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Edoardo Ferrario: la stand-up comedy generazionale e nostrana

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Luigi Buono

Gli Stati Uniti, si sa, sono grandi esportatori di modelli culturali. C’è, però, una parte importante della cultura americana che a differenza di altre ha sempre faticato a imporsi oltreoceano, con l’eccezione del mondo anglosassone: quella della stand-up comedy, una forma comica che più di tutte le altre mette al centro dell’attenzione l’artista e le sue parole. Da qualche anno, complice forse anche la decadenza del cabaret mainstream (marchiato Mediaset), le attenzioni del pubblico si sono sempre più spostate verso la sempre più attiva scena stand-up nostrana.

Questo interesse deve aver colpito anche Netflix, da sempre ben fornita di spettacoli dei migliori monologhisti americani, che ha deciso di inserire nella propria libreria tre esilaranti esempi della scena italiana: dal 15 marzo è infatti disponibile Temi caldi, di Edoardo Ferrario, che verrà seguito nelle prossime settimane dagli spettacoli di Saverio Raimondo e Francesco De Carlo. Il tutto registrato al Santeria Club di Milano, ormai punto di ritrovo fisso per questo stile comico, sul modello dei club newyorkesi.

Proprio Edoardo Ferrario è protagonista di questa intervista. Romano, classe 1987, vanta una carriera di successo costruita su partecipazioni come autore e come interprete in diversi importanti scenari, dagli ultimi programmi di Caterina Guzzanti alla conduzione de I Sociopatici su RadioDue, senza dimenticare le sue imitazioni in Quelli che il calcio. È inoltre la mente e il viso dietro Esami – la serie, che da YouTube ha fatto incetta di visualizzazioni e premi. Edoardo Ferrario è, però, anche uno stand-up comedian di altissimo livello, come dimostrato dal suo irresistibile e caustico Temi caldi.

Abbiamo incontrato Edoardo per parlare dello stato della stand-up comedy in Italia, con un occhio alla gavetta in un Paese sempre restio ai cambiamenti e un altro al futuro.

Edoardo Ferrario, benvenuto su TheWise Magazine! Sei passato nel giro di pochi anni da star di YouTube a stella emergente della stand-up comedy italiana, impegnata in un tour di successo e primo artista italiano con un comedy special su Netflix. Ti aspettavi tutto questo?

«Guarda, ho sempre creduto che l’Italia fosse pronta per una comicità nuova. È un concetto che mi sono sempre imposto di portare avanti. Sin dai miei inizi, più di dieci anni fa, ho sempre cercato di scrivere dei testi che fossero molto originali rispetto a quello che si faceva ai tempi in Italia. Quel che andava molto di moda era il cabaret televisivo, Zelig su tutti. Senza entrare troppo nel merito, è uno stile che stava entrando in una fase di declino, sempre uguale a se stesso. Non mi riconoscevo affatto nei comici che vedevo in televisione, quindi ho iniziato subito a scrivere dei pezzi che pensavo potessero piacere ai miei coetanei, che all’epoca erano i ventenni.
Evidentemente questa scelta ha pagato! Ho subito avuto molto pubblico che veniva alle mie serate: un pubblico di giovani che si riconosceva nelle cose che scrivevo. Nel corso degli anni ho fatto sempre più spettacoli fino a quando Netflix non ha deciso di produrre lo show che stavo facendo da qualche tempo e di renderlo disponibile in tutto il mondo. Volendo trarne una lezione: se si crede un po’ nelle proprie convinzioni, alla fine i risultati arrivano. Certo, non mi aspettavo arrivasse uno special distribuito da Netflix in 190 paesi! È stata una bellissima soddisfazione».

Senti di essere più ispirato, più legato, a un certo tipo di comicità estera che allo stile nostrano, giusto?

«Amo molto la stand-up straniera, ma sono anche un grandissimo fan della migliore comicità italiana: sono cresciuto con i programmi della Dandini, con la Gialappa’s Band. Per me due miti assoluti sono Carlo Verdone e Corrado Guzzanti, il che traspare anche in alcuni miei pezzi».

Anche una certa ispirazione propriamente romanesca, quindi.

«Sì, beh, essendo romano ho trovato in loro dei personaggi nei quali riconoscermi. Ho sempre amato la comicità originale e brillante, quella fatta bene, che fa ridere, di ovunque essa sia. La stand-up comedy è per me oggi la forma di comicità più contemporanea che abbiamo, senza dubbio. È un linguaggio molto moderno: costa poco ed è estremamente democratico. Se fai ridere si vede subito, sei tu, da solo sul palco con il pubblico davanti. La passione per la stand-up comedy è necessariamente la passione per lo stile della stand-up comedy, così scarno ed essenziale, ma che allo stesso tempo ti permette di esprimerti al cento per cento».

Nei tuoi lavori si nota quasi subito una tendenza verso una comicità molto moderna e attuale: al posto di storie su personaggi stereotipati, racconti di te stesso e di contesti in cui un qualsiasi giovane potrebbe trovarsi senza troppe difficoltà. Allo stesso tempo è praticamente assente una certa forma di lettura politica o moralistica che altri comici tendono anche troppo facilmente a dare. Come definiresti quindi le basi della tua comicità?

«La TV ha ignorato i ragazzi per anni, ha fatto finta di parlare nel modo in cui i giovani volevano che si parlasse loro, senza centrare mai il punto. Internet ha facilmente sottratto pubblico alla televisione, sarebbe stato molto strano il contrario: i giovani hanno trovato in internet un linguaggio molto simile a quello che loro parlano, quindi mi sono dato sempre come primo obiettivo quello di parlare ai miei coetanei. Mi sono immedesimato in loro, ho pensato: cosa vorrei sentire se andassi ad ascoltare un comico?

I miei argomenti preferiti sono quelli che puoi trovare nella vita di qualsiasi ventenne o trentenne. Non escludo a priori la possibilità di fare satira politica in futuro, ma la satira più facile non mi piace molto. In Italia c’è l’equivoco per cui la satira politica siano le battute sul politico al potere. Non serve a niente. Non servono a spostare voti, non cambiano l’anima di chi vota quel personaggio».

Diciamo pure che diventa una forma di propaganda per chi in realtà è già schierato.

«Esatto, il cosiddetto “predicare ai convertiti”. Parli a un pubblico che è già in partenza d’accordo con te, non si capisce bene a cosa serva. Poi esistono tante forme di satira politica fatte benissimo, ma tendo a non fidarmi mai di un comico che fa il sermone al pubblico: da l’impressione che il pubblico sia meno intelligente di lui e quindi si pone un problema di rispetto per le persone che vanno a vederne gli spettacoli. D’altro canto, credo sempre di non dover spiegare niente a nessuno. Mi auguro che le persone che vengono ai miei spettacoli siano sempre curiose e interessate, che capiscano il mio punto di vista, sempre che io stia cercando di far cambiare idea su qualcosa».

Hai partecipato a programmi televisivi e radiofonici per la RAI, tutti contesti in cui è necessaria una certa immediatezza del messaggio. Allo stesso tempo, però, identificherei la vera svolta per la tua carriera in quello che è stato dal 2014 al 2016 Esami – la serieweb series su YouTube, un contesto giovanile, molto avanti, come dicevamo prima. Quanto è importante per un comico saper bilanciare pianificazione e improvvisazione?

«Sono un po’ due facce della stessa medaglia: c’è chi è più bravo in una, chi nell’altra. Trovo però che il comico bravo lo è sia a scrivere che a improvvisare. Sul palco amo improvvisare, con la presenza e l’interazione del pubblico diventa quasi necessario. Per quanto riguarda gli sketch scritti, lì c’è meno spazio, ma come sempre può capitare di tirare fuori varie cose mentre giri.

In una puntata di Esami che ha avuto particolare successo, quella di Storia dell’Arte – Ceci n’est pas un Pips con Caterina Guzzanti, abbiamo improvvisato moltissimo, tirato fuori tante cose che non erano scritte sul copione. Alcuni dei tormentoni che sono rimasti più impressi nel pubblico sono proprio quelli che abbiamo improvvisato quel giorno. Allo stesso tempo anche il finale della puntata di Economia, con l’assistente assente che parla al telefono, era perlopiù improvvisata. Quindi sì, è importante bilanciare. Scrivere dà il tono di quello che fai, l’improvvisazione generalmente aggiunge quel tocco che può rendere l’interpretazione memorabile».

Il tuo Temi caldi, registrato al Santeria Social Club di Milano, ormai un piccolo tempio per la stand-up, ha un primato importante in quanto è il primo spettacolo italiano di questo genere distribuito da Netflix. Ci puoi raccontare com’è arrivata questa proposta?

«Il tutto è iniziato da una collaborazione con Dazzle e Aguilar, due società milanesi che si sono occupate della produzione e che hanno pensato di proporre il progetto a Netflix. Sapendo che ancora non era uscito nessuno spettacolo italiano di stand-up [la tragica falsa partenza con lo show di Beppe Grillo, fortunatamente, non conta. N.d.R.], hanno proposto il mio spettacolo, quello di Francesco De Carlo e quello di Saverio Raimondo. Netflix si è interessata e ha deciso di produrre i tre special. Ovviamente è stata più difficile di come la racconto ora. Ci sono stati tempi molto lunghi, però in pratica è successo questo. Semplice ed essenziale, come dovrebbe essere il lavoro di un network sulla propria programmazione».

Sempre parlando di Temi caldi, mi viene in mente il pezzo sulla festa di paese, sulla tua gavetta. In quella occasione, di fronte una platea ostile e disattenta, racconti di come finisti con il dover imitare proprio le battute di uno dei cabarettisti più nazionalpopolari del paese. Quanto è importante per uno stand-up comedian il rapporto con il proprio pubblico o persino con la location in cui tenere uno spettacolo?

«Per la stand-up comedy il contesto è fondamentale. Il cabaret, rispetto alla stand-up, funziona benissimo nelle piazze perché è un tipo di spettacolo in cui il comico deve intrattenere chiunque sia presente. Non è richiesta una particolare attenzione di chi assiste allo spettacolo».

Possiamo dire che è una forma di comicità più adatta alle masse?

«Esatto, in un certo senso è il cabarettista che deve guadagnarsi l’attenzione. E questo va benissimo, è uno stile. La stand-up invece nasce in America nei comedy club, vuol dire che il pubblico andava apposta a sentire un comico che si esibiva. Questo significava che quel pubblico sapeva quel che voleva andare a vedere e il livello di attenzione era necessariamente più alto: quel pubblico sa chi sei e si aspetta da te determinate cose. Diventa fondamentale il contesto e io ho scritto quel pezzo proprio per raccontare cosa succede quando ti esibisci in un contesto completamente sbagliato rispetto a quello che fai. Quando feci quella serata in piazza ero anche molto giovane, probabilmente è un errore che non ripeterei adesso. La situazione è molto diversa, preferisco quando il pubblico sa cosa va a vedere».

C’è un pezzo in particolare che senti più tuo?

«Mi piacciono tutti ovviamente. I pezzi che amo di più forse sono quelli di vita vissuta, come quello della vacanza in Vietnam. Molti dei miei pezzi parlano di viaggi. Amo tantissimo viaggiare e forse mi diverto sempre molto a rifare quel pezzo perché è bello portare il pubblico a immaginare certe scene. Mi piace quando i pezzi diventano in un certo senso esotici.

Sicuramente anche il mio pezzo sul doppiaggio: sono convinto che il doppiaggio in Italia stia vivendo una grande crisi, che ci si debba chiedere cosa sia diventato e se si può fare in modo di renderlo più sensato. Altrimenti forse potremmo iniziare a vedere gli spettacoli in lingua originale, che penso farebbe bene a tutti. È un processo molto lento, anche in termini di gradimento del pubblico, ma il pubblico va anche educato a certe dinamiche».

Pensando a ritroso alla tua carriera e al tuo stile, sapresti dare qualche consiglio ai comici emergenti? Fare della stand-up qualcosa di più che una passione è più una questione di immergersi in una scena, in uno specifico ambiente o è un mestiere che bisogna studiare personalmente prima di riuscire a farlo con confidenza?

«Il mio consiglio è quello di esibirsi il più possibile, visto che iniziano ad esserci sempre più locali in cui è possibile farlo. Parlare sempre di cose che si conoscono, di cose vissute. Non scrivere mai imitando lo stile di altri. La comicità bella è quella vera; “comicità è verità”. È molto più semplice essere veri, far ridere parlando di cose che si conoscono che imitando qualcun altro che non ha nulla a che fare col proprio vissuto».

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Luigi Buono

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