Populism is sexy. Così recita l’incipit di un articolo del Guardian, che spiega come negli ultimi vent’anni il termine “populismo” abbia acquisito sempre maggior appeal all’interno del racconto della politica contemporanea. La stessa testata britannica nel corso dell’anno 1998 pubblicava circa trecento articoli contenenti questo termine: il numero è salito a mille nel 2015, a duemila nel 2016. Da un lato tutti parlano di populismo: quotidiani, riviste, tv, accademici e studiosi si danno un gran da fare per provare a definire un concetto che rimane vago, e per questo difficile da cogliere nella sua interezza. Dall’altro lato il cittadino che si informa cerca di districarsi in questa marea di definizioni, tentando di fare chiarezza intorno alla natura di un fenomeno che, forse, trova proprio in questa fumosità intrinseca la sua reale efficacia.
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Dopo aver affrontato nella seconda parte di questo piccolo vademecum il lato dell’offerta politica, è bene ora occuparsi, in questa terza e ultima parte, delle ragioni del successo dei partiti populisti per quanto riguarda il lato della domanda, attraverso l’approfondimento di due dinamiche cruciali che hanno inciso sulle scelte di voto degli elettori nella storia recente. L’attenzione sarà posta sul contesto italiano, definito per varie ragioni «la terra promessa del populismo».
Individualizzazione ed «exit» generazionale
Nella storia recente del nostro Paese un numero sempre maggiore di elettori ha deciso di affidare il proprio voto a formazioni politiche definite come populiste. Prima la discesa in campo di Silvio Berlusconi – che ha segnato indelebilmente il periodo della cosiddetta Seconda Repubblica – poi la nascita del Movimento 5 Stelle e l’operazione di rebranding della Lega sono stati gli eventi che hanno sviluppato in Italia una dialettica politica fondata sullo schema populismo vs populismo. Nel 1994, il sogno italiano promesso dal leader di Forza Italia ha incontrato il favore di molti cittadini arrabbiati con una classe politica corrotta e messa a nudo dalle inchieste di Tangentopoli; più tardi, nel 2013, la retorica dell’antiberlusconismo e la progressiva istituzionalizzazione di Forza Italia hanno portato molti elettori a credere nel giustizialismo apartitico del M5S; infine, una Lega ormai allo sfascio, colpita dalle inchieste giudiziarie e da una questione settentrionale svuotata di senso dall’emergenza immigrazione, ha portato molte persone a porre la propria fiducia nella retorica nazionalista del Capitano Salvini. La storia degli ultimi decenni della politica italiana sembra indicare che, periodicamente, un nuovo populismo nasce come reazione al populismo precedente, che con il tempo si è istituzionalizzato. È lecito dunque pensare che la nascita della dialettica populismo vs populismo in Italia possa essere fissata cronologicamente nel 1992, in concomitanza con le inchieste di Tangentopoli e con la conseguente fine della Prima Repubblica. In parte è vero, il crollo delle ideologie e la fine dei partiti di massa ha innescato questo tipo di dinamica e, se è necessario determinare cronologicamente questa svolta storica, allora il biennio 1992 – 1994 rappresenta una scelta azzeccata in questo senso. Come spesso però accade nello studio della storia, le date che segnano un mutamento epocale sono spesso simboliche, e non tengono conto di processi di cambiamento in atto nella società già da tempo. È questo infatti il caso della fine della Prima Repubblica, con lo scioglimento dei partiti di massa decretato dalle inchieste di Tangentopoli e ricondotto dunque al 1992. La perdita di fiducia da parte dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni però non è altro che la conseguenza di un processo sociale e politico che affonda le proprie radici negli anni Settanta ed Ottanta, un fenomeno definito da Giovanni Gozzini nel suo La mutazione individualista come «exit generazionale».
La rottura di quei legami politico-sociali tra partiti di massa e società civile che avevano garantito il buon funzionamento delle democrazie del Novecento fu infatti in parte causata, a partire dagli anni Settanta in Italia, da una progressiva individualizzazione della società. L’incapacità da parte dei partiti tradizionali di accogliere i cambiamenti socio-economici ha prodotto in Italia quella che Gozzini – citando Albert Hirshman – chiama exit, cioè un’uscita, da parte della baby-boom generation, da tutte quelle dinamiche collettive sociali, ma soprattutto politiche, che avevano consolidato il potere dei partiti di massa. I cittadini italiani, tra gli anni Settanta e Ottanta, compirono la loro «uscita» dalla sfera della partecipazione attiva, iniziando a manifestare quella persistente ostilità nei confronti della politica convenzionale, delle sue regole e dei suoi rituali, che avrebbe caratterizzato molti italiani sul finire del secolo. Molti dei processi successivi, che porteranno al collasso del sistema politico durante gli anni Novanta, affondano infatti le proprie radici almeno venti anni prima, nel fallimento delle grandi ipotesi riformatrici degli anni Sessanta e Settanta e nell’assenza di un rinnovamento profondo della politica. Sono questi gli anni dei primi scandali di corruzione che coinvolgono i partiti, gli anni della violenza politica e del rafforzamento dei gruppi mafiosi. In questo periodo stava entrando in crisi, insomma, la capacità di autodifesa della democrazia italiana. E accanto ai primi segnali della corruzione politica si assiste anche alla nascita dei primi movimenti di protesta anti-sistema: nel 1972, ad esempio, il partito radicale di Marco Pannella unisce la battaglia contro «i partiti di regime» (la partitocrazia in altri termini) a quella per i diritti civili. Nascono inoltre i primi movimenti della sinistra extraparlamentare.
Il risentimento nei confronti della classe politica cresce insieme con una visione sempre più individuale ed egoistica della partecipazione del cittadino alla vita sociale, le appartenenze ideologiche crollano di fronte al potere persuasivo del consumo: il risultato è quello di una forte spaccatura tra una classe politica vecchia e una società civile formata da individui sempre più isolati.
Sul piano politico avviene invece il crollo di un sistema che ormai appariva agli occhi di gran parte degli elettori come corrotto e inaffidabile, e il terreno sembra ormai fertile per la nascita di partiti anti-sistema, che possano interpretare il malessere dei cittadini nei confronti della politica in generale. Le stragi mafiose e Tangentopoli arrivano per rappresentare la fine tragica ma esemplare di un periodo oscuro e sanguinoso della storia italiana, nel quale i legami collettivi si indeboliscono e la politica perde la propria presa sull’opinione pubblica. Elettori sempre più isolati, sfiduciati nei confronti di una classe politica dipinta come corrotta, fedeli alle dinamiche nuove e spettacolari di un consumo sempre più personalizzato, decidono di affidarsi al leader dal carisma forte, estraneo il più possibile al mondo della politica, che parla un linguaggio semplice e immediato e, soprattutto, che si rivolge a tutti i cittadini, non solo al gruppo sociale che rappresenta. Gozzini descrive magistralmente questo processo di individualizzazione e di exit generazionale – che porterà al crollo dei partiti di massa e al successo dei partiti populisti in Italia – attraverso un esempio efficace, quello del rapporto tra la tv e gli italiani. Persino un mezzo unificante come la televisione infatti si è trasformato nel tempo, prima attraverso un palinsesto personalizzato e poi attraverso i sistemi on demand, in uno strumento a fruizione personale. E, come detto riguardo al lato dell’offerta politica, i media hanno avuto il loro peso anche e soprattutto per ciò che concerne il lato della domanda: gli stravolgimenti sociali e politici avvenuti nel nostro Paese sono stati accompagnati anche da rivoluzioni nel campo mediale, che hanno influenzato non di poco le scelte degli elettori italiani.
La televisione, il consumo e l’antipolitica dei cittadini
La crescente disaffezione nei confronti della politica si unì in Italia a una radicale trasformazione avvenuta nell’ambito del sistema televisivo, che non coinvolse solo la struttura (da un iniziale monopolio si passò a un effettivo duopolio), ma cambiò anche forma e contenuti all’interno dei palinsesti.
Tra gli anni Settanta e Ottanta infatti l’avvento della tv commerciale e la fine dell’era Bernabei in Rai aprirono una lunga e contrastata stagione di passaggio da una tv di tipo pedagogico-educativo all’industria del divertimento. La centralità della pubblicità e i messaggi edonistici e orientati al consumo divennero sempre più consistenti nella dieta televisiva degli italiani, rendendo ancora più fievole il senso di appartenenza politica dei cittadini. Quando, nel 1994, l’imprenditore televisivo italiano di maggior successo decise di fare la sua discesa in campo, gli elettori italiani riscontrarono nella sua offerta politica linguaggio e dinamiche ai quali ormai erano assuefatti. La protesta contro la politica di professione, la spinta al consumo e la promessa di «un nuovo miracolo italiano» furono argomenti vincenti contro l’ormai debole senso di appartenenza politica dei cittadini. Allo stesso modo, all’interno della dialettica populismo vs populismo descritta poco fa, anche l’avvento di un nuovo partito populista in Italia coincise con una nuova rivoluzione mediale: quella che ha visto come protagonisti i social network. L’istituzionalizzazione della figura di Silvio Berlusconi da un lato, e la protesta anti-sistema in nome della democrazia diretta dall’altro, hanno portato al successo elettorale il M5S. Elettori nuovamente sfiduciati anche nei confronti dell’offerta politica della Seconda Repubblica, hanno abbracciato la spinta innovatrice del Movimento, sia per la sua forte protesta anti-sistema, sia per la sua capacità di organizzazione online, lontana anche nella forma dalla politica convenzionale.
La possibilità, inoltre, di poter dare libero sfogo ai propri bisogni e alla rabbia diffusa nei confronti dell’élite politica attraverso dei post sui social network ha permesso ai nuovi partiti populisti (da ultimo la Lega di Matteo Salvini), di rafforzare, nei cittadini, quel senso di comunità che si era perduto tra gli elettori-individui della Seconda Repubblica. Un senso di comunità però solo immaginato, frutto di sapienti strategie comunicative, ostile a un nemico (l’élite politica, gli immigrati), e che nulla ha da spartire con i legami sociali reali, esistiti in questo Paese almeno fino agli anni Settanta. Quelle relazioni sociali, promosse dai partiti di massa, che permettevano il buon funzionamento della democrazia, si sono perse da un lato a causa delle trasformazioni dell’offerta politica e, dall’altro, a causa dei cambiamenti che hanno investito l’elettorato, dei quali è stato detto fino a ora. È difficile dunque tracciare una linea netta di separazione tra i cambiamenti avvenuti all’interno dell’offerta politica e quelli che invece hanno interessato il lato della domanda. Per quanto riguarda quest’ultima però, è chiaro che l’individualizzazione progressiva dei cittadini e la perdita di fiducia nei confronti della classe politica – e, forse, della politica in generale, in nome della fede nel consumo sfrenato – siano stati due elementi fondamentali nel successo dei partiti populisti in Italia. A queste dinamiche poi, vanno aggiunti anche i mutamenti avvenuti nel campo mediale, con l’avvento della tv commerciale prima e dei social network poi. Grazie a queste due rivoluzioni infatti i cittadini hanno occupato lo spazio pubblico, rivolgendo con tutta la loro forza la propria protesta – incondizionata e generica – contro il concetto stesso di politica. E i nuovi leader politici, a caccia dei voti di un elettorato sempre più volatile, hanno fatto propria questa protesta, attraverso la retorica popolo vs nemico.
Questo piccolo vademecum sul populismo si conclude qui. Con questi tre approfondimenti non ci si aspettava di chiarire in toto tutte le cause che, in questi anni, hanno portato al successo dei partiti populisti. Si voleva fornire qualche spunto per cercare di interpretare nel modo più chiaro possibile questo concetto, tentando di ricondurre esso ai cambiamenti avvenuti nel lato dell’offerta politica e in quello della domanda. Si spera, in parte, di esserci riusciti, anche se la definizione di «populismo» rimane comunque vaga, e forse sta proprio in questa indefinitezza la forza di questo fenomeno: perché, d’altronde, populism is sexy.