa è una semplificazione bellissima per il grande pubblico, ma è molto più complessa», afferma il premier Conte, che gioca il ruolo di mediatore nel tentativo di arginare la guerra civile, auspicando un cessate il fuoco immediato e al ritiro delle truppe di Haftar. Come Di Maio, è d’accordo sulla necessità di coinvolgere anche gli altri esponenti della comunità internazionale. Il Ministro del Lavoro, in particolare, attacca gli alleati della Lega, primo fra tutti Orbán, «che se ne fregano e ci lasciano soli di fronte a un problema che non è certo nostro, ma di tutta Europa».
La necessità di una coesione internazionale per evitare una crisi umanitaria è certo l’unica alternativa possibile a una soluzione militare al conflitto e ad una troppo complessa gestione dei rifugiati da parte dell’Italia sola. Ma in questo momento l’attacco del ministro sembra più un pretesto per scagliarsi contro l’alleato leghista, giunti all’ennesimo punto di rottura. Il filo che lega Salvini e Di Maio è consumato da attriti che sembrano minacciare la precaria stabilità del governo giallo-verde, sceso a patti, è giusto ricordarlo, per questioni di contingenza più che per affinità ideologiche. La linea dura di Salvini è difficile da sostenere per i Cinque Stelle, più volte costretti a mettere alla prova la propria morale per restare al fianco dell’alleato, che al contrario liquida le discussioni interne ribadendo i confini di competenza di ciascun ruolo e condannando qualunque invasione di campo. I porti, con lui, rimangono chiusi. Salvini lo dice: non cambia idea, non cambia atteggiamento. È il resto, semmai, a doversi adattare.
È curioso, però, constatare che le critiche più aspre verso il governo vengano dal suo interno, mentre l’opposizione osserva in silenzio in disparte. Senza alcuna ironia, stavolta bisogna davvero chiederselo: e il PD che fa? Qual è la posizione del partito che negli ultimi anni ha fatto dell’accoglienza il suo punto cardine? Cosa ne pensa dei migranti che non si possono più chiamare rifugiati? Dov’è quella voglia e quella capacità di lottare per la retorica dei porti sempre aperti? Che fa, insomma, il Partito Democratico? Proprio niente. Le due forze di maggioranza insieme finiscono per occupare tutte le parti, mentre l’opposizione se ne tira fuori lentamente. La storia sta scorrendo in fretta, e per chi non è in grado di tenersi aggrappato, non c’è più spazio.
In assenza di una politica internazionale europea unitaria: una responsabilità condivisa
Sul fronte diplomatico, l’Europa esprime invece una profonda preoccupazione per la situazione in Libia. Il consiglio di sicurezza dell’ONU chiede all’Esercito Nazionale libico, di cui Haftar si è autoproclamato capo, di fermare tutti i movimenti militari. Il premier Conte insiste: «La coesione internazionale è la strada per raggiungere la soluzione politica. Devono essere coinvolti non solo i protagonisti libici, ma anche gli altri esponenti della comunità internazionale». La questione si fa però ancora più delicata quando la stessa Europa si fa prendere da contraddizioni interne: le divisioni nella comunità internazionale non fanno che avvantaggiare la conquista di Tripoli. Il governo di Serraj ha accusato la Francia di fomentare la guerra sostenendo Haftar e ha annunciato l’interruzione della cooperazione con Parigi. Lo stesso Salvini punta il dito contro lo stato francese alludendo ad interessi economici o commerciali per i quali Parigi spinge verso una soluzione militare. A farne le spese sono le vittime della guerra, la vita delle quali è a rischio tanto in mare quanto a Tripoli. Ancora una volta l’Europa dimostra di essere un’Unione instabile, all’interno della quale si agitano interessi e disegni politici diversi. I consensi che gli euroscettici stanno accumulando negli ultimi anni non sono una malattia, ma ne sono soltanto un sintomo. Il sintomo di un’Europa che non sa più mediare con l’urgenza della richiesta di sovranità di ciascun stato membro, che non sa come gestire questi nuovi paesaggi umani che si creano per effetto dello spostamento di popolazioni nelle varie parti del continente. Quest’Europa di accoglienza e cooperazione che però non accetta di condividere il collocamento dei migranti, percepiti come una minaccia, non come una risorsa, mai come parte lesa. Chiudere i porti non è una decisione giustificabile, ma anche questo è un altro sintomo di una malattia di cui non soffre un uomo solo.