Maggio si è ormai concluso e, come sempre, l’industria musicale ha sfornato un buon numero di lavori discografici: le pubblicazioni hanno soddisfatto le aspettative? Ci sono degli album papabili a essere nominati come dischi del 2019 o è ancora presto per dirlo? In questa nuova rubrica mensile andremo ad analizzare alcune fra le uscite discografiche più interessanti, deludenti, curiose e quant’altro che hanno segnato il mese appena trascorso. Quali sono i dischi che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato questo maggio 2019? Andiamo a scoprirlo insieme.
The National – I Am Easy to Find
Quasi senza aver digerito pienamente il tour e l’esposizione di Sleep Well Beast, la band simbolo dell’alternative folk americano ritorna con la sua ottava fatica. I Am Easy to Find dei National si presenta come un enorme contenitore di sedici tracce, in parte brani scaturiti dalle sessioni dei precedenti album (Rylan, su tutte, era una fan favourite da tempo), in parte materiale completamente inedito. L’esperienza che I Am Easy to Find offre è volutamente complessa e multisensoriale: l’album è infatti coprodotto e accompagnato da uno short movie omonimo di Mike Mills, che pur non essendo un musicista ha condizionato la genesi dei brani stessi sviluppandone in parallelo la controparte visiva. I Am Easy to Find si svolge secondo un inedito punto di vista femminile: molte le interpreti che hanno preso parte all’opera, non come coriste ma come punti di dialogo con il caratteristico timbro baritonale e nervoso di Matt Berninger. Le purissime voci di Gail Ann Dorsey, Kate Stables, Lisa Hannigan, Eve Owen e Sharon Van Etten, tutti nomi provenienti dalla scena folk, insieme agli arrangiamenti orchestrali di Bryce Dessner (chitarrista del gruppo) e della moglie Mina Tindle e a una produzione sopraffina, fanno la differenza in un viaggio di sessantanove minuti che unisce le esperienze dreamy e le chitarre stratificate di Trouble Will Find Me alla sintesi sonora e alle tastiere compatte di Sleep Well Beast. Più una mutevole soundtrack che un album composto da canzoni di senso compiuto e da bombe da heavy rotation radiofonica, più una esperienza sonora che un lavoro da sottofondo, i National sfruttano il senso di familiarità creato in vent’anni di carriera per accompagnare e spiazzare nuovamente l’ascoltatore con soluzioni orchestrali e moderne. 7.5/10.
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Tyler, the Creator – IGOR
Dopo averlo visto crescere dai suoi esordi nei primi anni del decennio fino al 2017, anno della sua consacrazione con Flower Boy, Tyler, the Creator non sembra volerne sapere di cambiare la fortunata strada su cui si sta incamminando: IGOR, quinto album in studio per il musicista americano, è sempre meno rap e sempre più un calderone misto di idee e di notevoli collaboratori (fra cui Pharrell, Kanye West e Solange), il cui risultato convince ma non riesce a reggere il confronto con il capitolo precedente della sua discografia. Tappeti di struggenti sintetizzatori anni Ottanta, legati a campionamenti presi a piene mani dalla tradizione della musica soul e funk afroamericana, fanno da cornice all’amore non corrisposto del protagonista Igor verso un altro uomo, presumibilmente eterosessuale. Tyler, the Creator, col suo stile surreale e ironico, si immedesima con grande sincerità nei panni del protagonista, raccontando le varie fasi della parabola amorosa di IGOR, dall’iniziale innamoramento fino al rifiuto finale. I brani del disco, spesso troncati malamente sul finale, riflettono la generale sofferenza e insoddisfazione del protagonista, trasmettendo il diffuso senso di disagio che ne appesantisce gli arrangiamenti, il tutto mentre Tyler si apre totalmente sulle melodie, a tratti aggressive e brutali, a tratti delicate e melliflue. Il risultato è un disco affascinante, ruvido e diretto, ma da cui traspare anche una certa furbizia: nonostante elementi più o meno bizzarri o ricercati, non viene mai meno la sua vena più squisitamente pop, risultando appetibile anche per il mercato più mainstream. Tyler quindi sì si mette in gioco e osa, ma senza mai fare il passo più lungo della gamba, riuscendo quindi a mettere d’accordo bene o male tutti ma senza trovare quel lampo di follia che avrebbe potuto dare al disco quel qualcosa in più. 7.5/10.
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Mac DeMarco – Here Comes the Cowboy
Avevamo lasciato il crooner dell’indie pop alla sua svolta intimistica e acustica con This Old Dog. Here Comes the Cowboy, a due anni di distanza, ne è la sua naturale continuazione: Mac DeMarco decide di spogliarsi quasi completamente dei lussureggianti arrangiamenti anni Ottanta e dei nervosi giri di chitarra che l’hanno accompagnato finora per consegnarci tredici brani diretti e veloci, spogli, persino abbozzati. Un album dai ritmi secchi e scanzonati, se non quasi irritanti, tra il folk e il western, che si accompagnerebbe bene a una grigliata all’aperto se il nostro non vi avesse messo del suo con dei testi personali e malinconici. Il cantautore canadese infatti sfrutta il piglio diretto del lavoro per descrivere senza alcun filtro il suo rapporto travagliato con il padre e con la propria infanzia, più in generale con la paura di dover diventare adulti, riuscendo alla perfezione nel suo intento. Perché Mac DeMarco è così: infastidisce, provoca sul palco, quasi scatena nervose risate di disagio coi video dei suoi ultimi singoli, a metà tra ironia e horror b-movie (vedere il lynchiano On The Square per credere), ma quando si tratta di pugnalare al cuore con le tastiere di Heart to Heart o il crescendo emotivo di All of Your Yesterdays o, ancora, di urlare il proprio dolore in Skyless Moon, emerge la vera classe dello scrittore pop. Quella di essere capaci di sorprendere e devastare l’animo anche solamente con una chitarra, pochi accordi sgraziati e una voce. L’inaspettato album della maturità. 7/10.
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Big Thief – U.F.O.F.
Dopo aver esordito nel 2016, nel 2019 i Big Thief sono già arrivati al loro terzo disco, U.F.O.F.. In questo breve lasso di tempo, il quartetto di stanza a Brooklyn e capeggiato dalla cantante Adrianne Lenker ha trovato la sua identità musicale in un fragile folk rock: il delicato canto della Lenker si stende sui morbidi arpeggi di chitarra acustica, occasionalmente travolti da distorsioni elettriche, sostenuto da una batteria appena accennata ma inesorabile e da lunghe e piene linee di basso. La sensazione è quella di ascoltare un disco dream pop o shoegaze, ma quasi completamente privo di tutte le sonorità elettroniche che ne contraddistinguono il suono: il risultato è quindi un disco molto più naturale, dove la dimensione aliena (l’UFO del titolo) entra a contatto con il lato umano (l’ultima F, che in questo caso sta per Friend). Certo non mancano derivazioni e pennellate ambient, ma sono comunque nettamente in secondo piano rispetto a quella che è l’economia del disco. Nonostante qualche sbavatura e i climax di tensione che non sembrano mai riuscire a esplodere del tutto, rimanendo sospesi in una sorta di sfogo composto, i Big Thief sfornano quello che è il loro migliore lavoro fino a oggi. C’è ancora margine di manovra per una band che pare aver colto i suoi punti di forza, in primis nella splendida, eterea voce sussurrata della Lenker, capace nella sua leggerezza di rubare la scena a tutto il resto. C’è chi grida già al miracolo, ma forse ancora manca un piccolo slancio per compiere il definitivo salto di qualità. Il percorso di crescita appare chiaro e ben definito: un ritorno all’acustico con poche ma ben studiate carezze digitali, in un momento in cui il pop ne è ormai saturo. 7/10.
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Liberato – LIBERATO
È il 13 febbraio 2017 quando su YouTube compare NOVE MAGGIO, primo singolo di un misterioso cantante napoletano chiamato Liberato. A distanza di più di due anni ancora non è chiaro chi si celi dietro a questo pseudonimo, ma finalmente abbiamo il primo disco, dall’omonimo titolo LIBERATO, di questo inusuale fenomeno musicale. L’album, che vuole unire la grandissima tradizione musicale partenopea con le sonorità più moderne del mondo del clubbing e del pop da classifica, è composto da dieci tracce: cinque sono quelle che, dal 2017 a oggi, Liberato ha pubblicato alla spicciolata, mentre le altre cinque sono state pubblicate inedite in contemporanea sia sul disco che su YouTube, come colonna sonora degli altrettanti episodi di CAPRI RENDEZ-VOUS, la storia d’amore fra un ragazzo dell’isola e una star del cinema francese, che si sviluppa lungo un arco di cinquant’anni. Ma dietro a tutto questo mistero si nasconde effettivamente qualcosa di rilevante o è solo hype dovuto dall’anonimato del progetto? Almeno all’inizio, il fascino dell’anonimato ha sicuramente fatto da traino ai brani di Liberato, curatissimi e freschissimi in un mix fra dialettalismo neomelodico e americanismi dai richiami hip-hop, ma alla lunga la formula, per quanto originale, tende a ristagnare. In particolare i cinque inediti, se slegati dai meravigliosi videoclip girati da Francesco Lettieri, finiscono col perdere consistenza. Rimane in ogni caso un progetto godibile e da tenere d’occhio, non solo per la curiosità relativa alla vera identità di Liberato ma anche per questa rivisitazione pop che attinge a tutto il mondo musicale napoletano. L’hype sta cominciando a scemare, vediamo cosa sarà in grado di fare Liberato per rilanciarsi prima che il suo stile diventi stantio e ci si ritrovi bloccato dentro. 6/10.
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Fast Animals And Slow Kids – Animali notturni
Esordio in major (Warner Music Italia) con la firma di Matteo Cantaluppi, uno dei tecnici più famosi dell’indie nostrano (sua la mano dietro gli ultimi lavori di Thegiornalisti, Bugo, Ex-Otago) per il quinto lavoro dei FASK, band di Perugia tra le realtà più affermate della scena power pop e alternative italiana. La voglia di cambiamento e di una nuova fase stilistica, dopo quello che è stato considerato dalla critica l’album della maturità (Forse non è la felicità, Woodworm 2017), è enorme e già anticipata dai toni ottimistici e spiazzanti del primo singolo (Non potrei mai). Il risultato finale, però, delude: i caustici ritmi dei precedenti lavori della band perugina lasciano il passo a chitarre in secondo piano che vogliono sembrare complesse, ma finiscono col perdersi nel sottofondo in una produzione fin troppo radiofonica. In primo piano, solamente la voce e i testi di Aimone Romizi, così diretti e privi di sottotesto da strizzare forse l’occhio a un certo tipo di radio-oriented rock e talmente prepotenti in cima alle parti strumentali da non riuscire a nascondere eventuali debolezze stilistiche e rimasugli di una giovinezza che stona con l’intento dell’album. Animali notturni è un album scritto e vissuto completamente in prima persona, che presenta qualche ingenuità ma scorre compatto proprio per questo motivo. I FASK tentano il colpaccio tra una citazione un po’ troppo telefonata ai National (Cinema) e una ai Death Cab For Cutie (Un’altra ancora), ma in realtà l’album stupisce davvero solo in chiusura, con la ballad eterea Novecento. Animali Notturni è un’occasione riuscita a metà, un lavoro che soffre più di una cattiva messa a fuoco che di una scarsa qualità del materiale proposto. 5/10.
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Le recensioni di I Am Easy to Find, Here Comes the Cowboy e Animali Notturni sono state curate da Luigi Buono.