«Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perché richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure».
Julio Cortazàr, Le bave del diavolo.
Se Cortazàr individua nella fotografia come uno stratagemma tramite il quale arginare il nulla, la medesima considerazione appartiene a quell’Antonino che Calvino designa come protagonista dell’Avventura di un fotografo. La struttura narrativa della raccolta sfrutta come collante una materia, adopera un motivo come minimo comune denominatore. A ogni storia sottende il problema della comunicazione, della difficoltà di mittente e destinatario di raggiungersi e dialogare.
Nell’avventura di un fotografo l’incomunicabilità è raccontata per tramite dell’esperienza di Antonino, che si trova a essere fotografo suo malgrado. Pur disprezzando da principio la fotografia, a un certo punto le cede per necessità comunicative ed espressive, non senza aver fatto i conti con un grumo denso di problematicità.
Anche il racconto di Antonino, nella sua smania di scattare fotografia di Bice, suggerisce che proprio nell’immagine fotografica esista un barlume di verità incontestabile. La giustapposizione tra Le bave del diavolo di Cortàzar e L’avventura di un fotografo di Calvino, in questo senso si può forse dire plausibile. Ancora più plausibile diventa l’accostamento tra i due se si tiene conto del rifacimento di Antonio del racconto di Cortàzar. In Blow up, trasposizione cinematografica de Le bave del diavolo, le fotografie scattate diventano documento di una verità seconda, indicibile, diventano traccia di un omicidio, testimonianza di una morte. Anche obiettando che il racconto originale da cui il film è stato tratto narra in verità una storia diversa, il motivo di fondo non cambia. In entrambe le rappresentazioni la fotografia diventa un mezzo per tramite del quale si accede ad una verità seconda.
Chiaramente la differenza tra le verità esposte nei due racconti è lampante: mentre tramite Cortàzar si scopre un’azione criminosa e sinistra, in Calvino invece affiora un’intuizione, la volontà di pervenire a una scoperta, di giungere alla rappresentazione totale delle cose. Si legge infatti «Ad Antonino parve di vedere Bice per la prima volta […] C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre. […] era anche lui uno di quelli che inseguono la vita che sfugge, un cacciatore dell’inafferrabile, come gli scattatori di istantanee». Non è un caso che prima che si manifesti tutta l’ossessione fotografica, Antonino pronunci nei confronti di Bice le parole «ti ho presa». Bice, non intendendo completamente che queste sono incursioni violente e non dimostrazioni d’amore, si presta talvolta passiva e talvolta restia all’occhio di Antonino.
Ma quella di Antonino lungi dall’essere una forma d’amore guasto, è una vera e propria incursione nella vita di Bice. E lei stessa non è fotografata per ciò che è, ma per ciò che nasconde senza sapere, è scavata fino alla verità ultima alla quale lei soggiace, inconsapevolmente. Cerca di sorprenderla quando non si lascia distrarre dagli sguardi degli altri. Non è un caso che Calvino adoperi la parola “gelosia” a questo punto. Sartre, ne L’essere e il nulla, aveva già spiegato in che misura lo sguardo dell’altro inevitabilmente condizioni le azioni che compiamo. L’altro che osserva rende automaticamente oggetto ciò che sta guardando. Va da sé che ogni oggetto che cade sotto i nostri occhi è suscettibile di opinione, giudizio, critica. E infatti continua Sartre «ogni volta che mi faccio fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione di inautenticità […] non sono né un oggetto, né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto».
Quando Bice, esausta delle continua incursioni di Antonino nella sua vita, lo lascia, lui comincia a fotografarne l’assenza. Fotografa angoli della casa come a denunciare un vuoto, uno spostamento, una mancanza. Fotografa l’assenza perché solo l’assenza si può fotografare in maniera oggettiva. Antonino fotografa il vuoto in cui lei non è presente. Anzi, di più: scatta foto di quel vuoto presente in sua vece. Ma se per definizione il vuoto è assenza di qualcosa, si sottrae a quella logica di giudizio alla quale sono sottoposti tutti gli oggetti.
Per adoperare la stessa perifrasi di Cortazar, Antonino combatte il nulla e nella battaglia che ingaggia riesce a uscirne vincitore. L’ossessione fotografica lo conduce alla scoperta di un nuovo linguaggio, un metalinguaggio che unisce il presente e il passato, il personale e il privato, un verbo in cui è contenuto l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo e che attraversa il tempo diacronicamente e sincronicamente.
Il Menini di Condizioni di Luce sulla via Emilia, ad un certo momento del racconto dice : «Caro Luciano, io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra, per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia». Certo, non è strettamente il tema della fotografia che i due racconti condividono, quanto piuttosto un certo modo di scoprire il reale delle cose. Mentre Menini si interroga su come siano davvero gli oggetti nella loro superficie, Antonino si chiede cosa abbiano di nascosto e insondato al loro interno. Ma comune a entrambi è l’idea che per tramite dello sguardo qualcosa riesca ancora a galleggiare, o almeno a non affondare completamente.
La prima parte dell’Avventura di Calvino rigetta la fotografia in toto. Da un certo momento in poi, il potere rivelatore della foto è conclamato, non lo si osteggia più. Il Menini di Celati cerca di capire come le cose vengono colpite dalla luce e quanto questa tangenza modifichi la nostra percezione. Non diversamente Antonino, interessato ai soggetti più che agli oggetti, sostituisce il tocco della luce con lo sguardo delle persone: qual è la verità dei soggetti al di fuori di quella che appartiene alle persone che li guardano?
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