Sono passati ormai settant’anni dalla scomparsa del Grande Torino, squadra universalmente riconosciuta come una delle formazioni italiane più forti di sempre. Un gruppo che è entrato nella storia, che dal 1943 al 1949 vinse ben cinque scudetti e una Coppa Italia, mettendo a segno peraltro, il primo double della storia del calcio italiano. Una squadra formidabile, che è stata l’apice di una programmazione gestita da Ferruccio Novo, che passo dopo passo ha convinto giocatori giovani a sposare la causa Granata. Dal 1939 infatti, l’esuberante patron del Torino mise a segno colpi di calciomercato come Valentino Mazzola, che passò al Torino dal Venezia per l’allora esorbitante cifra di un milione e duecentocinquantamila lire.
Non solo lui però: furono tantissimi i giocatori che arrivarono per vestire la maglia Granata, soprattutto per via delle promesse proprio del presidente Novo, che garantiva ai giocatori che non avrebbero dovuto servire al fronte. Infatti sebbene non si giocò ufficialmente il campionato di Serie A dal 1943 al 1945, il Torino giocò comunque quello che è passato alla storia come il “torneo di guerra” vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia. Alla fine del conflitto però, la squadra da battere erano sempre i Granata, capaci di ottenere un record in coabitazione con la Juventus degli anni Trenta, ovvero vincere ben cinque campionati di fila. Poi si arriva a quel primo maggio 1949, l’ultima partita giocata dal Grande Torino.
La squadra era in trasferta a Lisbona per disputare un’amichevole contro il Benfica, partita vinta dai padroni di casa per 4-3. Il 4 maggio del 1949 poi, la tragedia. Il velivolo FIAT G.212 con a bordo giocatori, dirigenti del Torino e stampa affiliata si schiantò contro un terrapieno della Basilica di Superga. Non vi furono sopravvissuti. A settant’anni da questa tragedia però, il ricordo del Grande Torino è vivo più che mai. Ci sono tante storie a riguardo, ma una in particolare ci ha colpito. È quella di Andrea Pelliccia, scrittore, autore di tanti libri legati al calcio ma anche al rugby. È la storia di un ragazzino che riceve in dono l’Almanacco illustrato del Calcio 1981 e che grazie a quel libro inizierà a conoscere la storia di questo sport. Oggi, noi di theWise abbiamo l’onore di parlargli.
Ciao Andrea, benvenuto su theWise Magazine! Ti ringrazio per avermi concesso quest’intervista. Volevo cominciare subito col dirti che mi è piaciuto moltissimo leggere il tuo monologo sul Grande Torino. Mi ha affascinato particolarmente il tuo viaggio nella conoscenza, nello scoprire quello che è un pezzo di storia del calcio. Quindi mi viene da chiederti, cosa rappresenta per te il Grande Torino?
«Il Grande Torino, è facile dirlo, rappresenta un mito. Una squadra della cui esistenza scopri per caso, perché ovviamente sei troppo giovane per averla vissuta in prima persona. Però, documentandoti con almanacchi, quotidiani, Wikipedia, libri, eccetera, capisci che è stata una squadra grande, capace di dominare il calcio di quell’epoca, suscitando più ammirazione che invidia. Cosa che sappiamo essere abbastanza complicata oggi. Il Grande Torino quando andava a giocare in trasferta, molte persone, pur non essendo tifose del Torino, andavano a guardarlo per il semplice gusto di vederlo all’opera. Una cosa che oggi succede forse con un paio di squadre, ma sempre con un misto di invidia, rispetto all’ammirazione. Invece lì si andava allo stadio per vedere all’opera il Grande Torino. Una cosa che all’epoca è successa, qualche anno dopo, soltanto con l’Ungheria di Puskas, quindi con l’Honved, che era il cuore di quella squadra».
Quindi all’epoca, quando giocava il Grande Torino, c’era la percezione di assistere a un qualcosa di straordinario…
«Assolutamente. Lo spettacolo in campo era garantito. Quando poi si aveva la fortuna di andare al Filadelfia a vedere questa squadra all’opera, ci si rendeva conto che anche il tifo lo sosteneva, era impareggiabile. C’era addirittura una sorta di complicità tra squadra e tifosi. Quando Mazzola, che era il capitano di quel Grande Torino, si rendeva conto che la squadra non stava girando come lui si aspettava che girasse, faceva un cenno verso la curva. Lì c’era Oreste Bolmida, che faceva tutt’altro nella vita, e tirava fuori la sua tromba, suonando la carica. A quel punto partiva quello che viene ricordato oggi come “il quarto d’ora Granata”. Ovvero i calciatori iniziavano a impegnarsi allo stremo, perché capivano che non stavano rendendo come ci si aspettava da loro, e giocavano in modo pazzesco, segnando alle volte anche tre quattro gol in quindici minuti».
Dato che hai parlato del famosissimo “quarto d’ora Granata”, c’è qualche aneddoto sul Grande Torino che ti ha colpito in particolare?
«Come per tutto il calcio dell’epoca, quello che colpisce era la facilità con cui questi calciatori sapevano stare in mezzo alla gente. A parte un paio di loro che avevano l’automobile, tutti i calciatori, nonostante fossero famosissimi, andavano a giocare e allenarsi in tram, oppure a piedi. Poi molti di loro vivevano assieme, quindi riuscivano a fare gruppo anche al di fuori dello spogliatoio. Questo faceva sì che questa squadra fosse ancora più legata di quanto già non lo fosse sul campo. Un’idea che nel calcio di oggi è completamente estranea. Poi ci sono degli episodi singoli, come il fatto che il Torino detiene dei record in Serie A ancora imbattuti, come la vittoria per 10-0 contro l’Alessandria, o il fatto che dieci undicesimi di quella squadra abbiano giocato in nazionale contro l’Ungheria. Il fatto che a più di settanta anni di distanza, questi record siano ancora imbattuti, ti colpisce e ti dà la misura di quanto grande fosse quella squadra».
Oltre al monologo riguardante il Toro che citavo all’inizio, sappiamo che hai collaborato alla produzione del libro Grande Torino – Campioni per sempre.
«Premettendo che io sono tifoso del Napoli, la cosa bella di questo libro è che è stato scritto da autori tifosi di altre squadre, tranne l’unica donna che è tifosa del Torino, appunto. Per cui è proprio un omaggio in senso ampio».
Un omaggio generale del calcio, praticamente…
«Esatto, ci sono anche due juventini in questo libro, perché il Grande Torino è un discorso universale che va ben oltre il colore della maglia della squadra per cui si fa il tifo».
Come si è arrivati alla collaborazione con Pietro Nardiello e Jvan Sica?
«Conosco Pietro Nardiello da un po’ di anni, siamo amici, e mi ha ricambiato il favore di ospitarmi nel suo libro, dopo che l’avevo ospitato in un’altra pubblicazione che ho curato. Quindi mi ha chiesto se volevo partecipare alla creazione di questo libro, ho detto sì subito. Poi è passato un po’ di tempo perché ho pensato di scrivere un racconto che provasse a rivivere la tragedia di Superga con un’altra chiave di lettura. Mi sono preso l’onere di raccontare la parte più complicata e più brutta della vicenda, che è per l’appunto la giornata del 4 maggio del 1949. Il racconto è piaciuto, è stato accettato da Pietro e Jvan, e quindi ho avuto l’onore di entrare in questa raccolta».
In conclusione, visto che sei indubbiamente appassionato di calcio, e starai seguendo la Serie A, la domanda che vorrei porti è: questo Torino può diventare grande?
«La squadra attuale, così com’è no. Nel senso che, secondo me, la corsa per il quarto posto è già un traguardo insperato rispetto alle potenzialità della squadra. Il Torino purtroppo, e questa è una cosa comune ad altre squadre, ha un presidente che non investe come dovrebbe e come potrebbe. Per cui, se ci fosse la possibilità di allargare i conti nella borsa e far arrivare al Torino nomi di spicco, allora potrebbero lottare per la Champions, traguardo che mi auguro la squadra già possa raggiungere quest’anno. Però già il quarto o il quinto posto quest’anno è ben al di sopra delle aspettative che erano state fissate a inizio campionato. Tra l’altro la mia opinione è abbastanza condivisa. Grazie al monologo sono entrato in contatto con vari Toro Club, e l’opinione diffusa è questa. Però è anche detto che Mazzarri, pur non essendo attrezzato alla piazza, sta tirando fuori il meglio da questi calciatori».
Andrea, ti ringrazio per la disponibilità di avermi concesso quest’intervista e sono contentissimo di aver fatto questa esperienza.
«Grazie a te!»
«Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”.» – Indro Montanelli, dal Corriere della Sera del 7 maggio 1949