Il regista Franco Zeffirelli è morto tre giorni fa, il 15 giugno 2019, alla veneranda età di novantasei anni. Lascia in eredità un cinema sontuoso e lucente. Per i cinefili più giovani il marchio del regista fiorentino forse non è tra i più ripassati, ma nella più vasta memoria nazionale ha lasciato un suo segno ben visibile. Eclettico, si è diviso tra teatro in prosa, opera lirica e cinema, giungendo ben presto in tutti e tre gli ambiti a produzioni internazionali e di notevole successo. Ha diretto in Gran Bretagna varie edizioni teatrali acclamate di Shakespeare, ha curato la regia di opere liriche in importanti teatri (la Scala di Milano, il Covent Garden di Londra, il Metropolitan di New York, l’Opéra di Parigi), dedicando una parte della sua carriera in particolare alla sua amata Maria Callas. Un altro suo grande amore è Shakespeare, buona stella anche per i suoi lavori cinematografici. Proprio La bisbetica domata (1966), che lo lancia a Hollywood, è il suo primo film memorabile anche soltanto per il clamore popolare susseguito, sorretto dai volti di due grandi divi come Elizabeth Taylor e Richard Burton. Sussegue ad esso subito dopo Romeo e Giulietta (1968), con cui ottiene vari Nastri d’Argento (miglior colonna sonora, migliori costumi, miglior scenografia, miglior fotografia e miglior regista, in pratica gran parte dell’apparato tecnico), un David di Donatello ancora alla miglior regia, vince ai Golden Globe come miglior film e per i due attori protagonisti debuttanti. Per ben concludere l’incetta porta premi anche dagli Oscar: migliori costumi e miglior fotografia. Gli applausi vennero anche dal pubblico, italiano e non: non pochi si innamorarono dell’intensità vitale e della vastità spettacolare del film, probabilmente uno dei migliori adattamenti cinematografici di Romeo e Giuietta. Giudicato da diversi critici come il suo capolavoro, amato dal pubblico fino a diventare memoria popolare condivisa, è un ottimo esempio per cogliere l’occasione di guardare più da vicino, capire il cinema di questo regista che ci ha appena lasciati.
Un nome fra tutti è importante per la vita e il cinema di Zeffirelli: Luchino Visconti. Con il duca, Zeffirelli ha avuto sia un importante rapporto lavorativo che sentimentale. È stato suo assistente alla regia sia a teatro che sul set (La terra trema, Bellissima, Senso). Grazie all’esperienza guadagnata presso di lui riesce a diventare indipendente a livello economico, conservando un’ispirazione artistica che influenza il suo talento figurativo, scenografico e drammatico. Entrambi infatti hanno curato vari adattamenti letterari, con cura scrupolosa per l’aspetto della messinscena, sempre raffinata. Zeffirelli infatti è diventato molto noto per la ricostruzione di accuratezza filologica e il senso estetico, tra lodi incantate e critiche di manierismo. Anche di più del maestro Visconti, Zeffirelli ha poggiato spesso sull’adattamento, e anzi, quando se n’è discostato nell’ultima parte della sua carriera, pur rimanendo sempre nel contesto del film storico (Un tè con Mussolini, Callas forever), non ha ottenuto più un alto numero di consensi. Fortunato dunque è Romeo e Giulietta, che vive del miglior Zeffirelli e di una fonte letteraria ricchissima.
Il punto del rappresentare un testo, che sia in veste teatrale o in veste cinematografica, è sempre quello di poter infondere vita alle parole, anche se queste già di per sé fossero infuocate. Shakespeare trova respiro quando, uscendo dalla carta, trova luoghi e corpi attoriali che lo esaltino. Romeo e Giulietta di Zeffirelli riesce nell’intento di dare linfa vitale alla creatura shakesperiana, appoggiandosi sul talento visuale registico e su cast di attori. Il testo di Shakespeare è tra i più popolari e amati della sua produzione, si sa, e per moltissime ragioni. L’amore dei due giovani di Verona è un astro fulgente, tocca i vertici dello spasimo, della passione sensuale e sentimentale. È fonte anche di sorrisi dai lettori più maturi, perché adolescenziale, quindi di ingenuità persino fatale, di entusiasmi melodrammatici, e tuttavia puro, delicato e sincero, con gemme liriche che ben valgono la sua fama. Una fama anche tragica: la morte, pur piombando come una sventura dolorosa, ne cristallizza la bellezza giovanile, lo dà all’immortalità salvaguardandolo dal fisiologico deperimento della maturità umana. In qualche modo i due amanti hanno da morire se il loro amore deve restare tale com’è, incorrotto e non più corruttibile. La forza di questo amore è nel diamante irripetibile della gioventù. Zeffirelli ne interpreta i due lati più belli e che rappresentano anche le due facce principali del dramma. Non c’è soltanto la passionalità lirica che tanta fortuna ha avuto nel mondo occidentale, ma c’è anche l’esuberanza vitale, persino ridente, ardita, che a molti è poco nota rispetto alla vena tragica. Romeo e Giulietta infatti nasce come commedia piena di vita, di toni vivaci, di allusioni erotiche e che non disdegna affatto le provocazioni tipiche della gioventù, con creatività virtuosa, arguta, raffinata quando vi è lo scherzo e quando vi è la più sentita dedica amorosa. Non a caso questa è una delle poche versioni cinematografiche che dà esistenza e vari primi piani ad un personaggio chiave di questo lato, cioè la balia di Giulietta, interpretata da una rubiconda e allegra Pat Heywood.
Sin dalle prime scene poter vedere Shakespeare su pellicola significa innanzitutto, però, poterne vedere finalmente i luoghi di scena. Zeffirelli da questo punto di vista si attiene innanzitutto a stretta fedeltà al testo – la trasposizione è tra le più fedeli di quelle esistenti- poi a realismo e puntiglio figurativo, come accennato: rivive allora la Verona rinascimentale del Bardo nella sua più movimentata realtà. Si guerreggia nelle piazze, i giovani interpretano focosamente i conflitti in corso tra la famiglia Montecchi e la famiglia Capuleti. Un tipo, allora, di movimento e di caos che sulla carta può rischiare di essere soltanto un concetto, una nota da tener presente per l’immaginazione, ma nel cinema del nostro regista fiorentino diventa palpabile. Prenda vita la calca cittadina, la macchina da presa si mette in mezzo alle folle, in mezzo ai corpi rivestiti in calzamaglia. Emblematicamente nelle scene più utili a questo fine diventa un girotondo, una vertigine in mezzo alle risa, agli umori ribollenti dei ragazzi che cercano sfogo in duelli con spade, ognuno per difendere la propria casata. Importanti sono anche le sonorità: oltre alla festa di voci umane, c’è anche la colonna sonora di Nino Rota. Il compositore, rispettando le accennate volontà filologiche di Zeffirelli, usa motivi rinascimentali e festosi in questi frangenti, ma ancora di più ricordiamo il tema di intensità amorosa riconoscibile a molte orecchie, pure senza aver visto il film.
Il fulgore del film, rispetto ad altri adattamenti – ad esempio di Kenneth Branagh – dove di certo non manca questo elemento, è certamente non soltanto nei costumi di ulteriore rigore di Danilo Donati, ma anche nella sua luce particolare, complice la fotografia preziosa di Pasquale De Santis. Costumista e direttore della fotografia concorrono a creare sempre quadri accesi e pur di armonia cromatica. Il sole che si diffonde in molte scene in esterni ed entra ad illuminare con pochi, netti raggi anche gli interni è frutto estivo, la migliore stagione, d’altronde, per un ricordo di gioventù da immortalare in tutta la sua potenza. Illumina persino quella prima goccia di sangue di Mercuzio, che creerà uno spartiacque tra le due anime della storia. Diventa una solarità beffarda che sovrasta la morte così casuale, accidentale di Mercuzio (può ricordare in parte il sole pressante de Lo straniero di Camus), la prima di una disperata catena. Tutto ne risulta rivestito di un velo ulteriore, che risalta le carnagioni dei giovani, i colori del paesaggio circostante, sia nelle edificazioni che nei paesaggi naturali, colorati. Ancora di più viene sottolineata, rispetto all’ammissibile della rappresentazione teatrale elisabettiana o di altri molti adattamenti cinematografici, la carnalità che non può prescindere dal desiderio giovanile, che imporpora le guance di Giulietta e fa scalpitare Romeo. Un autore davanti al testo shakesperiano, sia a teatro che al cinema, può mettere la sua impronta, la sua interpretazione anche tra le righe, attraverso gestualità e gestione dei corpi attoriali: Zeffirelli sceglie di non ignorare, lasciare da canto la sessualità dei giovani (è presente, ad esempio, una scena di nudo che ha causato anche problemi di censura in Italia), mantenendone allo stesso tempo la leggiadria e la precipitazione infervorata e tipica delle prime scoperte erotiche.
Non meno importante, a questo proposito, è che i giovani sono veramente tali: questo Romeo e Giulietta è stato il primo ad avere come protagonisti attori che fossero molto vicini all’età dei personaggi letterari. Due debuttanti nel mondo del cinema: Olivia Houssey, Giulietta, aveva soltanto sedici anni, mentre Leonard Whithing, Romeo, diciassette. Due volti dunque freschi, adatti ai fiori sbocciati che interpretavano: indimenticabile è una Olivia Houssey di bellezza storica, di carnagione da “damina” di ceramica, che sembrava davvero prestarsi ad essere incorniciata da cappelli, veli di altri tempi. Zeffirelli infatti è stato cruciale per molti attori: ha lanciato Brooke Shields, Tom Cruise e vari altri, anche se non tutti – come è accaduto infatti ai due protagonisti di Romeo e Giulietta – hanno avuto una lunga carriera dopo i quindici minuti di gloria conquistati attraverso un suo film.
Nei toni foschi e più cupi della seconda e drammatica parte della storia, pure ne guadagna in tono crepuscolare. Come nel giorno ancora spoglio da nubi mortifere il sole entra dalla finestre, così nella notte della sventura la luce della candele illumina il sepolcro, risalta lo spasimo della morte violenta. Si portano vette passionali in un regno che si suppone esangue, quel che basta perché le ultime urla dei protagonisti incidano i letti di morte. Protagonisti interpretati da attori disinvolti e mai esagerati, che quando si disperano, non creano alcuna rottura d’illusione, incarnando la sincerità passionale dei protagonisti, fino all’ultimo palpito vitale, morendo pelle contro pelle.
Zeffirelli dunque è stato tra chi ha saputo meglio portare la chiave del testo shakesperiano in una profusione di colori, di umori, senza trascurarne l’esuberanza in nessun aspetto, dal comico al sentimentale, e in un amore per l’estetica e la scenografia che d’altronde è stato un cavallo di battaglia per l’accoglienza presso le grandi produzioni hollywodiane. Hollywood è d’altronde una fabbrica di sogni, vivendo un’importante stagione e tonalità quando ha il compito di far vivere storie il cui pathos è possibile solo nella realtà finzionale, sublimato nella sua potenza, scrigno di ricordi poi condivisi. Un regista dunque che ha molto del direttore di orchestrazioni visuali, incorporando scenografia, fotografia, musica, attori e costumi e una regia sempre innamorata di essi, al servizio del lato in cui possano splendere più sontuosamente. Non per nulla ha vinto un Donatello alla carriera nel 2002. La critica alla maniera, al complessivo accento più sull’ammaliante forma forte degli appoggi letterari più che una sostanza propria, originale di pensiero, di profondità personale è oggettivamente rintracciabile. Tuttavia se nel momento del ricordo è giusto rivivere il meglio di un regista, Romeo e Giulietta si carica bene dei lati più positivi di questa tendenza. Fa presente, in mezzo a innumerevoli trasposizioni dalla letteratura senza arte né parte, quanto non sia scontato trasferire la carta lasciataci dal Bardo in un contesto visuale come il cinema.
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