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Spettacolo

Dolore e gloria: dissezione di una crisi

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Anastasia Piperno

Pedro Almodóvar è tornato all’appena conclusa 72ª edizione del Festival di Cannes e nei cinema italiani con il suo nuovo film: Dolore e gloria. Andava a passo stanco, claudicante nei lavori più recenti, con il flop di critica ad esempio di Gli amanti passeggeri (2013), ma con quest’ultima sua opera cambia rotta, si apre e si sonda intimamente usando l’alter-ego Antonio Banderas, premiato al festival francese come miglior attore. Banderas interpreta il regista Salvador Mallo, un uomo di mezza età, “affetto” da un blocco artistico profondamente legato al suo stato psico-fisico. Mallo è assediato da una serie di dolori e problemi di salute, che diventano causa e in parte anche somatizzazione di un male più oscuro, depressivo. Almodóvar si confessa allo spettatore, si conduce nel profondo del suo io più morbido e sentimentale, passionale, attraverso una rievocazione della propria infanzia e del proprio passato amoroso, in modo da affrontare meglio il presente e rigenerarsi.

Corpo sensibile, cuore sensibile e sincero

Il filo meta-cinematografico è di lunga esistenza nella filmografia almodovoriana: sin dagli esordi ha sempre integrato nei propri film un’esplicita chiarificazione del loro essere tali, dell’essere cioè finzionali. Le sue scenografie includono sempre poster di riferimento ad altri film, con costante riferimento in particolare alla Hollywood classica; vari sono stati i personaggi registi, diverse volte la sua macchina da presa filma un set, moltiplicando dunque i piani, facendo cinema su chi fa cinema. Più che una riflessione intellettuale, cerebrale come un Godard, di critica sul cinema per immagini, Almodóvar spesso ha fatto ricorso invece al versante più sentito, personale del suo io cinefilo che segue una strada amata, ci gioca con vivacità e la ripropone. Tanto battuto è stato il sentiero del mélo hollywoodiano, che rielaborò e portò già nella sua Spagna post-franchista degli anni ‘80, pronta a esplodere in colori, liberazioni sessuali, atteggiamento punk dai territori underground. Diventa celebre per storie di sregolatezza e per uno stile di umore vigoroso sia nella risata che nel pianto, con la voglia di calcare la mano, di osare con il grottesco, di arrampicarsi in strane e buffe vicende con i tipi umani più curiosi (ad esempio la suora lesbica e tossicodipendente di Il fascino indiscreto del peccato). Il mélo è la passione amorosa e travagliata, di cui divenivano soggetti tutto un gruppo caro al regista, cioè quello lgbt, ma non solo. Si andava dal queer fino al territorio più comune e delle casalinghe di Che ho fatto per meritare questo? o Donne sull’orlo di una crisi di nervi, dove i toni caricati, drammatizzati e spettacolarizzati della Hollywood, resi dunque materiale appetibile da film e quindi non propriamente di realismo piano, venivano rappresentanti anche dalla autoironica Spagna almodovariana, in bilico tra caratteri viscerali nazionali e debiti, rielaborazioni giocose dall’estero. Non manca la meta-cinematografia, come accennato, neanche in Dolore e gloria, ma questa volta quello da raccontare è uno stallo, il peso sulle spalle degli anni e di tutti gli acciacchi che si porta, il prosciugamento portato dalla depressione, allora cambiano i riferimenti. Almodóvar pensa a 8 ½ di Fellini, che fa intravedere ancora tramite il dettaglio di un poster, raccogliendo anch’esso importanti affetti che lo conducano per mano fuori dal giro in tondo di un vuoto artistico, personale, splendendo nel potere di un amarcord, della ricerca di volti amati e che hanno amato, anche se l’amore talvolta è stato insufficiente per salvare o per capirsi davvero, per trovare un ottimale rapporto tra madre e figlio ad esempio.

A sinistra Alberto (Asier Etxeandia) e a destra Salvador (Antonio Banderas). Foto: tgcom24.mediaset.it

Come per il rapporto lungo Fellini-Mastroianni di 8 ½, che trova una sua rappresentanza di omaggio, di fiducia negli anni, così è anche il rapporto Banderas-Almodóvar. L’attore deve molto al regista, deve un percorso di insegnamento della sua disciplina, di crescita, di arricchimento artistico. Dolore e gloria non manca di riflettere sul rapporto regista-attore anche nel tessuto narrativo, nel rincontro di Salvador con l’attore Alberto, protagonista di un suo film di gioventù, Sabor, diventato ormai di culto. Il film, restaurato dalla cineteca di Madrid e dunque fatto occasione di una riproiezione per gli appassionati, con il regista e l’attore in sala, diventa occasione per i due di dover rivedersi e riconfrontarsi, specialmente per il cineasta che l’aveva rifuggito e rinnegato fino ad allora, non riuscendo a farsi piacere il risultato di Sabor e della sua interpretazione. Attraverso Banderas e Alberto si celebra anche la potenza dell’arte attoriale di dare vita al mondo di un regista, alla viva geografia della sua anima, sapendo interpretarne le corde più vibranti, che siano quelle di un vissuto d’infanzia o, come nel caso di Banderas, di caricarsi del più recente stato debole e malato del proprio cineasta mentore, aiutandolo a riflettersi. Banderas veste letteralmente gli abiti del regista, si circonda dei suoi oggetti domestici, attua il transfer.
Si infittiscono anche i legami con altre arti, dalla letteratura al teatro, dove quest’ultima è la sede privilegiata del più puro potere attoriale e da sempre in connessione con il dare voce a testi scritti. E Salvador «scrive per dimenticare il contenuto di ciò che è scritto», per espellere un nodo doloroso, per esorcizzare, come fa attraverso testi che mantiene segreti e come fa Almodóvar attraverso Dolore e gloria, tentando di esorcizzare un dolore invasivo e paralizzante attraverso il rovistare dell’arte nel cuore, nel fondo del problema per estrometterlo nello schermo, nelle sue immagini più significative per la propria sensibilità, e guarire. Almodóvar conferma dunque il suo cinema sempre più sincero, che ha saputo conquistare un così vasto pubblico, rendendolo l’autore cinematografico spagnolo più popolare. Quest’ultima è un’opera che è fatto eminentemente per sé, e che ricorda recenti esperimenti auto-referenziali come La casa di Jack di von Trier o L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam. Pare un periodo ricco di grandi, storici autori che fanno il punto della situazione, che raccolgono il sentore di un momento o di un’intera vita, un’epoca che li ha profondamente segnati. Il cinema è la vita di Almodóvar, una vita vissuta sul set ma anche tra i film, ed è anche il dolore di non poterlo più fare nelle condizioni favorevoli, l’impasse del corpo che si ribella all’estro creativo e lo frena, lo trascina fuori. In questo arenamento, nella resa, nel nascondiglio il peso della gloria si fa sentire. La gloria è un Sabor rifiutato eppure ripescato dal suo stesso pubblico, la richiesta pacificazione con il proprio percorso artistico e con qualche fallimento (pure se non fosse rivalutato), è l’attesa, la speranza degli spettatori di poter rivedere l’amato regista al suo meglio, in azione. La voglia inibitrice è la fuga nell’anonimato nonostante un pezzo scritto all’insaputa di altri al PC, è l’autopsia artistica privata e che tuttavia va condivisa con il mondo per il proprio valore.

Foto: tpi.it

Nel fulcro di questo problema c’è un Salvador con la voglia di un “rintanamento uterino”, che ben si spiega sin dalla prima scena: sospeso nell’acqua di una piscina come in un ovattato ventre materno. Non a caso la scenografia della sua vita familiare e infantile è in una grotta, con un mitico senso di protezione, e non a caso viene richiamata a lavorare con Almodóvar Penelope Cruz, figura ormai rappresentante di una concezione del materno attraverso il ricordo. Il suo è un altro volver (per citare l’omonimo film), cioè un tornare, la rievocazione di una femminilità del passato, fino a ricordare ancora una volta il cinema neorealista. Come in Volver compariva Anna Magnani, simbolo femminile iconico e silenziosamente accostato alla Cruz, qui si vede ancora quest’attrice prediletta in un contesto d’altri tempi, di madri che lavano il bucato cantando in un paesaggio rurale che può essere accostato di nuovo alla sopracitata corrente italiana. D’altronde Almodóvar fu cantore delle donne della sua contemporaneità nel cinema più giovanile, mentre nei tempi dell’età più avanzata si è man mano fatto cantore delle donne del suo passato, corpi densi e viscerali da conservare e ripercorrere nel suo cinema come aprendo uno scrigno di fantasmi di potente eco, da cui non è possibile staccarsi. Ed è impossibile a questo livello scindere tra un cinema biografico vero nei fatti e un’aggiustamento, una stilizzazione e colorazione romanzata, ma è nella viva dinamica tra i due che si esprime Dolore e gloria. In qualche modo anzi imparare a scrivere, per il piccolo Salvador, significa imparare a scrivere “madre”, alludendo sia alla Spagna («santa, cattolica e apostolica»), sia alla propria genitrice, al fatto che se l’espressione, la scrittura è scrittura dell’affetto, il primo raccontarsi non può che essere all’ombra delle grotte materne.

Foto: esquire.com

La rievocazione però avviene specificamente attraverso il corpo e la percezione sensoriale in un processo sinestetico. Conservando il disordine degli inizi, Salvador per calmare il proprio corpo agonizzante ha bisogno di andare oltre i vari farmaci anestetici e prova per la prima volta l’eroina, ed è lo sballo a scatenare i vari tuffi nel passato, in sé stesso, nelle zone più calorose e accoglienti, commoventi. Il corpo si fa traghettatore da un limbo grigio della propria situazione a un altro, il mondo sospeso del ricordo, che dà una tregua. Il cineasta spagnolo ha sempre avuto cara la tematica del corpo: ha indagato il corpo come espressione di sessualità, di sessualità non allineata con i dogmi, di passioni, di modi di essere, di trasformazioni, da travestiti e trans (come in Tutto su mia madre). Qui il corpo è un mezzo di conoscenza nel tempo: è attraverso il corpo che avviene un percorso di istruzione, dove è mancato nei luoghi delle istituzioni – mentre è la vita da cineasta che dà nozioni di geografia –, lo fa specialmente attraverso il dolore, che rende sensibili parti del corpo altrimenti ignorate, facendo scoprire l’anatomia umana. Almodóvar illustra questo attraverso una simpatica sequenza animata con la collaborazione di Juan Gatti. Il corpo qui allora è qualcosa di cui liberarsi, da cui fuggire, è lo stesso ostacolo al cinema, è la spia di un avvicinamento sempre più stringente con la morte. Tuttavia proprio i passi più importanti del percorso di Salvador in Dolore e gloria causano modificazioni ed effetti sul corpo, poiché esso è sede sia di pena che di gioia, è inscindibilmente legato alla persona. La catarsi si scarica su di esso, la gioia si scarica nel sorriso, la lacrima è dolore e intima gloria.

Inutile parlare di un’opera-testamento, di una possibile e dignitosa chiusa finale di una storica carriera, tuttavia è di certo la testimonianza di un riassestamento, la registrazione di un autore che tanto ha riversato nel legame cinema-vita e che ora ha raccontato il suo vissuto attuale, la fase della vecchiaia, facendolo ancora a cuore aperto, anzi, dissezionato.

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Anastasia Piperno

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