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Meds, l’indietronica italiana che guarda all’estero

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Luigi Buono

Un anno dopo l’uscita del loro primo singolo Call Me White, maggio porta con se l’uscita di M01, primo EP dei Meds, trio romano dal sound internazionale, caratterizzato dalla ricerca di un punto d’incontro tra le sonorità elettroniche raffinate e concettuali dell’IDM e l’immediatezza e l’impatto emozionale dell’indie rock.

Soluzioni moderne ed eleganti definiscono M01, che si presenta come un prodotto compatto e interessante, adatto all’ascolto attento e notturno. Dopo l’apertura di Intro, i glitch di NBF e i beat quasi pop di Call Me White, singoli anticipatori del lavoro, impostano bene il mood dell’EP su di un incedere composto e ben strutturato di tracce in cui, senza mai togliere troppo spazio alla voce pulita e aperta di Amato Scalbi, arpeggi di chitarra, drum machines e stratificazioni sonore si alternano e si fondono fino a culminare nella acidissima coda techno di Track 0.

M01 è un album tremendamente distante da quanto si sente ultimamente in Italia: porta con sé concetti e ispirazioni sonore d’oltreconfine, pur essendo il frutto di tre ragazzi della capitale. Incuriositi dalla genesi e dalle ambizioni di una simile proposta, abbiamo incontrato Luca Scarfidi, Amato Scalbi e Luca Frasca dei Meds per qualche domanda.

La copertina di M01.

Benvenuti su theWise Magazine, Meds! Dalle vittorie al Contestiamo e al Marte Live, storici concorsi dell’hinterland romano, al vostro primo EP, M01, in uscita il 3 maggio, forte di una produzione internazionale, cosa è cambiato nel vostro processo di composizione e approccio sonoro?

«È cambiato praticamente tutto. È il motivo per cui questo disco ha richiesto cosi tanto tempo, quasi tre anni, per venire alla luce. La musica, soprattutto l’elettronica, è un fiume in piena in cui non si smette mai di imparare e ogni giorno dal mondo si vedono arrivare nuove idee e nuove soluzioni tecniche. Noi siamo molto attenti a questo: la conseguenza è che M01 ha avuto una produzione stratificata in cui si è intrecciato il classico songwriting chitarra-voce con varie tecniche di sintesi e campionamento. In tutto questo bisogna considerare che abbiamo curato personalmente anche la parte relativa al mixing, quindi il nostro coinvolgimento è stato talmente capillare da dover abbracciare necessariamente un arco di tempo lungo».

Quanto ha influito il lavorare con personalità già impegnate in altre produzioni di rilievo come Steve Lyon (Depeche Mode, The Cure), Jimbo Barry (The Script) e Fefo Forconi (Almamegretta)? Il loro è stato più un lavoro di raffinamento delle vostre idee o hanno introdotto nuovi stimoli creativi?

«Lavorare con professionisti di questo livello ti deve per forza influenzare in qualche modo, altrimenti vuol dire che l’approccio è errato. Tutti e tre hanno dato una grossa mano alla produzione. Forse Steve Lyon (che è intervenuto in una fase precedente alle registrazioni) ci ha aperto gli occhi sul nostro progetto, dandoci una mano a capire la direzione corretta. Fefo Forconi invece è stato umanamente splendido e ci ha fatto capire quanto lavorare con persone con un background musicale diverso possa essere davvero un stimolo creativo. Per una band è importante poter condividere il proprio progetto con professionisti. È l’unico modo per capire veramente se stai facendo bene o no».

Nonostante voi siate una band completamente italiana, le influenze dei Meds sembrano guardare completamente all’estero: mi viene da pensare all’approccio più pop dell’elettronica, come il Thom Yorke di The Eraser, ma anche ai Moderat e Alt-J dei primi due album. Quali sono le vostre principali influenze, condivise e non?

«Per noi è molto difficile individuare delle influenze principali. Ovviamente i nomi che hai fatto sono sicuramente fra i nostri artisti preferiti nella scena elettronica/indie internazionale e ce ne sarebbero infiniti altri, ma ridurre il nostro progetto a questa o quella influenza ci è sempre sembrato svilente o, ancor più grave, limitante, sopratutto in fase compositiva. Siamo tre teste diverse con tre background sì diversi, ma con molti punti in comune. Nella nostra musica finisce, più o meno consapevolmente, tutto quello che ci portiamo sulle spalle. Da Brian Eno e Jon Hopkins fino a De André. Sentirlo o meno è a discrezione di chi ascolta e del suo bagaglio musico-culturale».

Risulta inconsueto incontrare una band che canta in inglese nell’Italia di questi anni. Pensate vi sarà una inversione di tendenza nel panorama attuale a breve? Vi sono band o progetti nostrani con cui vi sentite particolarmente legati o a cui vi siete ispirati?

«Per noi la scelta della lingua non è mai stata materia di interesse. Nel momento in cui un brano ti trasmette emozioni vuol dire che gli ingredienti erano quelli giusti. Ci piace sempre ricordare che i Sigur Rós cantano con una lingua quasi totalmente inventata o che esistono tonnellate di musica strumentale di qualità (e commercialmente molto valida). Questi concetti ti fanno capire la portata dell’argomento: il dibattito fra inglese e italiano è una battaglia tutta italiana che non ha senso di esistere. Per noi non è stata una scelta aprioristica di convenienza o meno di mercato, ma semplicemente la naturale evoluzione del nostro progetto. Detto questo, amiamo la musica italiana. Non a caso prima abbiamo citato De André. Probabilmente in Italia non c’è molto che susciti un nostro particolare interesse al netto di gruppi che stimiamo (Kotzuga, Lim, Inude, Indian Wells e altri). Per attitudine e gusto, invece, ce ne sono tanti che ammiriamo: Verdena, Motta, per citarne uno recente, e altri».

Fate un largo uso di glitch e campionamenti, spingendovi anche verso la creazione di soundscapes suggestivi e cinematici. Quanto conta la sperimentazione e quanto l’utilizzo di apparecchiature e sintetizzatori più convenzionali nella creazione dei vostri brani?

«La sperimentazione è centrale nel nostro progetto, ma l’obiettivo è sempre quello di metterla al servizio del brano. Come accennavamo in precedenza, il mondo della musica elettronica è veramente vasto. Peschiamo un po’ alla cieca, cercando di tirare fuori un design sonoro personale in cui si intrecciano sintesi granulare, campionamenti organici, glitch e ovviamente l’utilizzo di sintetizzatori, come tu li hai definiti, convenzionali. Per noi è comunque importante trovare il suono giusto che possa piacere e dare emozioni anche a chi non è un abituale ascoltatore del genere. Il come ci arriviamo è materia per sound designer e produttori».

La tela elettronica dei vostri brani va a fondersi con le parti vocali e chitarristiche di Amato, che risultano sempre azzeccate e precise. In occasione dell’uscita del vostro primo singolo Call Me White avete optato per degli arrangiamenti in acustico per il primo tour. Sembrano quindi esserci comunque dei punti di raccordo tra l’anima elettronica e quella più vicina al modo classico di intendere la musica suonata. Quanto sono importanti tali collegamenti? Ritenete che una canzone per essere efficace debba esserlo anche in versioni più all’osso?

«I collegamenti che hai appena citato sono alla base della nascita dei Meds. L’obiettivo del progetto era ed è proprio quello di proporre un ibrido che unisce questi due mondi in maniera convincente. Veniamo tutti e tre da progetti e soprattutto da ascolti di stampo rock: nel passaggio verso la musica elettronica era impossibile lasciarli indietro e farne a meno. Lo stesso nostro modo di comporre si appoggia in primo luogo ad un nucleo chitarra-basso-voce, che ci permette di capire dove sta andando il brano. Per noi è quindi fondamentale che una canzone funzioni anche ridotta alla sua essenza».

Per i vostri singoli Call Me White e NBF avete proposto al pubblico dei complessi video animati in computer grafica. I vostri spettacoli live hanno inoltre una forte componente visiva, con diverse animazioni e glitch visivi mentre voi suonate vestiti di bianco. Qual è il legame tra estetica e musica nei Meds?

«Una delle idee fondanti del progetto è stata fin da subito di dare spazio a una forte componente estetica che potesse completare quella musicale. Ovviamente anche la scelta degli elementi grafici non è casuale. Tolti i glitch, che trovano un immediato corrispettivo audio/video, abbiamo optato per un minimalismo che ruota intorno al colore bianco perché è un colore che, fra i mille significati che gli si possono dare, a nostro avviso esprime al meglio l’unione di più elementi o colori (in questo caso infinite influenze musicali), ma contemporaneamente sottolinea concetti come vuoto, purezza. Quindi un ibrido con più volti. Ci piace e lo sentiamo vicino a noi».

Quali sono i vostri brani preferiti di M01 e perché?

«È difficile andare a scegliere: abbiamo attraversato talmente tanta strada con tutti i brani che proviamo affetto indiscriminato per ognuno di essi. Te ne citiamo però tre che danno l’idea di quello che sarà M01. Intro, Call me White e Track Zero, che in ordine rappresentano i tre blocchi sonori di tutto quello che volevamo comunicare con questo disco: ambient e sound design, musica elettronica nord-Europea cantata, techno e glitch. Il disco diventa interessante proprio perché riesce a muoversi agevolmente intorno a queste tre formule».

Programmi per il futuro?

«Ora inizia per noi la parte più stimolante ed emotivamente più importante: esce il disco e iniziamo il tour estivo con diverse date in vari festival. Non vediamo l’ora di far sentire il disco in contesto live e di poter regalare molte, moltissime sorprese sonore. A breve daremo sicuramente più informazioni. A metà estate prenderemo anche parte al progetto del Pigneto Film Festival che ci vedrà impegnati nella realizzazione di un progetto audio-video con un regista internazionale. E chissà che non esca anche dell’altro».

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Luigi Buono

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