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Spettacolo

Il tramonto della modernità e La guerra di tutti

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Alessandro Rosa

Raffaele Alberto Ventura (in arte Eschaton) ce lo aveva annunciato alla fine del suo primo saggio, Teoria della classe disagiata (Minimum Fax, 2017): il libro necessitava di un seguito, avrebbe avuto un nome più esplosivo, La guerra di tutti, e avrebbe portato alla luce un conflitto ben più esteso. Il mese scorso è uscito questo suo secondo libro e tutte e tre le promesse sono state mantenute. La guerra di tutti è il degno seguito di uno dei saggi più lucidi e importanti per comprendere decennio che sta volgendo al termine. Con Teoria della classe disagiata Ventura aveva tolto il mantello dell’invisibilità al fantomatico elefante nella stanza, lasciando emergere con chiarezza tutte le contraddizioni e i circoli viziosi dell’economia neoliberista odierna. La classe disagiata è quel ceto medio con aspettative troppo alte perché possano essere soddisfatte dal mercato. Non perché gli manchino le risorse, anzi; il problema è proprio una sovrabbondanza di risorse, un surplus ereditato dalla generazioni del boom economico che viene dilapidato in titoli di studio, master, tirocini, stage gratuiti, beni posizionali, beni di pseudo lusso e così via. Il risultato inevitabile dello sperpero è il declassamento, il peggiore dei mostri sotto il letto per la classe media, che vede il proprio status sociale minacciato. Ma invece che accettare la sconfitta e scegliere strade meno prestigiose ma sicuramente più remunerative, la classe disagiata è convinta che sia possibile emergere e riappropriarsi di quello status in decadenza attraverso la competitività. Si innesca così un circolo vizioso senza fine di investimenti in titoli di studio poco spendibili sul mercato attuale che non fa altro che aumentare l’insoddisfazione e la paura per il declassamento. E l’insoddisfazione non può che sfociare nel conflitto. Teoria della classe disagiata metteva in luce il disperato tentativo di una generazione perduta che vuole farsi riconoscere dei diritti che appartenevano ai suoi predecessori e che ormai, semplicemente, non esistono più. La guerra di tutti intende portare il conflitto del riconoscimento su una scala più ampia, non solo economica ma politica, sociale, etnica, religiosa: un conflitto di tutti contro tutti e, in ultimo, contro sé stessi.

La guerra di tutti contro tutti

Con una formula divenuta celebre René Leriche definiva la salute come «la vita nel silenzio degli organi». Se volessimo reiterare la metafora dello stato come un organismo, dovremmo dire che il corpo dello stato moderno sta urlando di dolore. Ventura ne è certo: gli stati moderni sono in crisi ed è possibile leggere i sintomi di questa crisi semplicemente guardando a ciò che più sta in bella mostra, ovvero il mondo della cultura pop. La guerra di tutti si muove nel territorio della cultura mainstream con apparente leggerezza, ma la legge con un occhio analitico molto attento e preciso. Si può spiegare spiegare il conflitto multietnico in corso nei paesi europei con Tom & Jerry? Che cos’è Matrix se non l’esempio perfetto che forse i cospirazionisti hanno ragione a credere in una realtà più reale? La trasposizione cinematografica del fumetto V per vendetta ha aperto le porte per la rivoluzione populista di Grillo? E che dire dei film sui supereroi degli universi Marvel e DC? Non sono forse il perfetto emblema per descrivere la lotta tra le forze populiste e lo stato autoritario? Sono tutte domande che secondo Ventura meritano legittimamente una risposta seria e approfondita. Il suo libro è anche una una lunga disamina della cultura mainstream, una specie di “archeologia del sapere pop” che vuole mettere in luce quanto certi mezzi di comunicazione (siano essi film, libri, serie tv ) hanno iniziato ad avere un ruolo che va oltre quello dell’intrattenimento. Se prima la cultura poteva avere un effetto catartico, in grado di reprimere quella violenza costitutiva di una società democratica, ora opere come quelle holliwoodiane o i grossi blockbuster hanno iniziato a lasciare un segno indelebile sulla realtà. Il risultato è che la linea di demarcazione tra finzione e realtà si assottiglia sempre di più, e attentati come quelli  di Luca Trani o Anders Breivik sembrano fuoriuscire da un film poliziesco americano. Quelli che prima erano considerati solo meri atti di terrorismo possono essere letti come la volontà di riappropriarsi di una realtà che è stata velata da una narrazione imposta dall’alto. D’altronde, anche i protagonisti di Matrix devono ricorrere alle mosse di combattimento e alle armi per distruggere il mondo fittizio di cui gli umani sono schiavi.

La celebre scena di Matrix (1999, Wachowski) in cui il protagonista, Neo, deve scegliere tra la pillola blu o la pillola rossa, ovvero tra la finzione del Matrix oppure il mondo reale. La pillola rossa è diventata un vero simbolo del “risveglio”: assumerla significa squarciare un velo illusorio che impedisce di vedere le cose come sono. Sopratutto nel territorio statunitense il termine “redpilled” ha assunto un connotato politico, diventando il simbolo dell’ Alt-right.

I sintomi che affliggono gli stati moderni sono tanti, e tra questi Ventura decide di trattare nello specifico il populismo, il cospirazionismo, l’integrazione e la xenofobia. Per quanto apparentemente diversi, hanno tutti un tratto in comune: sono dei conflitti esplosi per una mancanza dello stesso Stato moderno. Che si tratti di conflitti tra etnie differenti, classi sociali diverse, o piuttosto tra cittadini e forze rappresentative, o ancora tra persone comuni e potenti burattinai che governano il mondo. Il conflitto è globale, è una guerra di tutti contro tutti, per citare la formula hobbesiana. Ed è proprio da Hobbes che bisogna partire per comprendere la società odierna. Come risolveva il problema del conflitto perpetuo e universale Hobbes? Trasmettendo tutti i propri diritti a un’unica entità, lo Stato, incarnato nella bestia mitologica del Leviatano. Ma quali sono i termini di questo contratto? Perché mai gli uomini dovrebbero rinunciare ai propri diritti per conferirli a una terza entità, di cui non conosce né le intenzioni né la provenienza? La risposta del filosofo inglese, in quella che può sembrarci ormai un’ingenuità ai nostri occhi, è la fiducia nel leviatano. Si può avere fiducia di un mostro? Sì, è possibile se quel mostro, in tutta la sua bruttezza, ha la capacità di accontentare tutti i suoi sudditi fornendogli il benessere e la sicurezza che cercano. Successivamente ci si è resi conto che lo stato monarchico non poteva in nessun modo garantire questi diritti e la Rivoluzione francese ha sostituito al monarca autoritario la democrazia moderna, con l’idea che se un solo leviatano non era in grado di mantenere le promesse, un sofisticato sistema di mostriciattoli minori poteva funzionare meglio. Oggi si assiste alla disfatta di quel contratto, fratturato in molteplici punti e non più in grado di soddisfare la popolazione. Populismi e xenofobia non sono altro che la reazione di tutte quelle persone rimaste deluse dal fallimento della democrazia di distribuire equamente benessere sociale ed economico, promettendo un universalismo che di fatto non si è mai realizzato e che non ha fatto altro che acuire le differenze. Venuta meno la validità del contratto lo scontro si è reso inevitabile.

Si è pensato che per combattere la retorica populista o quella cospirazionista bastasse mettere di fronte a tutti i fatti nudi e crudi. È stato un errore. Il cosiddetto fact checking secondo Ventura è controproducente perché non tiene conto dell’enorme complessità della realtà e della comunicazione. I dati “nudi e crudi” di fatto non esistono, è un mito, un feticismo che ci portiamo dietro dall’epoca del positivismo. Il problema è che oggigiorno l’informazione circola a una velocità e a una capillarità tale che è praticamente impossibile imporre una singola visione basata sui fatti, perché questi possono essere interpretati in modi molto diversi. Qualcuno obietterebbe che la scienza non è democratica, ma il punto sta qui: anche nella scienza ci sono interpretazioni, dibattiti, a volte anche confusione e questo si ripercuote inevitabilmente su una comunicazione spesso difficile e confusa. L’errore è stato etichettare come semplice ignoranza le istanze mosse dal Movimento 5 stelle, dagli antivaccinisti, da tutte quelle forze che si scagliavano contro la linea ufficiale. Questa strategia ha fallito nel suo obiettivo di convincimento e anzi ha innescato un circolo vizioso che allontana sempre di più i cittadini dalle istituzioni e dai saperi accademici. La domanda che si pone Ventura è: possiamo davvero incolpare di ignoranza o di mancanza di spirito critico cospirazionisti e populisti? Non è che forse ne hanno troppo di spirito critico? Il punto non è che chi crede che la Terra sia piatta non ha le informazioni necessarie per conoscere la forma del nostro pianeta; viceversa, il problema è che ha troppe informazioni, tra di di loro contrastanti, a cui ha un accesso immediato grazie alla rete dove non è possibile stabilire un criterio di validità delle fonti. Un sovraccarico informativo che esplode in un’ermeneutica schizofrenica dove ogni interpretazione presuppone l’annullamento di tutte e altre, arrivando di fatto a mettere in dubbio qualsiasi cosa. È ignoranza? No, qualcuno direbbe che è semplicemente filosofia. Non è forse Cartesio, il padre del pensiero moderno, ad aver usato per primo lo strumento del dubbio universale? I cospirazionisti sono solo dei filosofi non accademici.

La copertina esplosiva de La guerra di tutti.

C’è poi un conflitto molto più grande e, per certi versi, più sanguinoso. Un conflitto perenne tra gruppi sociali estremamente eterogenei tra loro che, per un motivo o per l’altro, devono coesistere nello stesso territorio. Ma quali gruppi sociali? Il problema sta proprio qui: definire chi sta prevaricando su chi, chi è la vittima e chi è il carnefice. Le società occidentali hanno bisogno di escludere qualcuno per definire la propria identità, che si tratti di un gruppo sociale, una minoranza etnica o una visione politica. Anche qui lo scontro non è solo inevitabile, è insito per principio. La grande sfida del multiculturalismo è stata persa clamorosamente e si è aggiunta alle tante promesse che sono state infrante. Si credeva che sarebbe bastato convivere per integrarsi, ma così non è stato. Così da una parte si è sviluppata una’intolleranza sempre più forte verso gli altri, gli esclusi; dall’altra parte c’è stato un rifiuto netto ad ammettere la sconfitta, alimentando un pendolo che oscilla tra xenofobia e una specie di sindrome di Stoccolma. Intanto i morti in mare aumentano e nessuno sembra poterci o volerci fare qualcosa. E perché dovrebbero? Secondo Ventura la situazione dell’immigrazione odierna è simile a quella del famoso problema del carrello, uno scenario fatto apposta per mettere in luce un dilemma morale. Se io avessi la possibilità di cambiare la direzione di un treno in corsa semplicemente tirando una leva, lo farei investire una sola persona che mi è cara o cento persone che non conosco? E se gli sconosciuti fossero mille? E se fossero interi barconi pieni di sconosciuti? Lo scenario mette in luce un chiaro problema etico, ma il problema è che la situazione è ben più complicata, e andrebbe integrata con un altro dilemma filosofico, quello del prigioniero. Il dilemma del prigioniero vuole mettere in luce come ci convenga sempre giocare ai danni del nostro simile, perché non possiamo avere la certezza che l’altro si comporterebbe meglio di noi se ne avesse la possibilità; tanto vale essere egoisti. Così il doppio dilemma filosofico produce un risultato tanto inquietante quanto necessario: conviene sempre giocare sporco, sopratutto nei confronti delle persone che per noi non contano niente, perché dall’altro non possiamo che aspettarci lo stesso. La guerra è di tutti, e a pagarne le conseguenze non sono mai quelli che tirano la leva.

Una rappresentazione classica del trolley problem. Fonte: Wikipedia.

E la pars construens?

La situazione è tragica, dato che sembra che la retorica populista stia avendo la meglio, riuscendo a svincolarsi da qualsiasi regola del discorso. Ma si tratta di una vittoria di Pirro, perché gli stessi populisti sono vittima della loro stessa retorica e finiscono per cannibalizzarsi tra di loro, in un regresso all’infinito che non è sostenibile sul lungo periodo. La guerra di tutti, chiaramente, non contiene una soluzione definitiva al problema, ma ci fornisce un modo per superare alcune delle contraddizioni emerse. Finalmente c’è un accenno alla pars costruens tanto ambita dai lettori di Ventura fin dall’uscita del suo primo saggio. Se l’operazione di catarsi delle società moderne sta fallendo non ci si può più nascondere dietro un dito. Le minoranze (religiose, etniche, culturali) non sono solo in conflitto con la maggioranza, ma anche tra di loro: raramente i pezzi di puzzle che rappresentano i diritti rivendicati combaciano perfettamente. Anche qui il conflitto è globale, non c’è una fazione buona e una cattiva. Certo, ci possono essere ragioni più o meno buone per covare risentimento, come l’esperienza del colonialismo. Ma tutti hanno una ragione per sentirsi insoddisfatti, nel momento in cui lo stato ha fallito la sua missione di garante del benessere economico. L’immigrato clandestino e il membro della classe disagiata sono vittime della modernità a pari livello. Bisogna quindi imparare a convivere assieme, ma non annullando le differenze individuali in ragione di quelle della maggioranza. Piuttosto, serve un nuovo paradigma di tolleranza, che ci permetta di affrontare anche ciò che è ritenuto ingiustificabile. Un’intolleranza radicale (come la chiama Ventura) che ponga in equilibrio quel delicato sistema di pesi e contrappesi che i valori sociali e culturali hanno sempre rappresentato. Certo, anche questa è un’operazione di catarsi, perché basta poco per far saltare di nuovo tutto. Superare la modernità significa trovare nuovi modi per evitare la guerra di tutti contro tutti. Qualcosa che vorremmo chiamare pace, ma che ha più il sapore di una tregua.

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