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Piccolo vademecum sul populismo. Parte seconda

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Daniel Bonfanti

Populism is sexy. Così recita l’incipit di un articolo del Guardian, che spiega come negli ultimi vent’anni il termine “populismo” abbia acquisito sempre maggior appeal all’interno del racconto della politica contemporanea. La stessa testata britannica nel corso dell’anno 1998 pubblicava circa trecento articoli contenenti questo termine: il numero è salito a mille nel 2015, a duemila nel 2016. Da un lato tutti parlano di populismo: quotidiani, riviste, tv, accademici e studiosi si danno un gran da fare per provare a definire un concetto che rimane vago, e per questo difficile da cogliere nella sua interezza. Dall’altro lato il cittadino che si informa cerca di districarsi in questa marea di definizioni, tentando di fare chiarezza intorno alla natura di un fenomeno che, forse, trova proprio in questa fumosità intrinseca la sua reale efficacia.

Clicca qui per leggere la prima parte.


Dopo aver affrontato in modo sintetico il dibattito accademico intorno al concetto di populismo nella prima parte di questo piccolo vademecum, è tempo di focalizzare l’attenzione sulle ragioni del successo dei partiti populisti in Occidente. In questa seconda parte si ragionerà intorno al lato dell’offerta politica, rimandando alla terza ed ultima parte le riflessioni sul lato della domanda.

Una delle copertine del Guardian per la serie di articoli che la testata britannica ha dedicato al nuovo populismo.

Il valore fondamentale dell’opposizione

Per affrontare il ragionamento sulle modalità attraverso le quali i nuovi partiti populisti hanno ottenuto e ottengono successo in Occidente è bene introdurre i concetti di opposizione mirata e opposizione generica: la differenza tra essi rappresenta un ottimo punto da cui partire per questa riflessione. Il populismo infatti è spesso considerato – a ragione – come una patologia della democrazia, come un’espressione del malfunzionamento del sistema democratico. Secondo Robert Dahl le pietre miliari della democrazia sono tre: il diritto di voto, la rappresentanza e, appunto, l’opposizione. Quest’ultima è fondamentale per il buon funzionamento del sistema di governo nel quale viviamo perché sviluppa una discussione tra posizione diverse, un confronto costante tra i rappresentanti eletti che supportano istanze diverse tra loro. Questa pratica che, idealmente, costituisce il cuore della democrazia, è utile quando l’opposizione è mirata, cioè quando si rivolge a politiche specifiche che sono sconvenienti alla parte che un partito rappresenta. La discussione democratica tra fazioni diverse è utile al raggiungimento di un compromesso attraverso il quale si risolve un problema evitando il conflitto. Con la crisi dei partiti di massa e l’avvento dei partiti pigliatutto però, questo tipo di opposizione è venuta meno in favore di un’opposizione generica, rivolta incondizionatamente non a politiche specifiche, bensì nei confronti della politica in generale o di altri gruppi definiti come élite. I motivi di questo cambiamento di prospettiva sono numerosi, variano a seconda del contesto nazionale, e sarebbe impossibile dedicare qui lo spazio necessario ad una riflessione sull’avvento della politica moderna (e, successivamente, postmoderna). Inoltre a questo mutamento sociale, politico ed economico hanno partecipato diversi fattori – che saranno approfonditi nella terza parte – che riguardano il rapporto tra la politica e l’opinione pubblica. L’opposizione generica è però prerogativa dei partiti populisti, che in nome dell’interesse del popolo (tutto il popolo, non il gruppo sociale che rappresentano) si oppongono a un nemico in modo incondizionato. Il risultato di questo processo è che non si sviluppa una discussione democratica funzionale alla risoluzione di un problema, bensì un’accusa generica ad un gruppo sociale o ad un’istituzione. Basti pensare all’Unione Europea, bersaglio preferito di tutti i partiti populisti occidentali, definita come «a polity without politics». L’opposizione generica, infine, può essere di due tipi: verticale, quando è rivolta ad una categoria che si colloca nella gerarchia sociale in una posizione di maggior prestigio rispetto al popolo (per dirla alla Salvini «i professoroni, burocrati, banchieri»); orizzontale quando il nemico del popolo si trova sul suo stesso piano (immigrati, omosessuali, militanti dei centri sociali, minoranze religiose). 

Manifesto della Lega – Salvini Premier.

Quando l’opposizione è generica, antagonista solo nel metodo (popolo vs nemico) e non motivata da un contenuto, quando cioè cavalca una politica del risentimento ed evita la discussione razionale, il sistema democratico entra in crisi, e cresce invece una sensazione di malessere diffuso nell’opinione pubblica. 

Il rapporto tra populismo e media

A contribuire alla creazione e alla diffusione di questo malessere nell’opinione pubblica (precondizione per il successo delle formazioni populiste) partecipano anche i media, con i quali i partiti populisti intrattengono un reciproco rapporto di convenienza. Il linguaggio sopra le righe, la personalizzazione della politica e soprattutto la logica antagonista sono infatti elementi funzionali al successo populista e anche a quello di una parte dei mass media. I leader populisti sfruttano un contesto di crisi per costruire una realtà semplificata attraverso l’opposizione tra il popolo e i suoi nemici. Affinché questo procedimento abbia successo è fondamentale che l’opinione pubblica percepisca il contesto come instabile e pericoloso per i propri interessi, e in questo la logica mediale svolge sicuramente un ruolo importante. I mass media non sono di certo l’unico fattore responsabile del successo populista, ma partecipano ad esso attraverso la creazione simbolica di un clima favorevole. La drammatizzazione di eventi personali, il taglio sensazionalistico, il riferimento ai comuni cittadini e lo smascheramento della corruzione delle élites politiche contribuiscono alla diffusione di un clima di malessere che viene sfruttato dai leader populisti. Di questo sono maggiormente responsabili stampa popolare e tabloid che, attraverso la divulgazione di soft news e ai processi descritti sopra, creano quello che è stato definito come «populismo dei media». Questo stretto rapporto è ancora più evidente se si prendono in considerazione i nuovi media e il successo dei partiti populisti negli ultimi anni. Oltre al fenomeno delle fake news, che è risultato decisivo nella vittoria di Trump e della Brexit, è evidente come la condivisione di una piattaforma comune tra leader e seguaci abbia notevolmente aiutato gli esponenti dei partiti populisti. La frammentazione dei contenuti sui social media conduce ad una doppia conseguenza, che i leader populisti sfruttano nella loro comunicazione. In primo luogo si assiste a una forte riduzione della centralità dei media giornalistici istituzionali in seguito alla comparsa di nuovi spazi di comunicazione, che seguono regole e standard differenti: in questo modo l’informazione non è più soggetta al controllo professionale e all’idea che i media abbiano una responsabilità sociale verso la democrazia. In secondo luogo i mass media tradizionali, oltre a perdere la loro centralità in merito alla diffusione delle notizie, perdono anche la loro autorità e credibilità, e vengono sempre più spesso attaccati per la loro presunta connivenza con le élites politiche e l’establishment. L’opposizione, come è evidente, è sempre generica e mai specifica: per la discussione politica lo spazio rimane limitato. È importante infatti considerare come la pratica discorsiva del populismo abbia bisogno del sistema democratico, per sfruttarne le falle e i suoi momenti di crisi in funzione dell’ottenimento del consenso.

I partiti populisti sfruttano il clima di malessere diffuso all’interno delle società contemporanee per costruire una narrazione fondata sull’opposizione generica di un popolo a differenti nemici: la discussione politica viene meno e il sistema democratico entra in crisi. I media tradizionali perdono la loro autorità e con essa anche il loro ruolo di «cani da guardia della democrazia», la condivisione di piattaforme social contribuisce alla creazione di un linguaggio comune tra leader e seguaci (si pensi ai classici «piddioti, boldrine, sinistri») che rafforza il consenso dei partiti populisti in nome di una comune avversione nei confronti del nemico. Come detto, per la discussione politica rimane poco spazio. Sono molti i fattori che hanno portato a questo momento di crisi del sistema democratico; si possono riassumere con il sopraggiungere di una generale rottura dei legami tra i partiti e l’opinione pubblica, della quale si parlerà nella prossima – e ultima – parte di questo piccolo vademecum. Le dinamiche attraverso le quali i partiti populisti hanno ottenuto successo nelle democrazie contemporanee sono molteplici, ed è impossibile affrontare una riflessione che li comprenda tutti. Per ciò che riguarda il lato dell’offerta politica, occupano sicuramente un ruolo fondamentale l’adozione di un’opposizione di tipo generico, l’abbandono della discussione politica in favore della logica antagonista popolo vs nemico e un utilizzo strumentale dei media funzionale al mero ottenimento del consenso.

La domanda sorge a questo punto spontanea: perché i partiti populisti, attraverso queste pratiche, hanno incontrato il favore degli elettori in gran parte delle democrazie occidentali? Quali sono i motivi che portano i cittadini ad abbracciare questo tipo di strategia politica? Dopo aver affrontato il dibattito intorno alla definizione del concetto di populismo e quello sulle pratiche attraverso le quali questa strategia ottiene successo, non resta dunque che analizzare i motivi per i quali, negli ultimi anni, un numero sempre maggiore di elettori vota partiti che adottano una strategia comunicativa di tipo populista. 

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Daniel Bonfanti

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