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Sememeotica, parte prima: la rivoluzione Internet

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Laura Valentini

Questo è il primo articolo di “Sememeotica: perché il meme dominerà la politica”. Un viaggio nella storia dei meme, dalla rivoluzione comunicativa di Internet al loro impatto sulla politica e sulla nostra vita. L’autrice, Laura Valentini, è laureata in Scienze della Comunicazione – curriculum politico-istituzionale all’Università di Roma Tor Vergata. La presente serie prende spunto dalla sua tesi di laurea.


Internet: se ne può legittimamente parlare come la più grande rivoluzione comunicativa del nostro secolo, a cui ne è conseguita una sociale senza precedenti. Tale mezzo di comunicazione è stato capace, nell’arco di circa sessant’anni, di accorciare in modo infinitesimale le distanze tra paesi e persone, rendere pubblico il sapere mondiale e facilitare le relazioni sociali grazie all’intuitività delle piattaforme social, Facebook in particolare. 

Ma c’è un “ma”: come tutte le realtà legate a doppio filo alla vita quotidiana dei giovani (come, per esempio, i videogiochi), anche Internet è spesso soggetto allo scherno e alla diffidenza delle generazioni più anziane, venendo quindi relegato a superfluo passatempo – e di certo i fatti di Christchurch del 15 marzo 2019 non aiutano di certo la riabilitazione del mezzo. Salvo poi diventare, nel giro di pochi anni, lo stesso passatempo inutile di quelle generazioni: le quali, trattando le bacheche dei loro social network preferiti come semplici conversazioni tra amici, contribuiscono a riempire la Rete di fake news e collage della buonanotte dal dubbio gusto. 

Come salvare quindi Internet da questo scempio? Basta comprendere appieno le sue potenzialità a livello sociale, di scambio di idee e soprattutto di generazione di opinioni. Lo faremo partendo dalla sua unità minima, il memesottovalutata e derisa dal grande pubblico più per incomprensione che per ignoranza. Realtà che, nonostante ciò, negli ultimi tempi è stata capace di far parlare di sé e di modificare l’andamento della vita fuori dal Web, soprattutto in politica, cambiandone il linguaggio e il modo di rapportarsi con il pubblico. 

La domanda di partenza di questa nostra digressione è quindi: il meme, un codice comunicativo semplice nella sua struttura ma potente nella sua efficacia, sta effettivamente dando vita ad una rivoluzione comunicativa e sociale a livello globale, specialmente dopo le elezioni presidenziali americane del 2016-2017 (in cui ha occupato un ruolo di primo piano nella vittoria di Donald Trump)? La manipolazione corretta di tale codice è davvero appannaggio di pochi “eletti”? E questi pochi eletti possono essere definiti una nuova élite sociale e politica in uno scenario in continuo cambiamento? 

Per sapere la risposta è necessario partire dalla storia della Rete e delle piattaforme social nate e morte nel tempo. Tale preambolo è fondamentale per spiegare la nascita e diffusione di quello che è possibile considerare a tutti gli effetti il linguaggio di Internet, meme, ovvero unità ipertestuali veicoli di significato e soggette ad una condivisione virale, le quali possiedono delle peculiarità di uso e consumo del tutto proprie, e di cui è possibile tracciare anche una breve storia di come siano passate da un linguaggio riservato a nicchie ristrette di utenti al paradigma comunicativo di Internet per eccellenza, usato persino per campagne di marketing invasive e massicce.

Essendo questo un linguaggio molto duttile, viene da sé pensare che possa adattarsi perfettamente anche in un campo rigido, formale e cerimonioso come quello della politica: esiste un sottogenere di tale codice, che indichiamo come Meme Politico, capace di veicolare messaggi satirici, propagandistici o addirittura di rievocare fatti storici; il tutto in nome dell’ironia che da sempre governa questo codice e della cultura che ha contribuito alla sua nascita e propagazione, ovvero la Chan Culture, imperniata sui concetti di anonimità e trolling. Tale cultura ha inoltre contribuito alla nascita di nuove fazioni politiche, di cui l’Alt-Right può essere definito un esempio paradigmatico, le quali si caratterizzano per l’indole violenta dei loro esponenti e per l’uso dei meme come veicolo di propaganda politica.

Tale ultimo fatto è stato il motore di un periodo noto come “Great Meme War”, ovvero quello a cavallo tra la seconda metà del 2014 e la fine del 2016 in cui l’Alt-Right si è resa nota agli ambienti politici mainstream per aver favorito l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca attraverso metodi scorretti di blackmailing online e diffusione di meme propagandistici monotematici, i quali si sono poi rivelati concretamente capaci di pilotare l’opinione pubblica online e di ribaltare quindi un risultato che dava per favorita la candidata democratica Hillary Clinton.

Sì, ma quale opinione pubblica, e solo online? La domanda di primo acchito può apparire banale, ma proseguendo nel viaggio si scoprirà come esistano più tipi di opinione pubblica, governati da canali informativi, codici e modelli comunicativi precisi, facenti capo a delle élite sociali determinate le quali si occupano di veicolare pensieri, stimolare la riflessione e pilotare –a volte– le idee del pubblico. E la realtà dei meme non sarà certo da meno in questo gioco del monopolio delle menti, dimostrando che sia stata tanto potente negli ultimi tempi da generare intorno a sé un tipo particolare di opinione pubblica ed élite che si riveleranno particolarmente “illuminate” nel loro modo di instillare le idee nel pubblico di riferimento. 

Rivoluzione Internet, una breve storia

Internet, quindi: come molte tecnologie ad uso globale, la sua prima forma trae origini da un progetto militare concepito durante la Guerra Fredda. Ci troviamo precisamente nel 1960, anno in cui dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti nasce la DARPADefense Advanced Research Projects Agency–, branca deputata allo sviluppo di nuove tecnologie ad uso bellico concepita immediatamente in risposta al lancio dello Sputnik avvenuto nel 1958. Il suo scopo era quello di creare una rete comunicativa sicura, capace di veicolare informazioni senza le problematiche di intercettazione e di interferenza collegate alle reti di telecomunicazioni già presenti in circolazione (radio, telefono, telegrafo) e in grado di resistere persino agli attacchi nucleari. Un programma dall’aspetto fantascientifico di cui si ha attuazione nel 1967, l’anno in cui si tenne il primo Association for Computer Machinery Symposium on Operating System Principles, di Gatlinburg (Tennessee), passato alla storia come la prima conferenza internazionale su Arpanet.

Gli argomenti di discussione della conferenza (trasporto di informazioni su base pacchetto, uso di router per l’instradamento dei dati e protocolli di rete) vennero realizzate poi nel 1969. La DARPA appaltò alla Bolt Beranek and Newman (BBN) Technologies il contratto per lo sviluppo di un protocollo di rete universale basato sulle carte seminariali firmate da Lawrence Roberts, il primo che propose la creazione del sistema di Packet Switching. Questo, chiamato BBN 1822 o Host-IMP Protocol, prevedeva un campo dati, un indirizzo numerico riferito all’host di destinazione e il tipo di messaggio inviato, e venne supportato dal collegamento tramite IMP (Interface Message Processor), computer che esercitava le funzioni di connessione, instradamento dei dati, controllo degli errori ed eventuale ritrasmissione. Un router dei giorni nostri, insomma.

Rappresentazione grafica di un pacchetto Host-Imp.

La costruzione fisica di Arpanet avvenne con la messa in funzione degli IMP di prima generazione: dei minicomputer Honeywell DDP-516, i quali potevano comunicare con altri 6 IMP attraverso la linea telefonica e connettere alla rete 4 host. Al progetto aderirono inizialmente 4 istituti di ricerca: le sedi di Los Angeles e di Santa Barbara della University of California (UCLA e UCSB), lo Stanford Research Institute e la University of Utah. Il 29 ottobre 1969 venne mandato un primo messaggio di login dall’UCLA allo Stanford Research Institute; per la fine dell’anno l’intera rete fu stabilizzata e dichiarata pienamente funzionante. Arpanet era appena nato, e si sarebbe continuato ad evolvere da allora fino ad oggi, soprattutto grazie all’impegno profuso dai ricercatori e ingegneri coinvolti nel progetto.

Mappa dei primi 4 nodi di Arpanet.
Schema di funzionamento del network.

Da Arpanet a Internet

Nel 1971 Ray Tomlinson, programmatore in BBN, mise a punto un sistema per l’invio di messaggi di testo in un network distribuito, poi perfezionato dai sistemi esistenti grazie all’aggiunta del simbolo “@” e alla convenzione “utente@host” per l’invio dei messaggi. Così nacque il sistema di posta elettronica/e-mail, che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il modo di comunicare. Arpanet nel frattempo ampliò il suo raggio d’azione, arrivando a connettere quindici nodi e nel 1973, tramite il NORSAR, riuscì ad oltrepassare per la prima volta l’Oceano Atlantico, arrivando nel Regno Unito. Nello stesso anno, nella sede della XEROX a Palo Alto, Bob Metcalfe e David Boggs misero a punto la prima rete sperimentale basata su tecnologia Ethernet, oggi standard. 

Con questi ultimi sviluppi alle porte, Arpanet necessitava di un grande aggiornamento capace di migliorarne la sicurezza e la velocità di funzionamento. In risposta a questa esigenza, nel 1974 Vinton Cerf e Robert E. Kahn presentarono un programma di controllo della trasmissione di pacchetto capace di migliorare sia il processo trasmissivo delle singole unità sia il controllo degli errori a livello di host. Quello che ne nacque fu il TCPTransmission Control Protocol–, alla base dell’intera architettura Internet per come la conosciamo oggi.

Nel 1978 il TCP si divise in TCP e IPInter-networking Protocol–, definendo ulteriormente le funzioni dei due protocolli: il primo provvede a gestire il flusso di informazione tra i due nodi, il secondo si occupa dell’instradamento fra i gateway (funzione di routing). Dall’adozione del modello TCP/IP comincia il progressivo declino di Arpanet e del suo scopo originario: nel 1983 infatti il network si divise, dando vita a MILNET, rete destinata al traffico di informazioni interno al Dipartimento della Difesa e gestita dalla BBN. Nello stesso anno decadde l’uso degli IMP, in favore della creazione di nuovi minicomputer capaci di gestire contemporaneamente il funzionamento di più protocolli di rete 

Nel 1986, per volere della National Science Foundation, nacque NSFNET, rete creata per supportare le attività di ricerca dell’ente stesso che ai tempi costituiva una delle dorsali (backbones) principali di Internet. Essa constava di supercomputer che fungevano da supporto, ed era capace di trasmettere dati alla stratosferica velocità di 56K, aumentati a 1.544 Mbit/s nel 1988. In quell’anno anche l’Europa si collegò al network, tramite una rete satellitare a bassa velocità operante tra Princeton e Stoccolma; l’Italia si collegherà nell’anno successivo. Nel 1990 morì definitivamente il progetto Arpanet, insieme a NSFNET, a causa della commercializzazione di Internet su larga scala: infatti nello stesso anno nacque world.std.com, il primo Internet Service Provider (ISP), azienda deputata all’offerta di accesso alla rete ai privati dietro contratto. Questi organi provvidero a rimpiazzare NSFNET con altre dorsali connesse fra loro nelle varie parti del mondo, tramite altri ISP in via di costituzione.

Rivoluzione WWW

È in questo periodo che spicca la figura di Tim Berners-Lee, ai tempi consulente informatico per il CERN e considerato uno dei pilastri fondativi dell’intero Web. Fu lui a proporre, spinto dalla necessità di trovare una soluzione per la perdita di informazioni all’interno dell’istituto, un sistema di conservazione e visualizzazione di dati, che lui chiamò “ipertestuali”, su schermo. Tale termine, coniato da Ted Nelson negli anni Cinquanta, racchiude in sé due definizioni: quella che vede l’ipertesto come un insieme di informazioni leggibili dall’uomo collegate in modo non vincolato, e quella che lo vede come un documento multimediale che contiene in sé immagini, testi e video. Nacquero quindi nel 1991, grazie all’impegno di Berners-Lee, il linguaggio HTMLHyperText Markup Language–, per la formattazione dei documenti ipertestuali, e l’HTTPHyperText Transfer Protocol–, per il rendering grafico degli stessi: il risultato del lavoro di Berners-Lee fu TheProject.html, la prima pagina del Web 1.0 o World Wide Web. L’idea alla base dell’intuizione del ricercatore era quella di un software capace di condividere i documenti elettronici in maniera indipendente rispetto all’hardware utilizzato, allo scopo di migliorare comunicazione e cooperazione tra i ricercatori dell’istituto. 

Homepage di TheProject.

L’impatto di tale intuizione fu devastante e cambiò radicalmente il modo di fruire la rete: infatti le principali caratteristiche del WWW includono accessibilità, facilità di utilizzo, interattività e dinamicità, cose che contribuirono enormemente alla diffusione in larga scala del mezzo e a renderlo non più appannaggio dei soli programmatori o di pochi nerd invasati. Nel 1993 venne rilasciato Mosaic, primo web browser leggero e completamente user-friendly, e nel 1995 la Sun Microsystems lanciò Java, piattaforma di programmazione sulla cui sintassi poggia JavaScript, linguaggio nucleo delle applicazioni Web e fondamentale per garantirne il carattere interattivo. Nel 1994 nacque poi il World Wide Web Consortium (W3C), che si occupa di apportare costanti migliorie allo standard HTML e di ridefinirne le specifiche andando di pari passo con il progresso tecnologico. 

Non solo Web 2.0

Internet era ormai entrato di prepotenza nelle case di tutti, permettendo a chiunque ne avesse la necessità di accedere a migliaia di informazioni con un semplice click nei collegamenti ipertestuali, dando la sensazione di sfogliare un’enorme enciclopedia. Ma lì si fermava: infatti la natura delle pagine web di quel periodo non prevedeva interazione fra utente e contenuto, e per una rete che in potenza era capace di facilitare le comunicazioni tra persone dislocate in tutto il pianeta questo costituiva un enorme limite. La reazione dei programmatori non si fece certo attendere: implementarono la possibilità di inserire dei commenti sotto una pagina e crearono un nuovo linguaggio di programmazione multipiattaforma (PHP), grazie a cui nacquero i primi forum e siti di blogging; questa fu la fase del Web 1.5, preparatoria a quelle rivoluzioni che stravolsero il Web mostrandolo per come è adesso: i social media e il mobile.

Passando dai primi telefoni cellulari, grandi quanto citofoni, a dei supercomputer formato tascabile, le persone sentivano il bisogno di un’interazione sempre più costante e penetrante, e il Web non poté che adattarsi alla tendenza. Con la nascita dei wiki, dei nuovi social media, con il boom dell’e-commerce e la crescita delle piattaforme di blog, si passa alla fase attuale del Web 2.0, caratterizzata da un’interazione di tipo paritario e dualistico: gli utenti sono tanto fruitori quanto creatori dei contenuti, e possono dialogare in tempo reale con i loro pari. Il processo risulta ulteriormente facilitato dalle reti ADSL a banda larga, a cui si affiancano le nuove connessioni in fibra ottica capaci di veicolare una quantità di informazioni pari a 1 Gbit/s.

Attualmente si discute sull’eventuale passaggio al Web 3.0, soprattutto con il recente boom della ricerca nel campo delle reti neurali e dell’intelligenza artificiale. Infatti, secondo l’Enciclopedia Treccani

«I servizi web di terza generazione si focalizzano su un punto essenziale, l’intelligenza artificiale applicata alle risorse del web. Il cosiddetto web semantico, grazie al quale sistemi automatici potranno interagire con l’uomo in maniera evoluta, avrebbe il beneficio di sfruttare un enorme bacino sia di dati sia di utenti, e quindi costruire archivi giganteschi in cui conservare informazioni semplici e strutturate, ed estrarle per comunicare con l’uomo».

Insomma, se è fatta tanta di strada in poco tempo, e l’impressione che risulta dagli ultimi sviluppi è che se ne farà ancora. 


Parte seconda >>>

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Laura Valentini

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