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Curiosità

Le sfide del calcio italiano: tra economia e sport

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Elena Testa

theWise Magazine ha preso parte alla conferenza “Le sfide del calcio italiano”, organizzata da Invenicement con il sostegno del Dipartimento di Management dell’università Ca’ Foscari di Venezia, che si è tenuta il 7 maggio. In questo articolo vi proponiamo il resoconto dell’evento, che ha visto come ospiti di eccezione Giuseppe Marotta, amministratore delegato dell’Inter ed ex direttore generale della Juventus; Paolo Bedin, direttore generale dell’L.R. Vicenza; Tommaso Bianchini, marketing manager dell’ACF Fiorentina; Andrea Di Biase, giornalista per Calcio e Finanza; infine, Vincenzo Flores, direttore dell’area audiovisivi della Lega Serie B. I temi dell’incontro hanno riguardato le nuove sfide a livello finanziario ed economico che si pongono davanti alle società e ai loro dirigenti, che pure non possono permettersi di trascurare il peso rilevante dei tifosi: come si decide in merito all’acquisto di nuovi calciatori? Come avvengono le scelte di marketing per garantirsi i migliori ricavi? Qual è il rapporto tra calcio e business? Sono queste alcune delle domande a cui hanno cercato di rispondere i relatori.

Ad aprire l’evento è stato Andrea Di Biase, con un intervento sui dati economico-finanziari che caratterizzano il settore a livello mondiale ed europeo. Il calcio non è solo un fenomeno sociale: è anche un settore economico sempre più rilevante. I numeri dimostrano l’importanza del calcio italiano a livello nazionale: nella stagione sportiva 2016-2017 si sono sfiorati i cinque miliardi di euro di fatturato, i cui ricavi provengono per la maggior parte dal calcio professionistico. L’indotto stimato, se si calcolano anche elementi esterni come merchandising, giornalismo e broadcaster, sale ancora di più, raggiungendo i diciotto miliardi di euro. In un Paese come l’Italia, la cui crescita economica non è sempre forte, il settore calcistico continua a espandersi (con l’eccezione del 2014, anno del crac del Parma Calcio). Questi dati si incrociano con l’importanza sociale e mediatica di questo sport da un lato e, dall’altro, con una situazione economica che, nonostante gli ottimi risultati, appare leggermente appannata rispetto alle controparti estere. Nel 2005-2006 la Serie A era la seconda per fatturato in Europa, dietro alla Premier League; gli ultimi dati disponibili (stagione 2016-2017) ce la presentano invece scesa al quarto posto, superata anche dalla Liga spagnola e dalla Bundesliga tedesca. Le principali fonti di reddito delle società di calcio sono quattro: la commercializzazione dei diritti audiovisivi (negoziata a livello di Lega), i ricavi di sponsorizzazioni e accordi commerciali, i ricavi da stadio e il calciomercato.

Per quanto riguarda il primo di questi elementi, però, si sta assistendo a una certa saturazione del mercato non solo nostrano ma anche europeo nel suo complesso. Una soluzione che si è tentato di percorrere è quella della cessione dei diritti anche ai mercati esteri. Anche in questo caso, però, i guadagni della Serie A sono inferiori a quelli di realtà parallele come Premier League e Liga. C’è comunque da dire che i maggiori ricavi spagnoli risalgono a stagioni in cui erano presenti giocatori del calibro di Ronaldo e Messi: chissà che, con l’arrivo di CR7 alla Juventus, la situazione non possa evolversi. Il passaggio di proprietà di uno dei principali club della Serie A, l’Inter, alla compagnia cinese Suning ha portato circa ottanta milioni di euro in ricavi commerciali: sotto questo punto di vista il calcio italiano è cresciuto addirittura del venti per cento. Torneremo più avanti sulla situazione dei ricavi da stadio, strutture spesso vecchie e poco funzionali: a causa di questo si contano ben quasi trecento milioni di euro in ricavi mancati. Infine, il calciomercato, la seconda fonte di introiti per i club italiani: il giro d’affari più alto è stato nelle due sessioni di mercato della stagione 2017-2018, legato al passaggio di Neymar dal Barcellona al PSG per una cifra record che ha provocato una forte inflazione dei prezzi dei giocatori. Se si considera solo il volume d’affari della compravendita di giocatori, il calcio italiano si piazza al secondo posto in Europa. Quanto guadagnato dopo il boom dei diritti audiovisivi negli anni Novanta, infatti, va speso più nel calciomercato che non nel potenziamento dei settori giovanili o nel miglioramento delle strutture esistenti. Ultimo aspetto da prendere in considerazione è il fair play finanziario: un provvedimento criticato da molti, ma che ha avuto effetti positivi sulla gestione dei club. In Italia, però, questi effetti tardano ancora ad apparire: nonostante nel 2016-2017 si sia arrivati quasi a un pareggio di bilancio, le stime per la stagione 2017-2018 sono piuttosto caute.

I relatori della conferenza. Foto: theWise Magazine.

Ha poi preso la parola Paolo Bedin, che si è soffermato su alcuni aspetti apparentemente contraddittori dell’economia calcistica: perché questo settore così forte, soprattutto se confrontato con l’economia reale italiana, fatica a produrre ricchezza? E, soprattutto, cosa spinge un imprenditore ad acquistare una realtà sull’orlo del fallimento, contro ogni regola di base del mercato? Semplice: perché di calcio, appunto, si tratta. Tuttavia, non ci si può affidare solo alla propria passione: è opportuno seguire esempi virtuosi, come quello della gestione manageriale e aziendale della Juventus, con un respiro e una logica a medio-lungo termine. Ritorna un punto dolente: gli insufficienti investimenti sugli asset di ciascuna squadra, cioè il settore giovanile e gli stadi, luoghi che possono realmente permettere di recuperare il conto economico. La passione, la fede e il senso di appartenenza devono essere affiancati da una visione imprenditoriale efficiente. Alcune squadre hanno intrapreso il cammino per riorganizzarsi in tal senso, non solo tra i club maggiori ma anche tra quelli di medie e piccole dimensioni. Deve entrare inoltre, nel calcio italiano, una nuova imprenditoria: sana, solida e illuminata. E le aziende (le squadre) in perdita non hanno certo le condizioni adatte a richiamarla. Parlando di social media, marketing e analisi dei dati, Bedin ne ha sottolineato l’importanza anche nella costruzione di obiettivi a lungo termine. Anche in questo caso il coinvolgimento del tifoso da parte delle squadre italiane è inferiore rispetto a quello delle controparti europee. I social hanno il compito di intercettare le nuove generazioni di tifosi: sono i canali preferenziali per questo target e servono per portare allo stadio il maggior numero di persone possibile. Un’area commerciale e di marketing di buon livello, con pacchetti di sponsorizzazione adatti a ogni esigenza, serve poi ad aggiudicarsi sostegno economico da parte delle aziende. Il concetto di marketing usa lo sport e il calcio per creare contatti tra queste aziende e il consumatore. Per farlo, ha bisogno dell’ospitalità che solo la partita può offrire, in un luogo di aggregazione come lo stadio. Quest’offerta deve essere generata da un’attenta analisi. Ecco quindi che è necessaria una solida struttura aziendale all’interno della società di calcio.

Uno scatto dell’evento. Foto: theWise Magazine.

Come già accennato, un tema estremamente delicato e di attualità è quello degli stadi. L’Italia è il Paese europeo con il maggiore gap rispetto agli altri sotto questo punto di vista, con strutture la cui età media arriva anche ai sessant’anni: l’impiantistica non è certo al passo con i tempi e ce ne parla Giuseppe Marotta. In Italia si è passati da un modello di simil-mecenatismo, per cui nelle città c’era un imprenditore che voleva offrire ai suoi concittadini l’emozione della crescita della squadra di riferimento del territorio, al modello di business dell’attuale società di calcio professionista, legato a fenomeni economici rilevanti. In tutto questo, gli stadi continuavano a essere pieni. Con la trasformazione del modello calcistico di cui abbiamo appena parlato è nata l’esigenza di avere stadi che vadano di pari passo con questa crescita, accompagnata a istanze che fino a vent’anni fa erano inesistenti, come le stringenti norme di sicurezza, l’accoglienza e il senso di appartenenza. È indispensabile anche concedere l’ospitalità appropriata alle figure degli sponsor. Soprattutto, gli stadi rappresentano asset fondamentali nell’ottica di espansione di risorse di una squadra. Marotta ha partecipato, nella sua esperienza alla Juventus, al passaggio dallo stadio comunale dell’Olimpico al nuovo Allianz Stadium, dove gli spettatori possono assistere alle partite a pochi metri di distanza dai propri beniamini, a differenza di quanto accade negli stadi edificati secondo i criteri costruttivi dei decenni passati. Questo cambiamento ha portato anche a un fortissimo incremento dei ricavi della Juventus: dai circa quindici milioni di euro dei tempi dell’Olimpico ai cinquantotto della stagione passata. Se si confronta questo dato con quello di altri club europei che hanno fatto una mossa simile, come Real Madrid e Barcellona, però, esso appare ancora ben inferiore (entrambe queste due squadre superano i centocinquanta milioni di ricavi). Per una crescita del calcio italiano, quindi, c’è l’esigenza assoluta di costruire nuovi stadi, che siano in grado di soddisfare le istanze di sicurezza e ospitalità così come quelle economiche. Non si devono più costruire cattedrali nel deserto da visitare solo la domenica, ma luoghi che diventino poli di aggregazione del territorio e siano vissuti giornalmente, con lungimiranza da parte dei loro proprietari. Marotta ha poi parlato della convivenza tra obiettivi di breve periodo (i risultati sportivi, di maggior interesse per i tifosi) e di medio-lungo periodo (che coinvolge la dirigenza). Da questo confronto deve nascere un modello di riferimento sportivo e, soprattutto, la cultura della sconfitta, con tifosi che non abbandonino la squadra nel momento in cui i suoi risultati non li soddisfino più. Il fenomeno del calcio italiano è spesso vissuto senza comunità: in Spagna ci sono società, come il Barcellona, che sono quasi polisportive, con migliaia di soci che garantiscono la continuità storica dei club. Oppure, in Germania, i capitali stranieri non possono avere quote di maggioranza all’interno delle squadre, portando a un grande senso di appartenenza. Se questo si accompagna a una struttura societaria competente gli effetti non potranno che essere ottimi. L’Italia è purtroppo debole da questo punto di vista, mancando di continuità aziendale e di stabilità: i bilanci delle nostre squadre sono settimanali, legati ai risultati sportivi di ogni domenica.

Prosegue il discorso Tommaso Bianchini. Una squadra che ha una buona performance non dovrebbe avere problemi a intercettare imprese che decidano di lavorare investendo nel mondo del calcio. È difficile coinvolgere le imprese nelle attività di sponsorizzazione? I loro investimenti riescono a dare ritorni adeguati agli imprenditori? Anche in questo caso, il calcio italiano ha le sue peculiarità se confrontato ad altre Leghe (come quella tedesca, in cui gli imprenditori investono molto, avendo un forte legame con il territorio). Il mercato nostrano è molto complesso: negli ultimi anni ha anche vissuto un cambiamento molto forte. Con l’avvento della pubblicità online si è molto abbassato il costo medio dello sport in televisione, i cui budget sono scesi. Il tema attuale è quello della creazione di un business nuovo, che si interfacci con le esigenze delle aziende investitrici. Al calcio serve freschezza: deve parlare il linguaggio che vogliono sentire le aziende e per questo motivo stanno nascendo ruoli nuovi che vanno incontro a questa esigenza. La Fiorentina ha investito molto sulla città e sulla sua storia, rendendosi un perno per il territorio e facendo sì che le industrie eccellenti che vi operano decidano di investire nella squadra viola. Non va sottovalutato nemmeno il campo digitale, dal sito web alle app allo studio dei comportamenti dei tifosi per offrire loro il miglior servizio possibile e rispondere alle loro esigenze, creando con loro un rapporto quasi simbiotico.

Infine è intervenuto sul tema dei diritti audiovisivi Vincenzo Flores. Due terzi dei ricavi del calcio provengono da questi: è un sistema sostenibile? Quali sono le sfide legate al digitale, con gli eventi che vengono trasmessi su canali diversi dalla televisione? Più che di diritto, si è parlato di prodotto. Per quanto riguarda il campionato di calcio italiano di Serie B, manca una struttura forte che faccia da presidio al prodotto televisivo. Un tempo, la realizzazione di riprese nei vari stadi in cui si giocava la vecchia Coppa dei Campioni era delegata alla produzione che ne aveva acquistato i diritti nel mercato nazionale, con differenze da partita a partita. Oggi, invece, il prodotto è riconoscibile uniformemente anche a causa della standardizzazione del linguaggio televisivo. La prima sfida per le Leghe italiane è irrobustire questo presidio, senza limitarsi a lasciare i diritti nelle mani di chi li acquista (pensiamo alle differenze che c’erano tra la visione di una partita su Mediaset Premium, Rai o Sky). Un episodio significativo è stata la decisione di sfruttare la possibilità, valida però solo per la Serie B, di vendere a un unico soggetto tutti i diritti per il campionato. Una mossa del genere è impossibile per la Serie A, a causa dei problemi di antitrust. Per aggirare il problema, le partite potevano essere vendute per piattaforma (tutti i diritti su satellite venduti a Sky e tutti i diritti su digitale terrestre venduti a Mediaset) oppure “spacchettandole” (non dando cioè all’acquirente la gamma completa degli eventi). Questo limite, appunto, è assente per la Serie B. Con la vendita dei diritti TV nel 2018, il ricavo è passato da sei a più di venti milioni di euro. Nel mercato dei diritti c’è una certa stanchezza, dovuta anche all’avvicendarsi di diversi broadcaster. Le Leghe devono aver cura di quell’asset che è il prodotto televisivo. Ecco che si ritorna a parlare di stadi che, se curati in ogni dettaglio, diventano il primo ingrediente per un prodotto televisivo di qualità. Elementi come il manto erboso, gli spalti e la presenza del pubblico vanno mostrati e valorizzati: alla fine, il calcio è uno spettacolo e come tale deve essere trattato e rappresentato.

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