269 partite, 191 vittorie (percentuale del 71%), 40 pareggi, 38 sconfitte, 510 gol segnati. 5 Scudetti, 4 Coppe Italia, 2 Supercoppe Italiane, 2 finali di Champions League raggiunte. Non sono numeri a caso ma quelli prodotti sulla panchina della Juventus da Massimiliano Allegri. Che, però, quella panchina dovrà lasciarla a fine stagione, dopo alcune differenze di vedute con la società bianconera e la pecca di non aver mai vinto la maggior competizione continentale per club, obiettivo dichiarato (anche se, talvolta, in maniera contraddittoria) ormai da anni dal club torinese. Un evento a cui viene giustamente dato risalto e che, in modalità incontrovertibile, non solo rappresenta un nuovo inizio per entrambe le parti ma sottolinea anche qualcosa di altrettanto importante, magari bisbigliato per vergogna o taciuto per non doversi contraddire dopo anni di battaglie al fianco del tecnico: alla Juventus, evidentemente, non basta più soltanto vincere – anche se, come da motto, è l’unica cosa che conta – ma serve cambiare la maniera per farlo. E così Massimiliano Allegri, indiscutibilmente uno degli allenatori più capaci e vincenti nella storia del calcio italiano, diventa “pedina di scambio” di un meccanismo più grande di lui, della Juventus e di chiunque altro. Nonostante le tante vittorie e i piazzamenti europei a un passo del sogno, si è deciso di cambiare pagina non tanto per le motivazioni trapelate a mezzo stampa ma perché, forse, c’è bisogno di un’evoluzione che solo l’estetica del pallone, in fondo, può regalare.
Massimiliano Allegri e la Juventus hanno “scoperto”, a loro spese, che vincere non è l’unica cosa che conta
A dispetto di quanto si è letto e sentito su giornali e media – dalla richiesta di maggiori soldi a un diktat sulle cessioni e gli acquisti da effettuare – la separazione della Juventus e di Allegri (una sorta di esonero mascherato) rappresenta, paradossalmente, una grande vittoria per il tecnico (che proprio ieri, nella conferenza stampa di congedo, aveva difeso – più o meno coerentemente – i suoi metodi, mettendo sempre davanti il risultato e poi i mezzi attraverso i quali ottenerlo, arrivando al solito a rinnegare il bel gioco, additandolo erroneamente e con pressapochismo ai perdenti) e una potenziale sconfitta per il club, “costretto” ad ammettere che, in fondo, per arrivare a raggiungere le vette europee (perché in Italia, ormai, il campionato ha assunto il tono di un vero e proprio monologo) bisogna fare qualcosa in più dal punto di vista del gioco. E non è un caso, dunque, che il primo nome dei bookmakers per la sostituzione di Allegri sia proprio quello di Maurizio Sarri, profeta del calcio spettacolare che ha rappresentato per almeno 3 anni la nemesi principale del futuro ex tecnico bianconero, il quale – sia nei momenti tranquilli che in quelli più concitati – ha spesso perso la testa dinanzi a critiche sul gioco (va detto) parse a volte esagerate ma dettate dalla “moda” (o dalla necessità?) di riscoprire e rispolverare un calcio diverso, che – al di là dei risultati – genera invidia in chi non riesce a praticarlo.
Il concetto delle critiche enormizzate, immeritate, spesso chiassose, va però assolutamente ribadito. Perché si può non pensarla come Allegri quando parla di schieramenti e approcci alle partite ma ignorare ciò che ha fatto alla Juventus sarebbe da folli (e non a caso era doveroso e necessario presentare numeri e trofei, prima di introdurre discorsi più aulici). L’ex giocatore del Pescara si è ritrovato sovente in un circolo vizioso messo su dai teorici del calcio, scoprendosi tradito e contestato dai suoi stessi tifosi e dai giornali persino in annate colme di superiorità, trionfi e capolavori tattici in Italia (talvolta, anche in Europa ma con meno fortuna). Anche il suo maestro Galeone, con tutta fermezza, ha spiegato che Allegri, in Italia, non è stato capito e apprezzato a dovere. Probabilmente, come tutte le cose migliori, basterà perderle – anche momentaneamente – per far scaturire una certa nostalgia.
La conferenza stampa già citata ha anche dato un’indicazione molto pesante sul reale manovratore dell’addio di Allegri. Da buon Presidente aziendalista, Andrea Agnelli ha infatti preso la decisione a sua detta più sofferta da quando è alla guida del club ma, evidentemente, anche quella ritenuta più congrua (come fatto, anni addietro, con l’addio di Del Piero), scegliendo di intraprendere un rischio calcolato e, magari, andare a sacrificare qualche certezza attuale (gioco a specchio sugli avversari e trionfi assicurati in un campionato non così competitivo come in passato) per provare l’ebrezza della novità, potenzialmente anche al netto di qualche coppa nazionale in meno. Realisticamente parlando – perché è giusto dare a Cesare ciò che è di Cesare – la Juventus difficilmente troverà, in questo momento, la possibilità di prendere un tecnico del valore di Allegri (o che comunque gli si avvicini in tal senso). Ottimisticamente, invece, il club bianconero potrebbe scegliere la strada della rivoluzione, affidando la panchina a qualche maestro già lodato ma non ancora vincente o a qualche giovane rampante che dovrà farsi forza con idee chiare e un progetto tecnico-tattico differente. Per adesso, però, la Juventus ha scelto semplicemente di dare un taglio al passato. Vincere tornerà a essere la cosa più importante ma, per ora, non lo è più.