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Galeotto fu un piatto di pasta: il reato di peculato

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Michele Corato

Il titolo di questo articolo, volutamente ironico, fa riferimento ad alcune esternazioni avvenute in questi giorni da parte di varie personalità pubbliche in riferimento alle sentenze emesse in conclusione del procedimento di primo grado contro i 22 imputati delle cosiddette “spese pazze” della regione Liguria che hanno portato, complessivamente, a 19 condanne e 3 assoluzioni. Si è detto, in particolare riferimento al viceministro Edoardo Rixi (Lega), che, pur nel rispetto dei giudici, una condanna di tre anni e cinque mesi “per un piatto di pasta” appare esagerata, soprattutto se in raffronto ad altri reati la cui conclusione del processo porta a una pena detentiva minore come, ad esempio, alcuni casi di spaccio di lieve entità o di furti. Un simile discorso potrebbe, anzi, dovrebbe essere condivisibile se il reato contestato fosse, appunto, di lieve entità e non quello di peculato. Nel sistema legislativo italiano, infatti, la pena ha una funzione principalmente rieducativa e la sua determinazione in concreto è rimandata al giudice rispetto a dei minimi e massimi edittali che, invece, sono stati previsti dal legislatore. Tale sistema risponde alla necessità di poter prevedere e punire in maniera differente diverse forme dello stesso reato che, nella concretezza del caso reale, si discosteranno sempre per un motivo o per l’altro rispetto alla fattispecie tipica prevista dal codice penale. Inoltre, è importante comprendere che le pene, così come stabilite dal codice penale, siano esse pecuniarie o di tipo detentivo, corrispondono al grado di lesione posto in essere dal reo nei confronti del bene giuridico tutelato dal singolo precetto penale. Tanto detto, dunque, tornando al discorso iniziale, occorre comprendere che reato sia il peculato e perché la pena possa apparire, ai più, particolarmente pesante.

Il reato di peculato

Il reato in esame trova collocazione sistematica all’articolo 314 del codice penale e, nel dettaglio, è un reato contro la Pubblica Amministrazione che rappresenta, in riferimento a quanto poc’anzi detto, il bene giuridico tutelato dalla norma. Questi particolari reati sono spesso oggetto di profonde innovazioni e cambiamenti a opera del Governo di turno – cosa, questa, avvenuta anche per il peculato – il cui tentativo è principalmente quello di reprimere tali diffuse condotte. L’articolo 314, infatti, è stato toccato dalla grande riforma ad opera della Legge n. 86 del 1990, incentrata sui delitti contro la Pubblica Amministrazione. In questa sede è stata rimossa la possibilità di integrare il reato anche per semplice distrazione del bene, ossia destinandolo a scopi diversi rispetto a quelli previsti dalla Pubblica Amministrazione. Vi è poi stato l’intervento della cosiddetta “Legge Severino” del 2012, diretta alla repressione di tutte le forme di corruzione in Italia che, in un aumento generalizzato delle pene dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, ha previsto l’aumento di un anno nel minimo edittale della pena per il reato in analisi. Un’ulteriore riforma è quella operata dalla Legge 69 del 2015 che, pur non intervenendo direttamente sul peculato se non con un aumento di 6 mesi sull’edittale massimo della pena, introduce con l’art. 322-quater l’obbligo per il reo di corrispondere una somma a titolo di restituzione di quanto indebitamente percepito.
Tanto premesso, è possibile definire il peculato come un reato proprio in quanto può essere commesso unicamente dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico  servizio che, avendo per ragioni d’ufficio la disponibilità di denaro o di altri beni altrui, se ne appropria. Il reato appena descritto è classificato pacificamente come plurioffensivo con riferimento al bene giuridico leso dalle condotte di chi lo pone in essere aggredendo, da un lato, il patrimonio della Pubblica Amministrazione e, dall’altro, l’imparzialità, il prestigio e il buon nome della stessa. In forza di tale assunto potrà essere punibile anche quel soggetto che pone in essere il reato senza provocare un’effettiva lesione patrimoniale ma, unicamente, ledendo i principi che sorreggono il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Basterebbe, dunque, tale rapida descrizione per capire come la norma di per sé non sia equiparabile a un “semplice” furto perché mira, in primo luogo, a preservare il buon andamento ed il prestigio di un bene superiore: quello pubblico.
La pena prevista, in queste ipotesi, è quella detentiva, che si concretizza con la reclusione da un minimo di quattro a un massimo di dieci anni a cui, come in tutti i reati commessi nei confronti della Pubblica Amministrazione, deve sommarsi la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che può essere temporanea o permanente a seconda che la pena detentiva sia inferiore o superiore ai tre anni. Particolarmente interessante, anche se non riconnesso al caso in esame, è il secondo comma dello stesso articolo che prevede la differente ipotesi di quello che viene definito “peculato d’uso”, introdotto solamente in seguito alla riforma del 1990. La distinzione, qui, sta nell’animo dell’agente: mentre nella classica forma del peculato questi vuole appropriarsi del bene detenuto in ragione del suo ufficio, nel peculato d’uso l’appropriazione è temporanea o, per meglio dire, è accompagnata dalla volontà di restituire il bene. Costituisce un classico esempio della condotta delittuosa appena descritta, punita in maniera ridotta rispetto al peculato “classico”, l’utilizzo del telefono d’ufficio o dell’autovettura di servizio per fini personali. Proprio in questa ipotesi possiamo osservare come l’offesa al bene pubblico si concretizzi anche nell’assenza di una diminuzione patrimoniale.

 

 

Il caso Rixi

Ora che appare più chiaro il contesto normativo di riferimento, ossia il tipo e la natura del reato contestato, la pena prevista nonché il fondamento giuridico della norma stessa, si rende necessario ripercorrere la vicenda che in questi giorni ha fatto discutere la maggioranza di Governo. I fatti che, tra gli altri, hanno coinvolto il sottosegretario al ministero delle infrastrutture e dei trasporti Edoardo Rixi risalgono al periodo tra il 2010 e il 2012 anche se, trattandosi di rendiconti annuali, ai fini della consumazione del reato deve includersi anche l’anno in cui questa è stata effettuata, il 2013, con pacifica applicabilità delle pene maggiori previste dalla Legge Severino. Secondo l’accusa, nel periodo in esame, diversi consiglieri della Regione Liguria si sarebbero fatti rimborsare con soldi pubblici, facendole passare come istituzionali, le spese più disparate quali viaggi, cene, gratta e vinci e, addirittura, spese fatte da altri soggetti di cui gli imputati si sarebbero limitati a raccogliere le ricevute e presentarle come loro. Ciò ha portato il giudice di primo grado alla sentenza di condanna nei confronti di Rixi, che si sarebbe occupato di gestire i rimborsi regionali dedicati al gruppo della Lega tralasciando, però, di vagliare se tali richieste fossero o meno giustificate. La condanna complessiva a tre anni e cinque mesi, superiore di un mese a quanto richiesto dal Pubblico Ministero, è accompagnata dall’interdizione dai pubblici uffici e dalla confisca, sempre nei confronti di Rixi, della somma di 56.807,00 euro.
Conseguenza diretta e preannunciata, oltre all’ovvio ricorso in appello dell’interessato, la presentazione delle dimissioni dal proprio ruolo, prontamente accettate dal Ministro Salvini che, tuttavia, l’ha contestualmente nominato responsabile nazionale per i trasporti e infrastrutture della Lega. Un gesto, questo, diretto principalmente a rimarcare la fiducia del Ministro in Rixi e la speranza, o meglio, la convinzione dello stesso in un’assoluzione nei prossimi gradi di giudizio. Le condanne pronunciate, comunque, sono in tutto diciannove, fra consiglieri ed ex consiglieri della Regione e rientrano nel filone di indagini denominato, a suo tempo, delle “spese pazze” che ha portato solamente tre assoluzioni fra i 22 imputati.

Come già detto, al di là del fatto di cronaca e delle ripercussioni politiche che lo stesso ha rischiato di riverberare sull’attuale maggioranza di governo, hanno fatto discutere le reazioni alla notizia da parte di diversi esponenti di partito ma anche, nel loro piccolo, di utenti e militanti intenti ad anteporre il colore politico della notizia rispetto al reato contestato. Seppur fosse presumibile un pieno appoggio al viceministro dei trasporti da parte del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, nonché dal sindaco di Genova Marco Bucci, un po’ fuori luogo è apparso l’attacco non tanto ai giudici ma, piuttosto, alla condanna, definita più volte come “esagerata”. Tuttavia, buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione sono valori di rango costituzionale e ciò in forza dell’articolo 97 della Costituzione, a livello nazionale, e all’articolo 41 della Carta di Nizza a livello sovranazionale. Un’offesa a tale bene giuridico, quindi, può comportare danni di immagine particolarmente rilevanti. Basti pensare che il cittadino fa affidamento al buon funzionamento dello Stato sotto ogni aspetto e, in primo luogo, attraverso la sua amministrazione. La diffusione di comportamenti illeciti al suo interno, allora, altro non fa che alimentare il sentimento di sfiducia dei singoli cittadini nei confronti dello Stato, rendendo il suo operato poco credibile e facendogli perdere l’immagine classica di istituzione ineluttabile. Per tutti questi motivi, dunque, appare irrealistico, se non offensivo, paragonare un reato nei confronti della Pubblica Amministrazione a un qualsiasi reato di lieve entità. Seppur a livello di impatto sociale alcune ipotesi di reato – il pensiero va in particolare ai reati verso la persona – possano apparire come più riprovevoli, occorre tener conto che la pena stabilita a livello legislativo è parametrata alla lesione del bene giuridico e non all’immagine che la collettività ha dello stesso. Un’offesa all’integrità delle istituzioni, sia essa rappresentata da ipotesi di peculato o di corruzione, appare dunque particolarmente rilevante, anche se di primo acchito può non apparire così, perché concorre alla disgregazione della figura dell’apparato statale nell’immaginario collettivo e, non da meno, costituisce una delle forme delittuose più diffuse e difficilmente arginabili in Italia.

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