I risultati delle elezioni europee non hanno regalato nessuna sorpresa e non hanno nemmeno concesso miracoli. Come previsto dai sondaggi, la Lega di Matteo Salvini ha ottenuto la conferma del suo ampio consenso in Italia, il M5S è stato fortemente ridimensionato e i due principali partiti europei – Partito Popolare Europeo (PPE) e Socialisti (S&D) – non conservano più la maggioranza, ma avranno bisogno dell’appoggio di un altro gruppo politico per poter governare. Ciononostante, i sovranisti non si sono imposti in Europa come la loro propaganda avrebbe voluto e il Parlamento rimane composto per larghissima parte da partiti europeisti. Certo è che l’Unione non può festeggiare una sua vitalità, ma può al limite tirare un respiro di sollievo per una sua sopravvivenza: se l’attacco che i sovranisti hanno condotto domenica contro l’emiciclo è stato respinto, non si può negare un loro avanzamento, e di conseguenza non si può pensare che la loro spinta propulsiva si sia esaurita. Il 26 maggio ha qualcosa da insegnare ai partiti europeisti: serve un cambiamento, e serve subito. E i risultati delle elezioni europee di domenica hanno chiaramente mostrato che c’è più di una lezione, a livello europeo e italiano, di cui bisognerebbe tener conto per il futuro dell’Europa e per il ritorno in campo della sinistra in Italia.
In Europa, la prima lezione arriva dall’analisi dello spostamento dei voti della sinistra rappresentata dai Socialisti. Uno dei due bacini verso cui sono migrati questi voti è stato il partito dei Verdi, che però accolgono al loro interno partiti di varia natura. In Paesi come la Germania, oltre che sostenere la causa ecologica i Verdi hanno proposto anche idee progressiste, sottraendo voti ai partiti di sinistra che non hanno mantenuto l’impegno promesso in campo ambientale. È proprio attorno a questi temi, infatti, che c’è uno spazio elettorale a cui la sinistra può ambire se vuole tornare a rivestire un ruolo chiave in Europa: non può più permettersi di ignorare quell’elettorato “ecologista” di cui una Sinistra del terzo millennio dovrebbe farsi portavoce. Lo stesso vale anche – e forse ancor di più – per l’Unione Europea. Il cambiamento climatico è un fenomeno su cui i singoli governi nazionali possono fare ben poco e che solo l’intervento di una forza politica più grande come l’UE può contrastare: l’Europa è vista da sempre come un’istituzione lontana, ma i cittadini degli Stati membri potrebbero percepire direttamente gli effetti di un maggiore impegno della futura Commissione nei confronti del cambiamento climatico.
I Verdi non sono gli unici ad aver accolto i profughi della sinistra: anche l’ALDE, grazie all’ingresso nelle sue fila dei liberali della République en Marche (LRM) di Macron, è riuscito a beneficiare della perdita dei voti da parte del S&D e diventare così uno dei partiti determinanti per la formazione della prossima Commissione. Nonostante l’ampio contribuito di LRM nel Parlamento UE, Marine Le Pen, capo del Rassemblement National che con il 23,43% è diventato il primo partito di Francia, ha presentato le europee come una sonora sconfitta per il Presidente della Repubblica francese. In realtà, né la percentuale ottenuta da Le Pen né quella ottenuta da LRM si discosta molto dai risultati delle presidenziali francesi del 2017: si può dire che la situazione sia rimasta sostanzialmente invariata. Dal risultato francese si può per questo ricavare una seconda lezione per la sinistra italiana e per l’Unione. Di fronte alla minaccia sovranista, abbiamo sempre visto un PD timido e incerto, che addirittura inseguiva i populisti e i nazionalisti su alcuni temi, primo tra tutti l’Europa. Macron si è presentato come il candidato europeista per eccellenza, il che forse è l’unica ragione che gli ha permesso di mantenere un largo consenso. Al contrario, il PD – pur dichiarandosi da sempre a favore dell’Europa – ha spesso sfruttato l’Unione come capro espiatorio a cui imputare le colpe nei momenti di scarso consenso elettorale. Quello che i risultati delle elezioni europee insegnano è che invece in Europa c’è bisogno di rischiare e di prese di posizione: di fronte a un euroscetticismo estremo, forse servirebbe rispondere con un altrettanto estremo europeismo.
La terza lezione per l’Unione Europea viene proprio dal PD italiano, che però ignora completamente quello che i risultati delle elezioni di domenica in Italia avrebbero da insegnargli. Al Nazareno hanno infatti festeggiato come un miglioramento il 23,5% ottenuto, quando sarebbe meglio notare come praticamente nulla sia cambiato rispetto al 18,7% delle politiche dell’anno scorso. Bisogna tenere in conto che il 4 marzo 2018 parte degli elettori del PD era sparpagliata tra LeU e i vari partiti della coalizione di centrosinistra, che invece per queste Europee si sono presentati in gran parte sotto la lista comune dei dem. Basta quindi sommare i voti che il PD ottenne alle politiche insieme a quelli di questi partiti per avere all’incirca quel 23% totalizzato domenica e acclamato come segno di una ripresa: si può dire quindi che non c’è stato nessun miglioramento, perché gli elettori di sinistra dell’anno scorso sono rimasti all’incirca tutti a sinistra. Se si delinea l’immagine di una sostanziale stagnazione dell’elettorato democratico, possiamo tuttavia trarre anche qualcosa di positivo dai risultati delle elezioni europee. Il 23% del PD mostra infatti che continua a rimanere un “nocciolo duro” europeista, che nonostante l’assenza di vitalità dell’opposizione continua a sostenere l’Unione: è una base apparentemente solida, forse non necessariamente di sinistra, ma che in realtà si appoggia ai dem per schierarsi contro l’avanzata del sovranismo e del populismo. Un nucleo simile esiste in ogni Paese europeo e chiede una Europa più forte e coesa: è da questo nucleo che l’Unione deve prendere il coraggio per rilanciare il proprio progetto, con proposte che spingano verso una maggiore integrazione e con una politica che accolga chi ancora non si riconosce nell’ideale europeo.
Anche se è ancora presto per calcolare i veri rapporti di forza all’interno del Parlamento Europeo, visto che alcuni partiti nazionali – tra cui il Fidesz di Orbàn – potrebbero modificare la propria collocazione all’interno dell’Unione, è comunque chiaro dai risultati delle elezioni europee che l’UE rimarrà a guida nettamente europeista. Tuttavia, tra quattro anni ci saranno nuove elezioni e in questo lasso di tempo il consenso per i sovranisti potrebbe aumentare a vista d’occhio. Ecco perché l’ultima lezione – forse la vera lezione – per l’Unione Europea è che non c’è più spazio per propositi non mantenuti o per la rivendicazione di interessi nazionali da parte di partiti europeisti. La nuova Commissione sarà forse l’ultima a poter decidere se l’Europa dovrà procedere verso una maggiore integrazione politica o rimanere una semplice area di collaborazione economica. Forse la redistribuzione dei seggi a Bruxelles potrebbe dare nuovo vigore all’Unione: la formazione di una nuova maggioranza, che oltre alla tradizionale alleanza tra PPE e S&D accolga altri partiti, potrebbe infatti contribuire a rimettere positivamente in discussione l’Unione e a sottolineare l’importanza di nuovi temi. Allo stesso modo, il rafforzamento dei nazionalismi potrebbe generare in risposta un maggiore impegno europeista da parte dei singoli Stati membri, spingendoli forse a comprendere la necessità di rinunciare agli interessi nazionali per favorire una maggiore integrazione. Insomma, verrebbe da dire che è proprio dalla parziale sconfitta elettorale di PPE e S&D che può nascere una successiva vittoria dell’Unione, e proprio da un 26 maggio in cui ci si aspettava di vedere un’Europa inesorabilmente frammentata potrebbero nascere gli Stati Uniti d’Europa.
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