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User generated content, meme e la direttiva che cambierà Internet

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Luigi Bonarrigo

La Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale è una direttiva dell’Unione europea, indicata con il codice 2016/0280 (COD), che si pone l’obiettivo di armonizzare il quadro normativo del diritto d’autore nell’ambito di internet e delle tecnologie digitali all’interno dell’UE e di aggiornare la normativa in materia, dato che, come affermato nella Comunicazione della Commissione COM (2015) 626 final, la precedente direttiva di riferimento era la Direttiva 2001/29/CE e, in soli quindici anni, «modelli commerciali sconosciuti […] e nuovi soggetti economici, come le piattaforme online, (si) sono oramai ben consolidati e oggi i servizi online costituiscono un canale comunemente utilizzato dai consumatori per accedere ai contenuti creativi».

Nel 2016 la Commissione ha diffuso una prima bozza della direttiva per la riforma del copyright in Europa. Da allora il Parlamento e il Consiglio europeo hanno elaborato e modificato il testo della normativa, con l’obiettivo di giungere a una formulazione definitiva.
La proposta è stata approvata nella Commissione giuridica del Parlamento europeo il 20 giugno 2018 e successivamente dallo stesso Parlamento, in una versione parzialmente modificata, il 12 settembre 2018: il testo della direttiva, dopo i dovuti negoziati con Consiglio e Commissione, è stata approvata dal Parlamento europeo il 26 marzo 2019. Alla votazione decisiva si sono espressi a favore 348 europarlamentari, mentre 274 hanno votato contro e 36 si sono astenuti. L’esito del voto è stato più che mai incerto: persino all’interno dei due partiti che costituiscono la maggioranza, il Partito Popolare Europeo e i Socialisti&Democratici, ci sono stati molti parlamentari contrari alla riforma.

Successivamente il testo è stato approvato dal Consiglio dell’Unione Europea il 15 aprile 2019. La direttiva europea include, tra le sue proposte, che i siti fondati principalmente sullo user generated content adottino misure “efficaci e proporzionate” per prevenire la pubblicazione non autorizzata di contenuti protetti da copyright, la possibilità per gli editori di chiedere un pagamento per l’uso di estratti di testo, gli snippet (ossia il titolo della pagina, il link, e un breve testo introduttivo che troviamo quando utilizziamo i motori di ricerca che ci permettono di sapere in anticipo i contenuti della pagina, ma anche casi come Google News, che guadagna grazie all’organizzazione delle altrui notizie e garantisce visibilità alle stesse – invero questa voce è stata parecchio ammorbidita: non bisognerà pattuire alcun compenso per “singole parole” ed “estratti molto brevi”) e le eccezioni al diritto d’autore per l’estrazione di testi e dati da parte di istituti di ricerca scientifica o istituzioni non-profit (ad esempio Wikipedia). Poiché, però, eccezioni e licenze sono stabilite non su base comunitaria ma bensì su base nazionale, gli articoli 11 e 13 si troverebbero a smentire l’obiettivo di unificazione e la ratio della direttiva, frammentando il mercato dell’UE.

La carica riformatrice della direttiva è stata molto dibattuta. Si sono trovati punti di convergenza ideologica tra oppositori e sostenitori della riforma, quali ad esempio l’introduzione di una tutela del pubblico dominio: ad oggi, il libero utilizzo di opere non coperte da copyright non è adeguatamente tutelato. Il Parlamento e il Consiglio europeo hanno inserito nella direttiva una normativa consona che consentirà che tutte le riproduzioni fedeli di opere di pubblico dominio saranno anch’esse nel pubblico dominio, il che garantisce che nulla cambi anche per le opere originali.

A fronte, però, di punti ritenuti oggettivamente positivi, la discussione politica si è concentrata principalmente su tre articoli della Direttiva: l’articolo 11 (ora art. 15) e l’articolo 13 (ora art. 17), riguardanti rispettivamente la protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale e l’utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno accesso a grandi quantità di opere e altro materiale caricati dagli utenti.

A opporsi agli articoli 11 e 13 della direttiva è stata soprattutto la comunità scientifica, ma non sono mancate le forti prese di posizione da parte di organizzazioni per i diritti civili, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), agenzie informative e istituzioni culturali . Tra i contestatori più rilevanti si può annoverare David Kaye, Relatore speciale presso le Nazioni Unite per la promozione e la protezione del diritto alla libertà di espressione e di opinione, che ha espresso serie preoccupazioni riguardo il timore che la direttiva  (e soprattutto il combinato tra l’esclusività espressa dall’articolo 11 e la richiesta di “equo compenso” prevista dal successivo articolo 12) «possa stabilire un sistema di monitoraggio attivo che censuri aprioristicamente il contenuto generato dagli utenti, contrario all’art. 19 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», che tutela  il diritto umano alla libertà di pensiero, di religione, di coscienza, di parola, di associazione, di stampa e di riunione.

Tra i dissenzienti politici alla riforma ci sono stati anche molti italiani. Brando Benifei, europarlamentare del gruppo Socialisti e Democratici, in un’intervista da parte dello storico youtuber italiano Yotobi ha affermato che «il rischio dell’attuazione della Direttiva è quello del caos. Ogni Paese potrebbe dare tempi diversi, forma di attuazione differente […], portando così sulla difensiva gli attori di internet, le piattaforme, a censurare ancora di più proprio per evitare di non essere coperti dal punto di vista del rispetto della legge rispetto a un’attuazione che rischia di essere molto caotica».

Nell’aprile del 2018, poi, 228 professori universitari di tutto il mondo hanno firmato una lettera indirizzata al Parlamento Europeo, sottolineando come la Direttiva rappresenterebbe un impedimento alla vitale libertà di informazione perché si creerebbe un “diritto all’esclusività della notizia”, per di più frammentato tra i vari Stati membri, che sarebbe proprietà di ciascun produttore di notizie e costituirebbe un freno alla libertà giornalistica. Gli accademici, sottolineando come in Germania e Spagna esista una normativa simile che non ha portato alcun beneficio alle grandi agenzie informative, hanno ritenuto anche che la proliferazione e l’atomizzazione di diversi micro-diritti renderebbe molto più costoso per i player non accreditati dalla licenza usare il contenuto informativo, dato che ogni utilizzo di una pubblicazione, anche il più piccolo, richiederebbe il consenso (previo pagamento) del proprietario del diritto. Nel giugno 2018, settanta tra studiosi e ricercatori in ambito informatico, inclusi Tim Berners-Lee (informatico britannico, inventore del World Wide Web, del primo browser web e di vari protocolli e algoritmi fondamentali per il funzionamento di internet) e Jimmy Wales (imprenditore statunitense e cofondatore di Wikipedia), hanno scritto un appello ad Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, chiedendogli di opporsi in particolare all’articolo 13 (ex art. 15), poiché «richiedendo alle piattaforme di internet un filtro automatico e preventivo dei contenuti che i loro utenti caricano, l’articolo 13 rappresenta un passo senza precedenti verso la trasformazione di internet, da piattaforma libera allo scambio e all’innovazione, in uno strumento per la sorveglianza automatizzata ed il controllo dei suoi utenti».

La Direttiva non ha attirato però solo voci critiche. L’approvazione della normativa è stata fortemente auspicata da grandi mayor musicali, società degli autori, editori, musicisti (tra cui spiccano  James Blunt, David Guetta, Ennio Morricone e Paul McCartney), autori, creatori e artisti, che ritengono che tra i principali pregi delle direttive vi sia la possibilità di far valere i propri diritti anche nei confronti delle grandi piattaforme online americane, che dipendono per i loro profitti dai contenuti caricati dagli utenti.


Risvolti della Direttiva sullo user generated content (UGC). Cos’è lo user generated content e che critiche sono rivolte all’articolo 13.

Per user generated content si intende un qualsivoglia contenuto – ad esempio: aggiunta di voci a Wikipedia, discussioni nei forum, post nei social network e tweet – creato dagli utenti di una certa piattaforma e pubblicato in internet, spesso reso fruibile tramite le piattaforme note come reti sociali. Questo fenomeno è visto come una delle più grosse novità del Web 2.0, per la sua pervicacia, la sua dimensione e per la qualità dei contenuti stessi.

Nell’ultimo decennio, i protagonisti di questa ondata di nuovi contenuti prodotti dallo stesso pubblico che poi ne fruisce sono indiscutibilmente stati i social network, con aprifila quali Facebook e Twitter, ma anche siti meno noti al pubblico mainstream italiano, come ad esempio 4chan, la più popolare imageboard di lingua inglese, con oltre settecentomila post al giorno creati da circa sette milioni di visitatori giornalieri. Fondato dall’allora studente quindicenne Christopher Poole nel 2003, 4chan ha forgiato diversi fenomeni virali, ma è impossibile non collegare il sito soprattutto agli hacker di Anonymous o alla più recente nascita del movimento dell’alt-right, la “destra alternativa”, che più volte è stata accusata di essere una culla per valori di estrema destra.
Il sito 4chan, assieme all’altro forum della stessa tipologia e suo “concorrente” Reddit, ha creato il significato moderno  e digitale di meme: una scheggia impazzita di user-generated content (abitualmente un fumetto, una scena di un film o una particolare canzone) che rimbalza all’interno della rete, mutando qualche carattere secondario ma mantenendo le caratteristiche primarie che lo rendono distinguibile.

Il fenomeno è diventato rilevantissimo: negli Stati Uniti, ad esempio, il Pentagono ha creato il Meme Warfare Center, una struttura che punta a contrastare la diffusione di notizie false. Infatti, i meme sono entrati anche nella sfera politica e sociale, tanto da essere stati considerati fortemente influenzanti nella campagna elettorale del presidente degli Stati Uniti in carica, Donald J. Trump, e da essere presi in considerazione dai nuovi candidati alla Casa Bianca come il democratico Andrew Yang.

Proprio la pervasività dello UGC nel Web 2.0 ha fatto sì che numerose fossero le critiche alla Direttiva, con particolare attenzione a cosa potrebbe succedere a colossi della rete quali sono Facebook o Youtube.
L’articolo 13, infatti, rende le piattaforme responsabili di quanto viene caricato, anche se, in linea teorica, non sembra richiedere esplicitamente alcun monitoraggio preventivo. In sostanza, per ospitare contenuti protetti dal copyright, i siti come Instagram, TikTok o Youtube dovranno stipulare un accordo con le case editrici, cinematografiche e discografiche e soddisfare le loro richieste, pena il risponderne direttamente perché la responsabilità di controllare il contenuto di tutto il materiale caricato è a carico loro.
Se, invece, non dovessero adempiere, la norma spiega che dovranno dimostrare di aver compiuto “i massimi sforzi” per riuscirci e per scongiurare ulteriori caricamenti e agire “tempestivamente” per rimuovere il materiale illecito.

Gli oppositori della direttiva affermano che proprio questo meccanismo porterà alla creazione di un sistema di filtraggio automatizzato che bloccherà tutto, a prescindere dalla normativa: sebbene, infatti, siano escluse dall’obbligo di contrattazione ed eventuale rimozione le caricature, le parodie o le citazioni (quindi anche immagini gif e meme), non si capisce come si possa insegnare a un sistema automatizzato a riconoscere caricature e parodie da una violazione sostanziale della direttiva.
Sia i detrattori sia i sostenitori hanno inoltre ritenuto troppo labili i confini descritti dalla direttiva: gli oppositori lamentano una scarsa chiarezza nel testo di legge (soprattutto per ciò che riguarda “i massimi sforzi”) che potrebbe, a dir loro, influenzare la corretta applicazione della norma.

Youtube si è fatto capofila della protesta in merito all’articolo 13. Fino ad ora, la piattaforma applicava un controllo che spettava ai titolari del diritto d’autore mentre, con la nuova normativa, spetta allo stesso Youtube. La procedura consisteva in una analisi del contenuto sia nella fase di caricamento del video che in quella successiva. Se i controlli trovavano qualche contenuto coperto da copyright – spesso su segnalazione dei diretti interessati – il video veniva cancellato dal sito.
Ora, invece, con la nuova normativa il sito diventa direttamente responsabile della violazione del copyright e quindi sarà costretto a rimuovere milioni di video già presenti sulla piattaforma e ad applicare regole più rigide per il ciò che riguarda il caricamento di nuovi.
Susan Wojcicki, amministratrice delegata del sito di video streaming, ha dichiarato che, di questo passo, Youtube sarà costretto a bloccare milioni di video sulla piattaforma europea.
Il danno non è, però, solo morale: la piattaforma ne risulterà impoverita, con un pesante impatto economico soprattutto per i creatori di contenuti (o youtuber) che guadagnano grazie alla monetizzazione dei video.
Un altro aspetto da tenere in considerazione consiste nel costo economico dell’operazione di creazione e installazione di questi mezzi di verifica: l’algoritmo di controllo attualmente operante di YouTube, chiamato Content ID, è costato circa cento milioni di dollari ed è stato creato e perfezionato in un arco temporale di undici anni.

Il maggior timore, insomma, consiste nella paura che le grandi aziende e piattaforme di internet, per la paura che qualcuno possa caricare materiale protetto dalle nuove norme sul copyright e quindi vedersi intentare una causa dai legittimi detentori dei diritti, possano applicare un filtro automatico che limiti e impedisca il caricamento di qualsiasi cosa sia protetta dal diritto d’autore, in quanto incapace di distinguere una parodia da un caricamento pirata.
In un comunicato ufficiale sulla direttiva, il Commissario tedesco per la protezione della privacy, Ulrich Kelber, ha messo in guardia nei confronti dell’applicabilità dell’articolo 13, che «porterà inevitabilmente a un uso di filtri automatizzati, perché non esiste alcun metodo realistico per far sì che le piattaforme digitali possano controllare (senza l’uso dei filtri) tutto ciò che viene postato dai loro utenti e determinare, volta per volta, quale messaggio, foto o video sia una violazione del copyright». Sempre in Germania, Jimmy Schulz, capo della Commissione del Bundestag sull’Agenda Digitale, ha parlato della riforma, esponendo grosse preoccupazioni: «Condivido la paura di molti cittadini che questi filtri di upload possano portare a una censura automatizzata del mondo digitale, mettendo in pericolo la nostra democrazia».

Oltre a quest’ultimo, altri aspetti dell’articolo 13 hanno attirato diverse critiche.

L’articolo, come visto, richiede una sostanziale tecnologia di sorveglianza. A causa del loro alto costo per lo sviluppo, questa tecnologia potrebbe finire per essere esternalizzata verso pochi, grandi, provider statunitensi, rafforzando la loro posizione commerciale e dando loro accesso diretto ai contenuti postati dai cittadini europei. Questo enorme apparato di sorveglianza, d’altro canto, richiede un grosso investimento, che potrebbe portare a scoraggiare la creazione di nuove start-up che puntino allo user generated content, bloccando i monopolisti nella loro posizione di vantaggio ed escludendo l’Europa dalla competizione con le piattaforme (attualmente dominanti) americane.

L’interesse e il clamore suscitati da questa direttiva e dai diritti toccati dalla stessa mette in luce come in futuro, probabilmente, assisteremo a una sempre più serrata lotta tra libertà d’informazione e tutela dei diritti economici che nascono e si sviluppano grazie alla Rete ed alla fluidità del Web 2.0.
Il legislatore dovrà prestare sempre più attenzione a salvaguardare sì i benefici e a proteggere i creatori dei contenuti e i grandi editori, ma d’altro canto, facendolo, dovrà prestare attenzione al fatto che oramai, nel ventunesimo secolo, i diritti basilari delle democrazie occidentali quali la libertà di espressione e di informazione e lo stesso funzionamento dei nostri governi liberali democratici passano e si costituiscono in maniera preponderante proprio su internet.

Il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato che «con questo accordo, stiamo rendendo il diritto d’autore al passo con l’era digitale che stiamo vivendo».
L’Europa ora avrà regole più chiare che garantiranno una remunerazione per i creatori, diritti più forti per gli utenti e una responsabilità maggiore per le piattaforme.
La riforma del copyright era il pezzo del puzzle che mancava per completare il Mercato Digitale Unico Europeo.

Gli Stati membri ora avranno a disposizione ventiquattro mesi per trasportare nel diritto interno la materia della Direttiva.
Vista la natura del mezzo legislativo utilizzato, ossia quello della direttiva, che prevede un vincolo per lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, resta salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi: il risultato potrebbe essere quello di una tutela non uniforme, con gradi di protezione diversi tra Stato e Stato all’interno della stessa Unione Europea.

Ad ogni modo è certo, però, che la battaglia degli oppositori alla normativa non sia conclusa.

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