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Spettacolo

I figli del fiume giallo: la voragine di una Cina in continua trasformazione

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Anastasia Piperno

Jia Zhang-ke arriva nei cinema italiani con il suo ultimo film: I figli del fiume giallo (2018), presentato in concorso nella 71° edizione del festival di Cannes come Ash is purest white. Il titolo italiano insolitamente mantiene fedeltà all’originale cinese: Jiānghú érnǚ, che può essere tradotto anche in altri modi, poiché il termine jiānghú nel tempo ha assunto vari significati. Da primo è legato appunto a regioni geografiche quali fiumi e laghi, ma passa ad indicare anche una minoranza, che sia sociale, simbolica o legata anche ad una controtendenza rispetto al flusso principale. Jia già negli ultimi film pareva raccogliere un certo grado di autoriflessione che sfocia, poi, in quest’ultimo film, dove davvero pare si ripercorra un ventennio di immagini, scelte narrative e registiche e temi cari da parte di un artista che sempre ha guardato con occhio critico le mode contemporanee in terra orientale.

Uno sguardo alla realtà sociale del proprio paese

È utile fare una breve introduzione alla figura di Jia Zhang-ke nel contesto del cinema contemporaneo e cinese. Jia è tra i nomi più importanti della Sesta Generazione di cineasti cinesi, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare negli anni Novanta, di vocazione realista e in parte di volontà analoghe al documentario. L’impegno politico ha portato alcuni di loro, compreso Jia, a incontrare difficoltà con i propri lavori nel regime, insieme di comportamenti e tendenze socio-politiche sempre sotto la loro lente focale. Per Jia in particolare infatti la volontà è di poter testimoniare in modo fedele gli spazi della propria nazione nelle sue mille sfaccettature, con un occhio costante alla geografia dei luoghi dalla campagna, passando per territori urbani periferici fino al cuore della modernità, Pechino.

Mostra come essi attraverso fluide ellissi possano rivelare senza parole, ma nell’arte più puramente cinematografica, il transitare dei costumi, il passaggio della storia, dal regime comunista degli anni Ottanta di Platform (2000) fino all’occidentalizzazione e l’arrivo del libero mercato, della voragine inarrestabile del neocapitalismo nei film successivi (Unknown Pleasures The World, per citarne alcuni). La transizione, il cambiamento è un’ossessione del cineasta Jia, che ha saputo affrontarlo sia sul versante affettivo, relazionale che su quello più prettamente socio-politico. I personaggi di Jia sono figli del loro tempo, come i giovani imbambolati dalle icone e dalle immagini televisive di importazione occidentale di Unknown Pleasures, oppure sono incastrati nel loro tempo, nel meccanismo di scarto del presente, sempre spinto in avanti, ma senza una vera e propria rotta, scriteriatamente, e portandosi appresso rimasugli, generando continui scarti dal passato, che siano gli ultimi del paese (Still Life) o chi non riesce a svestirsi velocemente di un’era per vestirne un’altra, come accade in questo I figli del fiume giallo. In tutti i casi questi personaggi incarnano davvero il proprio tempo nel suo complicato reticolo di elementi compresenti, lo vivono in prima persona e diventano a loro volta corpo oggettivo della volontà di registrazione storica del regista.

Foto: sentieriselvaggi.it

Così allora accade ne I figli del fiume giallo. Jia riprende come in Platform e Al di là delle montagne (2015) una struttura tripartitica e che intende compiere un movimento ad ampio arco: dal 2001 della prima sezione fino al 2018 dell’ultima. Se nei primi film il cineasta tendeva ad allontanarsi da un’articolata drammatizzazione narrativa per un flusso quasi neorealistico, con uso di attori non professionisti e di un concetto dell’osservare il passare del tempo tramite l’inquadratura statica e durevole tipico dello slow cinema, da Il tocco del peccato (2013) c’è stato un cambio di rotta per una rivisitazione di generi e un’attenzione all’intreccio personale di tinte drammatiche più accentuate e, forse, gradevoli ad un pubblico più vasto. Così l’attrice feticcio e moglie del regista, Zhao Tao, interpreta un personaggio forte e caratteristico e dal percorso personale privilegiato nell’ottica narrativa di Jia, dando anche l’occasione alla sua attrice di dimostrare ancora una volta, ancora di più le sue qualità interpretative. Quiao, nome della protagonista, esordisce nel film con un lungo caschetto nero (forse un accenno a Pulp Fiction di Tarantino, d’altronde già citato in Unknown Pleasures) e annuncia subito il carattere duro, determinato già nella gestualità, nei bruschi, vigorosi movimenti, dando pugni alle schiene degli amici gangster. Il milieu di Quiao infatti è quello dello jiānghú, clan criminale con un codice d’onore, di lealtà fraterna, a cui si accostano anche sculture dove – come in altre culture – la religiosità è presente seppur “re-interpretata” e i cui sopravvivono simboli antichi della civiltà cinese. Il mondo di Quiao è in bilico tra la speranza di una stabilità e il continuo sballottamento nel magma della realtà e dei saliscendi della vita, passando attraverso la volontà di un nucleo familiare, di una famiglia riconosciuta, di un gruppo di appartenenza come può darlo lo jiānghú, o ancora soltanto la stabilità per sé stessi, per la propria incolumità e per auto-difesa, arrivando ad acquistare illegalmente un porto d’armi. Jia inserisce di nuovo, dopo Unknown Pleasures e Still Life, riferimenti all’influenza del cinema hongkongese, The Killer (1989) di John Woo, il film tv Tragic Hero (1987) che i personaggi guardano e da cui prendono spunto per le proprie azioni, generando a loro volta scene di genere action.

Il cinema di Hong Kong infatti è caratterizzato proprio per l’ingente presenza di questo genere cinematografico, di gangster, arme da fuoco, a loro volta di influenza americana più aperta e sfrenata (come critica Jia). La pistola è un simbolo ricorrente del periodo del 2001, dove Quiao si sente fedele in maniera speciale al proprio uomo, Bin (Liao Fan), ma deve abbracciarne anche le condizioni del suo stile di vita e dell’ambiente in cui opera. La sua pistola è un oggetto osservato con esitazione e curiosità insieme, maneggiato, cade nelle discoteche (esattamente come in Unknown Pleasures) per gettare un’ombra della violenza del proprio gruppo nel contesto ludico, che potrebbe eluderla all’illusa Quiao. Quiao si trova dunque sul confine, che raggiunte una rappresentanza simbolica attraverso questo particolare oggetto, il quale poi le darà anche l’occasione di rafforzare il suo legame con lo jiānghú ad amaro prezzo e, ancora, parere un personaggio che ha preso le vesti delle icone di Hong Kong.

Mentre è indecisa tra un ambiente e l’altro, attorno a lei convivono passato e presente nei campi larghi sui luoghi: da una parte la periferia dove le case dei vicini di Quiao, e di suo padre, paiono rimaste le stesse, parche, in un terreno con tracce di intoccata campagna, e poco lontano la moda della discoteca, dentro cui si balla YMCA dei Village People e danze troppo occidentali anche per Quiao, portate da Hong Kong come un oggetto esotico. Inoltre nel corso degli anni si vedrà il divario tra residui di cultura comunista nelle carceri, presto smantellate per fare posto a nuove costruzioni, nell’architettura squadrata e tutta uguale nel bel mezzo, però, dell’uso di Google Maps, anch’esso simbolo invece della contemporaneità, per raccapezzarsi di dove si trova.

Tornando però al 2001, esso è utile per far vedere che il luogo dei Village People e delle danze è quello frequentato anche da Bin, a metà tra la violenza criminale di Il tocco del peccato e il bisogno di affermazione capitalistico di Al di là delle montagne, dove persino i rapporti di fraternità in verità non sono che legami utili al momento negli affari e di affermazione della propria rispettabilità, ovvero temibilità, nel contesto mafioso. Così anche il suo legame sentimentale con Quiao non pare serio, ma gli effetti che avrà saranno storici per la biografia di uno e dell’altra. Tuttavia (si può ricordare il recente La favorita di Lanthimos al riguardo) il favore della fortuna è incostante e il tempo sociale chiama sempre nuovi leader, così le gang giovani tentano di affossare i boss anziani, tra cui Bing, costituendo un altro elemento con cui Jia fa un discorso sul cambiamento a dispetto di qualsiasi illusione di stabilità.

Foto: nonsolocinema.com

Il titolo inglese, Ash is purest white, pur discostandosi dunque dall’originale, gioca su un elemento altrettanto importante del film. La cenere è la cenere delle sigarette continuamente fumate durante il film dai gangster e da Quiao, ma è anche allusione alla cenere prodotta in seguito ad eruzioni vulcaniche, dove l’alta temperatura fa bruciare tutto, restituendolo però – a detta di Quiao – in una qualità pura. Ciò che brucia e si consuma ad alte temperature è la frenesia di alcuni personaggi nel vortice della transizione e dunque dell’effimero, nel motore non totalmente controllabile della loro stessa vita, in balìa delle corone di carta del successo temporaneo e poi della delusione devastante della caduta, sia economica che negli affetti. Vi si lega anche l’usanza locale di passare sotto una fiamma per allontanare la cattiva fortuna, legando a livello immaginifico ancora di più queste incostanze all’elemento del fuoco che trasforma, volenti o nolenti.

Ma la trasformazione e mescolanza è anche registica, ricordandoci la meta-cinematografia e auto-referenzialità dell’ultimo Lars von Trier, La casa di Jack. Come accennato nella parte introduttiva, Jia arriva a raccogliere la propria esperienza cinematografica pregressa. Lo fa attraverso l’inserzione di scene scartate da precedenti film, ad esempio le riprese sul fiume delle Tre Gole fatte durante Still Life, dove non a caso un altro personaggio di Zhao Tao si imbarcava per chilometri nella ricerca di un caro per chiarire, per fare i conti, non sapendo cosa troverà, mentre tutt’attorno lei il paesaggio registra nuove presenze, nuove invasioni ferrose nell’architettura urbana e la prossima sommersione di realtà millenarie cinesi.

Riprende riprese di Unknown Pleasures, dove ancora Zhao Tao ballava in discoteca. L’aggregamento di una sezione e di un’altra dai film precedenti non dà un effetto frammentario o discontinuo, ma perfettamente fluido. Si aggiunge anche la ripetizione di un’operazione già iniziata con Al di là delle montagne, dove il periodo storico delle rispettive sezioni viene reso attraverso un ritorno a stilemi cinematografici del tempo, attraverso, anche, l’uso di scene già scartate. Se nella sezione del 2001 la fotografia è quasi giallognola, un po’ polverosa dalle nuvole di fumo, con un ritorno al formato dei 4:3, pian piano il formato s’allarga per giungere all’era digitale, in cui la fotografia più chiara abbraccia il minimalismo dell’architettura circostante.

Le transizioni nel linguaggio visuale si possono rilevare anche nell’utilizzo da parte dei personaggi dei mezzi tecnologici, che ci aiutano a riconoscere un’epoca e a orientarci nel progressivo progresso negli anni. Si passa dalle vecchie tastiere dei computer fissi all’utilizzo sempre più intensivo del cellulare, che a sua volta attraversa una ben nota storia di design, arrivando all’attuale smartphone touch. Per Jia l’immagine digitale è un’occasione per simboleggiare anche come i personaggi diventino sempre più scarti, a loro volta, fino ad essere filmati da dispositivi a loro esterni, senza averlo deciso, intrappolati in una vita di cui ancora soltanto si illudono di tenere le redini.

I figli del fiume giallo è dunque un film che miscela auto-referenzialità sempre ben studiata dallo sperimentale Jia, mai uguale a sé stesso nonostante il raggio tematico molto preciso e ricorrente, al gusto per generi squisitamente narrativi come quello dei gangster movie, con legate influenze, del mélo sentimentale, dell’epopea personale e storica, dimostrandosi un altro passo denso, stimolante della carriera del cineasta cinese.

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