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(Incauti) acquisti da spiaggia: la normativa sui prodotti contraffatti

Published by
Michele Corato

L’arrivo dell’estate si associa, generalmente, a diversi elementi più o meno comuni: le vacanze, il sole, il caldo, il relax e la spiaggia. Concentrandosi su quest’ultima, il pensiero può spostarsi in maniera più dettagliata all’insieme di attività tipiche del turista balneare ma anche alla presenza costante, cliché ormai di un’estate all’italiana, dei venditori ambulanti. Nell’insieme di questi possiamo trovare banchi o chioschi dei prodotti più disparati, che spaziano dalle cover per cellulari alle pashmine, dai venditori di frutta con relativi tormentoni estivi ai massaggiatori o autoproclamatisi tali, improvvisati tatuatori con l’henné e, infine, venditori di prodotti d’imitazione. La nostra attenzione, diretta a sfatare qualche mito diffuso e fare un po’ di chiarezza in merito, si concentrerà, appunto, sui venditori di prodotti contraffatti e, di conseguenza, sugli acquirenti di tale merce. Complice l’evoluzione normativa o l’accessibilità all’acquisto di tali prodotti, la maggior parte delle persone ignora completamente a quali conseguenze si possa andare incontro o, più in generale, quale sia la normativa attualmente vigente in materia. In linea generale, infatti, possiamo trovarci di fronte a persone disfattiste, convinte della vigenza delle più gravi pene nei confronti tanto dei venditori quanto degli acquirenti, oppure a persone che pensano che un tale commercio sia pressoché consentito fatta salva, comunque, la punibilità del venditore. Un’ulteriore fonte di confusione è attribuibile, poi, alla pluralità di ipotesi astrattamente riconducibili ad un fatto tipico di per sé semplice. Fra queste possiamo citare la contraffazione o l’importazione di tale merce, l’acquisto di merci di dubbia provenienza, la ricettazione e via dicendo. Capita, da ultimo, che alcune persone utilizzino tali capi d’accusa in maniera atecnica, facendoli propri e contribuendo alla diffusione di miti e false informazioni generando, così, ancora più confusione su una materia dai risvolti tanto penali quanto amministrativi.

Ovviamente, l’intero impianto normativo non è limitato al caso in esame ma trova sicura applicazione in ogni situazione simile. In particolare, con lo sviluppo del commercio online che risulta, peraltro, in continua crescita, tale mercato illecito risulta particolarmente diffuso. Parallelamente all’e-commerce legale, infatti, aumenta anche l’acquisto di prodotti contraffatti: in questo caso, gli acquirenti si sentono maggiormente protetti da ripercussioni legali, come spesso accade, grazie alla falsa protezione dello schermo di un computer. Occorre dire, in realtà, che molto spesso la legge ha le mani legate sia per la vetustà della normativa rispetto alle moderne forme di commercio, sia perché non vi è molta convenienza nel punire, magari, un piccolo cliente il cui pacchetto può anche non venire controllato data la mole spropositata di merce in ingresso nel nostro Paese.

La normativa vigente

I reati che ci interessano, con riferimento al caso di specie in apertura, sono quelli di falso, che trovano esplicito riferimento normativo nei capi VII e VIII del codice penale, oltre alla particolare e diversa ipotesi di ricettazione che, invece, è riconducibile ai reati contro il patrimonio. I reati di falso sono reati plurioffensivi: ciò in quanto chi li commette lede contemporaneamente, o alternativamente, più beni giuridici tutelati. La ratio giustificatrice della copertura penale, infatti, da un lato protegge l’economia, sia con riferimento alle aziende titolari dei marchi abusati sia le altre aziende che si trovano a competere con prodotti che, pur non corrispondendo agli originali, hanno un potere di presa più incisivo sugli acquirenti a causa del prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. Sotto un altro punto di vista viene, invece, tutelata la fede pubblica che rappresenta, peraltro, il titolo VII del codice penale. Con fede pubblica si deve intendere in quest’ambito la fiducia che i cittadini ripongono in determinate aziende che vengono rappresentate, appunto, dai singoli marchi di proprietà. Un marchio, così, diviene un segno di riconoscimento su cui l’acquirente ripone determinate aspettative in termini di tecniche di produzione, di materiali, di ricerca e, non da ultimo, di qualità. Proprio questa fiducia, il più delle volte, viene disattesa nei prodotti contraffatti ed è alla sua tutela che si rivolgono le specifiche norme del codice penale. Date le premesse, appare chiaro come la condotta di chi produce, ma anche di chi vende, merce falsa risulti punibile. A tal fine è dedicato l’art. 473 c.p., che sanziona con una multa da 2.500 a 25.000 euro, nonché la reclusione da sei mesi a tre anni, chiunque, potendo conoscerne la proprietà industriale, contraffà segni o marchi di prodotti di proprietà altrui. A tale norma, diretta a sanzionare il produttore della merce contraffatta, si affianca il successivo art. 474 c.p. che, invece, sanziona l’importatore di tali marchi con la multa da 3.500 a 35.000 euro, oltre alla reclusione da uno a quattro anni. Quest’ultimo articolo parrebbe applicabile nel predetto caso di acquisti online: tuttavia, per la sua operatività è necessario che il prodotto venga importato al fine di trarre profitto e, dunque, non riguarda il consumatore finale.

Assodato che le condotte di chi lucra sulla merce contraffatta risultino punibili, che conseguenze gravano in capo all’acquirente finale, sia esso un privato che acquista online oppure, per ritornare all’esempio iniziale, uno sprovveduto bagnante? Quest’ultimo, allettato da un prezzo favorevole per un prodotto all’ultimo grido, dovrà passare il resto delle sue meritate vacanze “al fresco”?
Ebbene, in questo caso i reati astrattamente ipotizzabili sono due: la ricettazione e l’acquisto di cose di sospetta provenienza, noto ai più come incauto acquisto.  La prima di queste ipotesi, prevista dall’art. 648 c.p., vuole sanzionare chi con la propria condotta miri a trarre profitto da un reato, acquistando, ricevendo o comunque occultando il prodotto dello stesso reato. La norma, parimenti, sanziona chi si intromette nel far ricevere, occultare o acquistare lo stesso prodotto. La sanzione pecuniaria va da 516 a 10.239 euro, mentre quella detentiva da due a otto anni, ma è comunque prevista una riduzione di entrambe nei casi di lieve entità. La ragione d’essere di questo reato è presto detta: è data nell’interesse collettivo alla punibilità del primo reato che, attraverso un successivo passaggio dato dalla ricettazione, risulta più difficoltosa. Ipoteticamente ben potrebbe adattarsi alla compravendita di prodotti contraffatti perché, appunto, derivanti da un primo reato (la contraffazione) e anche nei confronti del semplice acquirente finale; posto che, per la dottrina maggioritaria, il profitto nel caso di ricettazione non deve essere necessariamente economico ma può corrispondere anche a un semplice interesse personale.
Con riferimento, invece, all’incauto acquisto, questo è previsto dall’art. 712 c.p. che sanziona, con l’arresto fino a sei mesi e ammenda non inferiore a 10 euro, chi acquista o riceve a qualsiasi titolo prodotti senza averne accertata la provenienza. Tali merci, per la qualità, prezzo, provenienza o apparenza di chi le offre, devono dare motivo di sospettare che provengano da un reato. I sospetti, a cui la norma fa accenno, hanno natura meramente indiziaria ed oggettiva. Generalmente, in riferimento ai prodotti, vengono fatti coincidere con packaging, presenza di documentazione ed etichette. Il fondamento della norma è simile a quello della ricettazione, ossia evitare la commissione di reati contro il patrimonio o, comunque, evitare ulteriori conseguenze negative di questi. Data la somiglianza delle due ipotesi, si è a lungo discusso sull’elemento distintivo dei due reati. La conclusione o, meglio la differenza, deve ricercarsi proprio nei sospetti, che sono semplicemente tali nell’incauto acquisto mentre sono caratterizzati da un plus ultra nella ricettazione, in un elemento rappresentativo e volitivo maggiore del sospetto.

Ciò detto, nonostante l’esistenza di una pluralità di norme astrattamente applicabili, il bagnante che ci ha accompagnato fin’ora può dormire sonni pressoché tranquilli: il semplice acquirente finale, chi compra il prodotto contraffatto per sé stesso, non è penalmente perseguibile. Attenzione però: il fatto che l’acquirente non sia penalmente perseguibile non significa che la sua condotta sia esente da conseguenze pregiudizievoli. Egli, infatti, risponderà dello specifico illecito amministrativo previsto dal DL n. 35 del 2005. Tale norma prevale sul precetto penale e ciò nel rispetto del principio generale regolatore del concorso apparente di norme. Appare utile, ora, ricordare che si ha concorso apparente di norme quando più norme sembrano regolare il medesimo fatto ma, in realtà, solo una di esse è applicabile nel rispetto del principio fondamentale per cui un soggetto non può essere punito più volte per il medesimo fatto storico. La prevalenza della norma amministrativa è stata discussa in passato ma, successivamente all’intervento legislativo del luglio 2009 che, intervenendo sulla stessa legge con la rimozione dell’inciso “salvo che il fatto non costituisca reato”, non rimane più alcun dubbio. La norma prevede, in particolare, la sanzione amministrativa da cento a settemila euro per l’acquirente finale che acquista, a qualsiasi titolo, cose che per il loro prezzo e qualità, o per la condizione di chi le propone, portano a ritenere violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti e proprietà industriale. Dal semplice dato letterale, comunque, si può notare come quest’ultima norma sia speciale e specifica rispetto tanto all’incauto acquisto, la cui formulazione è generica, quanto alla ricettazione facendo riferimento espresso unicamente a una tipologia di reati: la violazione della proprietà industriale, e con ciò viene fugato ogni ulteriore dubbio.

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