L’ostilità nei confronti dei libri di storia è un male da cui, assai spesso, non si guarisce nemmeno in età adulta. In pochi trovano l’energia, l’entusiasmo e la volontà di affrontare tomi di oltre mille pagine, spesso scritti in uno stile pedante e poco scorrevole. Raramente qualcuno rivela di aver trascorso un’ora del proprio tempo libero su una monografia di Stalin o di Hitler; e sono in pochi a dedicarsi ai saggi, dalla mole spesso inquietante, sulle alterne vicende dell’impero romano o sulle sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale.
C’è da dire, a onor del vero, che non sono mancati esperimenti volti a ridurre questo gap culturale: storici di professione e divulgatori di buona volontà si son sforzati, con alterna fortuna, di far arrivare la storia alle masse. Anche il teatro e la televisione hanno dato il loro contributo, come nel caso del recital andato in onda su Rai Tre e dedicato al romanzo di cui si parlerà tra poco. Ma non sempre l’obiettivo è stato raggiunto: il pubblico ha continuato a mostrarsi, per la maggior parte, recalcitrante e annoiato. Salvo rare eccezioni, gli italiani continuano a tenersi alla larga dalla saggistica storica. E preferiscono virare, durante le passeggiate nella libreria di fiducia, in una direzione ben più rassicurante: lo scaffale dei romanzi.
Stando così le cose, non è difficile intuire quale possa essere la quadratura del cerchio: trasformare la storia in romanzo. Come in M. Il figlio del secolo, romanzo storico di Antonio Scurati: candidato al Premio Strega, è uno dei casi editoriali più interessanti dell’ultimo anno. Naturalmente, Scurati non è stato il primo ad avere l’idea: basti pensare a tutta una congerie di eminenti padri spirituali, tra cui spiccano Manzoni, Tolstoj, Dostoevskij, Hemingway, García Márquez. Il romanzo storico è un genere affatto nuovo, e che tuttavia riesce a cogliere, di volta in volta, per ovvi motivi di tempo e spazio, soltanto una minima parte dell’orizzonte storico che fa da sfondo al nostro presente. La campagna di Russia, ad esempio. La nascita dell’Italia. La Guerra civile spagnola. Ma nessuno finora era riuscito nell’impresa più ovvia, forse, e per certi versi la più difficile: trasformare il fascismo in romanzo.
Un romanzo-documentario. «Un romanzo in cui d’inventato non c’è nulla». Ma soprattutto, un’opera che ha l’indiscutibile merito di rifondare l’antifascismo, in un’epoca in cui se ne sente effettivamente il bisogno. È vero, come ha sostenuto lo stesso Scurati ai microfoni di Corrado Augias, che il paragone tra la deriva antidemocratica dei populismi e degli estremismi odierni, da un lato, e la dittatura fascista dall’altro risulta essere fuorviante, oltreché azzardato dal punto di vista storico. Ma è anche vero – è sempre Scurati a sostenerlo – che se si guarda, anziché all’attore protagonista, al folto pubblico che ne osanna le gesta; anziché ai leader populisti, ai loro sostenitori; allora, il paragone con il Ventennio inizia a reggere.
Lo stesso senso di disfatta, di frustrazione – nella sua doppia accezione individuale e collettiva –; la stessa netta percezione di un vuoto sociale, istituzionale; ma soprattutto, lo stesso senso di odio diffuso. La stessa strisciante, subdola convinzione di poter difendere sé stessi solo a scapito di altri. Questi, in definitiva, i punti in comune tra l’Italia del 1919 e l’Italia del 2019 – che lo scorso 23 marzo ha rievocato, per l’appunto, l’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento.
Questo senso di impotenza, insicurezza, fragilità affratella gli italiani di ieri e quelli di oggi. Ieri, erano coloro che ancora tardavano a digerire la bruciante umiliazione di Caporetto; che ancora si rifiutavano di chinare il capo all’avvilente esito della pace di Versailles; che ancora portavano vive sulla pelle le ferite della guerra, la fame, l’inedia, l’incapacità di dare inizio a una vera ripresa. Oggi, sono gli xenofobi, i sovranisti, gli oppositori delle politiche di accoglienza, gli esponenti di quei populismi che promettono pane e lavoro per raccogliere consensi e favore.
Oggi come ieri è la paura a far da leva all’escalation di movimenti capeggiati da soggetti che, fino a poco prima, poco o nulla avevano a che spartire con la scena politica. Soggetti che, di fatto, sono giunti nelle stanze del potere senza sapere nulla di come si amministra una nazione: proprio come Mussolini quando si presentò al cospetto di re Vittorio Emanuele III, che il 30 ottobre 1922 gli conferì l’incarico di formare il governo.
Quali prerogative, dunque, poteva vantare un uomo che fino a quel momento aveva avuto, sì, fama di arruffapopoli, di sindacalista, che aveva persino diretto un giornale, ma che sicuramente non poteva definirsi – almeno per il momento – un fine uomo politico? Semplice: l’istinto. «Io sono come le bestie: sento il tempo che viene». Sentiva il «polso della folla», Mussolini. Sapeva come muoversi per ottenere il favore delle masse.
Eppure, quella fatidica notte in Piazza San Sepolcro – più precisamente, nella sala riunioni del Circolo dei commercianti e degli industriali – erano in meno di cento. Ma era solo l’inizio: non molto più tardi le piazze sarebbero state invase da folle galvanizzate, compatte, inneggianti al Duce. Ma a quale prezzo? Di fatto, Mussolini era diventato «l’uomo che odiava da ragazzo». La tornata elettorale del 15 maggio 1921 lo vide schierato nelle fila del Blocco Nazionale, fianco a fianco coi nemici della sua giovinezza: quei liberal-democratici contro cui tanto animosamente si era schierato nella sua gioventù socialista.
Rimanendo in tema di elezioni, è appena il caso di dar conto della recente candidatura di Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote del Duce, alle prossime europee, nelle liste di Fratelli d’Italia. Le polemiche suscitate da una simile presa di posizione, già di per sé accese – specie tra le fila della sinistra, più o meno moderata – sono state ulteriormente esacerbate da un post pubblicato su Facebook da Caio Mussolini. Post in cui il suddetto si ritrae alle porte dello Stadio degli Ulivi, ad Andria, dinanzi alla monumentale «M» che ricorda il figlio del secolo e che fa da ingresso principale allo stadio, costruito appunto in epoca fascista. Un gesto che ha fatto discutere, che è stato ripreso da più parti. E che ha avuto luogo, per una curiosa ironia del destino, esattamente il 15 maggio. Novantotto anni dopo.
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