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Tech&Games

Dalla cartuccia al digitale: una storia della distribuzione videoludica

Published by
Alessandro Rosa

Il 2004 segnò un’autentica svolta nel mondo del videogiochi. Il panorama del settore all’inizio del millennio appariva molto diverso da quello attuale e l’industria videoludica muoveva capitali molto più contenuti rispetto a quelli odierni. Ma per gli appassionati il 2004 fu l’anno in cui la software house Valve lanciò l’attesissimo seguito del suo celebre sparatutto in prima persona, Half-Life 2. Già il gioco in sé fu un’autentica rivoluzione, in grado di ridefinire i canoni del genere: il motore grafico permise agli sviluppatori di portare su schermo elementi innovativi e mai visti prima, come un’intelligenza artificiale di prim’ordine e una gestione della fisica semplicemente impensabile per gli standard dei tempi.

Ma se Half-Life 2 fu “soltanto” una rivoluzione per il genere degli sparatutto, che lasciò un segno indelebile nel cuore degli appassionati, le sue modalità di rilascio cambiarono permanentemente il sistema di diffusione dell’industria dei videogiochi. L’uscita del gioco sul mercato, difatti, coincise con il lancio ufficiale della piattaforma online Steam, indispensabile per autenticare la copia del videogioco acquistata in negozio. Se al giorno d’oggi è perfettamente normale pensare a prodotti di intrattenimento, siano essi film, canzoni o videogiochi, in termini digitali, slegati da un supporto fisico, per l’epoca tutto ciò era ancora fantascienza. Steam, con il lancio di Half-Life 2, cambiò il modo in cui i videogiochi (e non solo) vengono venduti dalle aziende e compresi dagli utenti. La rivoluzione copernicana iniziata da Steam ha modificato per sempre il sistema di distribuzione digitale dei videogiochi ed è possibile che ad oggi ci troviamo agli albori di un nuovo cambio di paradigma.

Videogiochi fisici e videogiochi digitali

La prima versione del client di Steam, in realtà, fu una beta lanciata nel 2002. L’intenzione del CEO di Valve Gabe Newell, all’epoca, era semplicemente fornire una piattaforma per i propri giochi multigiocatore (tra cui il popolarissimo Counter-Strike 1.6) che permettesse di aggiornare con facilità i file necessari per giocare, in modo che tutti gli utenti avessero la stessa versione del gioco allo stesso tempo. L’arrivo di Half-Life 2, però, cambiò radicalmente le cose: al momento del suo lancio era il primo gioco single player per cui fosse necessario iscriversi a una piattaforma online per autenticare la propria copia.

Le implicazioni dietro questa semplice asserzione, all’epoca, erano molteplici e non banali. Anzitutto, ciò significava che per giocare ad un gioco che non aveva alcuna componente online era necessario possedere una connessione internet funzionante, pena l’impossibilità di attivare ciò che si era acquistato in negozio. Quello che ora è praticamente uno standard nel settore, anche grazie alla quasi totale disponibilità di una connessione internet, all’epoca si scontrava con una realtà molto diversa. Le famiglie che avevano un accesso alla rete rapido non erano tantissime, anche in Paesi piuttosto avanzati come gli Stati Uniti. La scommessa di Steam era chiaramente legata al progresso tecnologico, ma al momento del suo lancio era indubbiamente rischiosa.

Non mancarono ovviamente le critiche e le lamentele, legate anche ai problemi nel lancio (riportati addirittura dalla BBC) dello stesso Half-Life 2, che causò un intasamento dei modesti server di Valve impedendo agli utenti di avviare correttamente il gioco per qualche giorno. Sembrano questioni quasi banali, ma bisogna vederle nell’ottica di un momento storico dove non esistevano ancora smartphone, social network, streaming e, in generale, dove mancava l’idea di una società perennemente connessa e interconnessa. Di regola si inseriva il CD-ROM nel lettore, si installavano i file di gioco e, appunto, si giocava. Ovviamente Valve non si limitò più a vendere i propri videogiochi e iniziò a stringere accordi con terze parti, creando un autentico negozio virtuale. Nel giro di pochi anni il catalogo disponibile si ampliò a dismisura, includendo praticamente qualsiasi gioco uscito su PC e diventando lo standard del settore.

L’attuale home page di Steam.

Cosa aveva spinto Valve a fare una scommessa di questo tipo? La risposta è semplice: la pirateria. Oggi siamo abituati a vedere la pirateria come un sistema basato principalmente sulla rete, eppure negli anni antecedenti a Steam non era così, o almeno non lo era per i videogiochi. Se per la musica era possibile scaricare interi dischi anche con le connessioni del tempo (grazie alla compressione del formato mp3), ciò era semplicemente impensabile per i videogiochi, che spesso arrivavano a pesare qualche manciata di gigabyte. In questo caso quello che succedeva era che i videogiochi pirata non si scaricassero dalla rete, bensì si comprassero delle copie contraffatte in giro per i mercatini specializzati o talvolta anche nei negozi adibiti alla vendita ufficiale.

Il fenomeno era ancora più grave su PC perché, a differenza delle console targate Microsoft o Sony, non c’era un software da cui fosse necessario passare per avviare il gioco e quindi era molto più facile bypassare i vulnerabili sistemi di protezione del tempo. Steam nacque principalmente per arginare questo fenomeno endemico: forzando l’avvio del gioco attraverso il client di Valve si impediva che potessero essere avviate delle copie pirata. Va presto detto che le cose, da questo punto di vista, andarono meno bene del previsto e perfino con i mezzi molto più sofisticati d’oggigiorno non è praticamente possibile impedire che i giochi vengano piratati (compresi ovviamente quelli su Steam).

Ma la strategia di Valve non si limitava a creare un sistema di protezione (un DRM, come si dice in gergo) particolarmente restrittivo: l’idea era di creare una piattaforma che non solo limitasse l’uso di copie illegali, ma che invogliasse l’utente a usufruire di tutta una serie di servizi aggiuntivi di indubbia comodità. Per questo nel corso del tempo vennero introdotte svariate novità, a partire da un sistema di lista amici articolato, chat vocale, un browser web disponibile in-game, fino alla creazione di una vera e propria community, ai salvataggi in cloud, gli achievements, il supporto ufficiale alle mod e così via. Senza dimenticarsi ovviamente del fenomeno dei saldi, diventati l’emblema della piattaforma.

La possibilità di comprare decine di giochi a prezzi stracciati rese molto più appetibile acquistare legalmente una copia piuttosto che sfruttare le magie di BitTorrent. Senza ombra di dubbio la presenza di Steam fu il principale fattore della rinascita del PC gaming e non a caso è ormai qualche anno che le software house sono ritornate ad avere un occhio di riguardo per la piattaforma Windows rispetto a quanto facessero nella metà del Duemila.

Se guardiamo alla situazione odierna possiamo affermare con certezza che la scommessa fatta da Valve quindici anni fa è stata remunerativa. Non solo Steam è una piattaforma che macina ingenti quantità di soldi (il networth di Gabe Newell si aggira sui quattro miliardi di dollari), ma ha dato uno scossone all’interna economia videoludica, che ha rapidamente adattato il modello di Valve. Anche le console casalinghe, nel particolare Xbox e Playstation (Nintendo, con le sue console casalinghe e portatili, fa un ecosistema a sé stante), hanno adottato ben presto il sistema di vendita digitale, inizialmente solo per certi titoli e con certe restrizioni, fino a rendere le proprie piattaforme dei veri negozi digitali.

Gli acquisti in digitale hanno ormai superato da tempo quelli con supporto fisico e oggigiorno sono il formato dominante. Questo ha anzitutto cambiato il modo stesso in cui un gioco veniva prodotto dal punto di vista materiale: se una volta le confezioni erano preparate con cura, affiancate sempre da un corposo manuale non solo di istruzioni ma comprendente anche dettagliate informazioni sul mondo di gioco, spesso arricchite da extra quali mappe e accessori vari, oggigiorno sono soltanto degli scheletri di plastica vuoti contenenti un DVD, il quale tra l’altro non detiene che una porzione dei file di gioco necessari all’avvio (il resto, come è facilmente intuibile, viene scaricato online nel momento dell’installazione).

Ecco quindi che il prodotto videoludico cambia forma, diventando più fluido e, con il diffondersi della banda larga, più immediato e facile da usufruire: non serve né andare in negozio ad acquistare il gioco né aspettare il corriere a casa, basta pagare online e si può iniziare a giocare in pochi minuti, scaricando tutto dalla rete. Questi indubbi vantaggi devono essere messi a confronto con una questione ancora poco chiara dell’attuale mercato digitale: per quanto sembri paradossale, quando acquistiamo un gioco su Steam o altre piattaforme simili non stiamo acquistando nessun prodotto.

Se leggiamo le condizioni di utilizzo della piattaforma viene fuori che quello che viene pagato non è il prodotto in sé, ma una licenza all’utilizzo del prodotto. Questo ha implicazioni non di poco conto: prima tra tutte il fatto che qualora Steam dovesse scomparire per qualsivoglia ragione intere librerie digitali contenenti migliaia di titoli semplicemente smetterebbero di esistere. E con esse una quantità considerevoli di soldi degli utenti.

Gabe Newell alla Game Developers Conference del 2010. Foto: Flickr.

La guerra degli store e i nuovi videogiochi

Il progressivo successo di Steam, come è ovvio che sia, convinse altri attori a scendere nel campo della vendita digitale. La prima ad affiancarsi alla piattaforma di Valve fu CD Projekt, la software house della famosa saga The Witcher, che nel 2008 lanciò GOG. Come dice chiaramente l’acronimo (Good Old Games, cari vecchi giochi), il proposito iniziale era quello di fornire un negozio dove reperire copie digitali di alcuni classici intramontabili del PC gaming, come il celeberrimo gioco di ruolo Baldur’s Gate. Caratteristica unica dello store polacco è quella di fornire giochi senza un qualsivoglia sistema di protezione dalla pirateria (DRM), quindi senza che ci sia il bisogno di autenticarli online come fa Steam.

Quelli furono anche i primi anni della diffusione dei videogiochi indipendenti, ovvero sviluppati da case produttrici che non hanno un publisher alle spalle. L’apertura di store digitali come Steam e GOG permise a questo tipo di produzione di diventare un genere a sé stante molto prolifico e ricco di autentiche perle (To the Moon, FTL: Faster Than LightTerraria giusto per citare alcuni di questi). Pochi anni dopo anche i vari publisher iniziarono a proporre il loro store personale, come Origin di EA o Uplay di Ubisoft. In particolare EA, forte della popolarità delle proprie esclusive (serie come Battlefield, Mass Effect, Dragon Age), decise di rimuovere i suoi giochi da Steam e di pubblicarli esclusivamente sulla propria piattaforma. Agli inizi del corrente decennio, dunque, si cominciò ad assistere a una prima frammentazione del mercato digitale, anche se si era ben lontani dalla polarizzazione che ha sempre caratterizzato il mondo delle console.

Al di là dei molteplici servizi forniti da Steam e dalle altre piattaforme simili che si sono aggiunti nel corso degli anni, la strategia di vendita è rimasta quella che era all’inizio. La situazione è mutata nel momento in cui i videogiochi stessi hanno cambiato pelle. Gli ultimi anni, difatti, hanno visto l’emergere dei cosiddetti Games as a service, giochi come servizio (GaaS per gli amici). Il modello di vendita alla base dei GaaS è molto diverso, dato che si tratta di monetizzare non solo la vendita del gioco (che spesso neanche avviene, dato che molti esponenti di questo genere sono free to play), ma di guadagnare con le transizioni effettuate nel gioco, per esempio acquistando oggetti estetici per il proprio personaggio.

Questo cambia anche il modo in cui un videogioco viene supportato dalla casa produttrice: non è più importante fornire un servizio ottimo al lancio per poi lasciarlo morire nel giro di pochi anni, bensì diventa fondamentale supportarlo continuamente, settimana per settimana, con nuovi aggiornamenti e contenuti inediti, in modo da fidelizzare il giocatore, dato che più si gioca più si spende. L’ha capito bene Epic Games, software house del celebre Fortnite, che ha fatto esplodere il genere del battle royale e inaugurato un nuovo modo di concepire la vendita del videogioco. Forte degli enormi ricavi ottenuti da Fortnite, Epic Games ha deciso di lanciarsi nel mercato degli store digitali, ma con politiche ben più aggressive degli altri attori in gioco.

L’obiettivo è solo uno: porre fine al monopolio di Steam. Per farlo ha adottato una doppia strategia: da una parte attirare a sé il maggior numero possibile di sviluppatori offrendo un ricavo maggiore rispetto alle altre piattaforme, dall’altra coccolando l’utente con esclusive e giochi gratis. Se su Steam, per ogni copia venduta, Valve trattiene fino al trenta per cento del ricavato, nel proprio store Epic Games si tiene soltanto il dodici per cento, lasciando agli sviluppatori una cifra ben più considerevole. Chiaramente una mossa simile è resa possibile dagli ingenti ricavi ottenuti con Fortnite, che permettono alla software house di avere minori introiti nel breve termini sul proprio store.

Foto: https://www.epicgames.com/store/it/about?lang=it.

Insomma, la software house statunitense sta applicando una strategia non troppo diversa da quella iniziale di Valve, cioè sfruttare la popolarità dei propri videogiochi per dare vita a un ecosistema targato Epic Games. A questa tattica, però, se ne sta affiancando una molto più violenta e meno felice, cioè quella delle esclusive di terze parti. Nonostante questa sia una meccanica piuttosto in voga per il mercato console (dove Microsoft, Sony e Nintendo puntano sulle loro saghe principali per attrarre a sé i giocatori), si tratta di una questione totalmente nuova nel mondo del PC gaming.

In questo caso non si tratta di un’esclusiva legata all’hardware, quindi che costringe ad avere un determinato sistema piuttosto che un altro per giocare a un certo titolo, ma allo store dove è possibile acquistarlo e avviarlo. Se con la scelta di EA di pubblicare i propri giochi solo su Origin si era cominciato a vedere un fenomeno simile, in questo caso la situazione è ben diversa, perché si tratta spesso di giochi non prodotti da Epic Games. Il caso più eclatante è stato senza dubbio quello di Metro: Exodus. L’attesissimo titolo di 4A Games era stato annunciato nel 2017 e, come quasi tutti i titoli multipiattaforma, l’edizione PC sarebbe stata disponibile su Steam.

A pochi giorni dal rilascio venne reso pubblico che Metro: Exodus sarebbe stato acquistabile esclusivamente sullo store di Epic Games, comportando un notevole numero di controversie per chi aveva già preordinato il gioco su Steam. Vista la lunga serie di  giochi strappati alla concorrenza, la strategia di Epic Games appare chiara: finanziare i publisher affinché pubblichino i loro giochi esclusivamente sull’Epic Games Store, anche solo per un periodo di tempo limitato. Il problema è che questa lotta al monopolio di Steam non sembra indirizzata a un reale miglioramento del mercato per l’utente finale.

Non che non sia giusto che gli sviluppatori ricavino di più dal proprio lavoro, ma per come stanno le cose ora quelli che vanno a perderci sono gli utenti finali. Da una parte si vedono costretti a installare l’ennesimo launcher per giocare a determinati titoli, una piattaforma, tra l’altro, che presenta enormi lacune rispetto a Steam e agli altri concorrenti, nonché vere e proprie falle di sistema che rischiano di esporre i dati personali degli utenti. Inoltre, per il consumatore non c’è un vantaggio economico nell’acquistare da uno store piuttosto che in un altro, dato che il prezzo dei giochi è sempre lo stesso. Dall’altra parte Valve non sembra intenzionata a reagire in alcun modo. Considerato che non produce nessun gioco da svariati anni (neanche il fantomatico seguito di Half-Life 2), l’impressione è quella di una staticità dovuta alla posizione preponderante nel mercato, nonché una scarsa capacità di seguire l’attuale trend dei battle royale e dei GaaS.

Sembra quindi che non si sia davvero innescato un meccanismo di concorrenza, ove le parti competono per fornire il miglior servizio al prezzo minore. In chiusura, è doveroso menzionare l’entrata in scena di un nuovo attore, che ha tutte le potenzialità di scuotere il mercato: Google. Con la presentazione di Stadia, la prima console totalmente basata sullo streaming, potrebbe sconquassare ancora una volta il mercato videoludico, portando a una nuova rivoluzione copernicana di come intendere il videogioco e di, conseguenza, come venderlo. Forse, tra qualche anno, vedremo le nostre librerie digitali con lo stesso sguardo con cui osserviamo la pila di CD-ROM e DVD impolverati.

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