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Spettacolo

La mia vita con John F. Donovan: verità e spettacolo nel “film maledetto” di Dolan

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Anastasia Piperno

Stranamente, l’Italia può vantare a questo giro un’uscita anticipata rispetto alla distribuzione ciematografica internazionale: La mia vita con John F. Donovan (2018), penultimo film del giovane prodigio canadese Xavier Dolan. Tuttavia, non si è sicuri che sia propriamente un vanto, data la sua nomea di “film maledetto”. La fase di produzione è stata infatti travagliata. Si tratta del primo film in lingua inglese del regista, un progetto avviato ancora nel 2014, con un budget superiore, “americano”, di trentacinque milioni di dollari, e con un cast stellato. Fece scalpore il rilascio di una prima serie di locandine promozionali, volte anche ad attirare l’attenzione sugli attori presenti, tra cui Jessica Chastain, salvo poi, in fase di montaggio, dover rimaneggiare molto, fino a tagliare tutte le scene con la Chastain stessa. Dolan sembrava confuso: la fase di montaggio era tormentata e lasciava intendere che non avesse un focus chiaro sulla propria materia narrativa, tanto che anche altre trattative non sono andate in porto, come il cameo di Adele – che pure è presente nella colonna sonora – e le parti recitate da Bella Thorne, altrettanto tagliate.

Si può pensare al film maledetto per eccellenza, L’uomo che uccise Don Chisciotte di Gilliam, e considerare che siamo ben lontani da un tale investimento personale e dai suoi venticinque anni di produzione. In confronto alle traversie infernali di Gilliam, anzi, c’è occasione per stemperare. Infatti, il film di Dolan viene presentato comunque al Festival di Cannes nel 2018, ma il direttore del festival, Thierry Fremaux, afferma che lo stesso Dolan fosse insoddisfatto, pronto a ritirarlo dopo la première europea per procedere a un’altra fase di editing. Un progetto stentato, dunque, con una lunga fase di post-produzione e che lasciava gli spettatori in attesa, con il timore che si trattasse di un flop su cui rattoppare. Il film torna poi al Toronto International Film Festival, massacrato dalla critica, giudicato il lavoro peggiore del regista, se non addirittura un disastro, e soprattutto una cocente delusione. Rimane non distribuito nelle sale commerciali sia degli Stati Uniti che del paese natale del regista. Soltanto in Francia ha un’uscita in sordina, con un’affluenza di un terzo rispetto alla norma del regista, e incassando a livello internazionale e fino ad oggi soltanto due milioni a fronte dei trentacinque spesi. Era forte la stima riservata a un enfant prodige con una carriera prolifica e senza inciampi prima d’ora, con un esordio alla giovanissima età di vent’anni, J’ai tué ma mère (2009), dall’impronta autoriale già molto forte. Dolan, tuttavia, si sta rialzando dalla scottatura pubblica con l’ultimo Matthias e Maxime, più cauto e più timido, presentato al Festival di Cannes di quest’anno. Pur non essendo stato accolto con un’entusiasmo pari ai suoi più grandi successi (Mommy), ha già un favore decisamente superiore al suo predecessore.

La maschera affascinante dell’idolo pop: luci e ombre

Le ambizioni di La mia vita con John F. Donovan sono ben visibili. Innanzitutto, la struttura narrativa si articola su più fronti. Da una parte c’è il già ricorrente primo livello dell’intervista, su cui Dolan ha edificato le proprie storie sin dai primi lavori (J’ai tué ma mère, Les amours imaginaires, Laurence Anyways). Una giornalista, Audrey Newhouse (si suppone ex-ruolo della Chastain, ora di Thandie Newton), ha il compito di intervistare l’autore di un nuovo libro, Rupert Turner, il quale ha voluto raccogliere tutte le lettere della propria corrispondenza con una star dei primi dieci anni Duemila, John F. Donovan, protagonista di alcuni film e serie tv amati da molti giovani spettatori. Le lettere fecero scalpore nell’opinione pubblica, che ne era già a conoscenza ben prima dell’intervista, perché ricoprivano il tempo di cinque anni e riguardavano l’attore trentenne e l’”amico di penna”, che all’inizio del dialogo aveva soltanto sei anni. Lo scambio di lettere fu troncato alla notizia della morte dell’attore per overdose. Nel raccontarsi alla giornalista, Rupert origina altri due linee narrative, ovvero la narrazione retrospettiva della sua infanzia, e poi i trascorsi dell’attore nel periodo della corrispondenza. Si tratta di un progetto in parte nuovo per Dolan. Se non è inedito il focus preferenziale sulla dimensione personale e affettiva dei propri personaggi, spesso narrati in una riflessività retrospettiva tramite l’intervista, lo è invece l’importante incursione tematica nel mondo dello spettacolo, che fa palesare l’ambizione di un commento più vasto, dal personale al sociale. Questo avviene proprio nel momento della propria carriera in cui Dolan è pienamente in una produzione americana a grosso budget. Egli peraltro condivide con il bambino protagonista una passione per la cultura cinematografica americana, dato che scrisse a sua volta una lettera a Leonardo Di Caprio all’età di nove anni. La sua entrata in questo mondo non poteva che riportarlo ai miti d’infanzia, al suo amore dichiarato per Titanic e per altre icone della cultura hollywodiana (significativamente c’è una lontananza geografica tra il bambino pieno di sogni, che vive in una cittadina britannica, e l’attore, immerso nel mondo americano e per questo più apprezzabile). Allo stesso tempo è occasione per una riflessione sul rapporto tra mito pubblico e persona privata.

Foto: tgcom24.mediaset.it

Non è nuova per Dolan neanche la citazione letteraria a introduzione del film, né una certa cultura letteraria all’interno del testo filmico. Questa volta è Walden di Thoreau che apre le danze: «Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità!», una frase di un autore dagli ideali di libertà, di autenticità e di indipendenza, non a caso citata anche in Into the Wild di Sean Penn. Tuttavia, si è in un film in cui sono gli attori ad essere in primo piano, così come la ricostruzione di un fan non verificabile fino in fondo, dato che la sua comunicazione privilegiata e sincera con l’attore è sempre messa in dubbio dall’identità di chi gli risponde (è veramente l’attore stesso? O è un ghost writer?). Così anche lo stesso Rupert, nel momento in cui si presenta alla giornalista, usa un linguaggio di ironica derivazione letteraria, improvvisando narrazioni in terza persona su sé stesso e su di lei. Appare dunque un personaggio sensibile già in primo luogo alla dimensione fittizia, dai libri letti ai prodotti audiovisivi visti, in primo luogo quelli di Donovan. Per giunta, Rupert ha intrapreso sin da piccolo una carriera attoriale, dunque deve sempre passare in una dimensione finzionale attraverso la sua stessa persona. Dolan ha già giocato con questa dimensione: in J’ai tuè ma mére il sé è raccontato a partire dall’esperienza autobiografica ravvicinata, l’emotività difficile e diretta dell’autore che non ha paura di scrutarsi attraverso la propria arte. Lì, tuttavia, permaneva un certo interrogativo tra quanto fosse vero o falso, una volta che questa esperienza è stata portata in un film a soggetto. Peraltro anche Dolan ha una carriera d’attore: ha recitato in alcuni suoi film (oltre all’esordio, Les amours imaginaires e Tom à la ferme) e in altri (ad esempio lo vedremo presto nel cast di It – Capitolo due di Andy Muschietti). Anzi, è diventato noto proprio per essere un autore a tutto tondo, riprendendo la corrente che ha portato in auge questa tendenza nella storia del cinema, cioè la nouvelle vague: non solo dirige, ma scrive, cura la colonna sonora e il montaggio e recita: ci mette davvero la propria faccia, si potrebbe dire, senza paura di osare nelle sue scelte stilistiche. Il dramma dell’attore John F. Donovan invece è in antitesi, tanto che significativamente all’anagrafe ha un altro cognome. Si mantiene anche una certa impossibilità di rivelarsi in maniera incontrovertibile a causa del fatto che tutto il racconto è pur sempre filtrato dalla percezione di un esterno, di un fan. Donovan pare una marionetta del sistema hollywoodiano: l’immagine costruita per lo spettacolo è ben distante dalla sua persona reale. Rupert invece vorrebbe rendere il pubblico conscio del suo dissidio tra maschera e io, svelare il prezzo pagato dall’idolo dei tempi per rimanere tale. Dunque, l’intento è anche di denunciare lo stesso sistema dello spettacolo, che decide spesso dell’immaginario di un vasto pubblico e allo stesso tempo sottovaluta le sue potenzialità ricettrici. Attorno a questo tema di verità e finzione gravita una grossa parte del film.

Foto: badtaste.it

Tanti fattori interdipendenti si intrecciano. Hollywood è nota come fabbrica dei sogni, ma proprio nel lavorìo di questa fucina tanto vi è sacrificato: per produrre store di pathos, di presa di massa, è necessario non soltanto edulcorare, ma correggere continuamente a favore di un ideale che possa far sognare gli spettatori, farli uscire fuori dalla loro vita media, fatta anche di mediocrità, di sofferenza, di polvere e di noia, di realizzazioni mancate e chissà se mai raggiungibili. Da qui la necessità di tagli nel testo filmico, per condensare, essenzializzare la storia di una vita, ad esempio, per i momenti migliori e più significativi, lasciando fuori ciò che è irrilevante, ciò che è la parte meno illuminata della vita che scorre. Anche lo star-system è confezionato per compiacere il bisogno di evasione del pubblico. Soprattutto, c’è un transfer da un fan al suo idolo: ciò che si vorrebbe essere è trovato in una particolare stella cinematografica al cento per cento. L’idolo è infatti cristalizzato, è più di noi, un modello (patinato) a cui tendere e che è spoglio delle scorie insoddisfacenti di una vita normale. Anzi, la costruzione dell’identità attua uno scambio continuo con i propri idoli. Un’ambizione, un impulso è ritrovato in un attore-icona, ma la stessa icona influenza poi lo spettatore rispetto alle sue ambizioni, a ciò che vorrebbe diventare, sia nel versante professionale che in quello personale.

Tuttavia, proprio quell’attenzione costante alla vita privata, che genera d’altronde fenomeni positivi come lo stesso cinema di Dolan, ha anche i lati soffocanti del fenomeno tra idoli e fan. Non sono pochi gli attori – ad esempio Rock Hudson – che hanno dovuto sacrificare libertà e indipendenza, anche nella propria sessualità, per un’immagine da tenere fino in fondo, persino fuori dal set, dove vi sarebbe il diritto di una vita eminentemente propria. A questo culto del privato, a cui si aggiunge la mania vorace del gossip, che spesso rovina gli attori, si può integrare pure la voglia di una corrispondenza dello stesso Rupert o la possibilità di un sospetto iniziale sul motivo per cui Rupert voglia riesumare le sue lettere e farne un libro (sono molti gli esempi di persone poco note alla ricerca di soldi e fama alle spese dell’intimo di star, attraverso rivelazioni che fanno scalpore). Gli ideali di Thoreau dunque sono tutto ciò che ha soffocato Donovan, la cui scoperta di sé più approfondita è stata recisa già negli anni della gioventù, con un “non posso” che lo seppellisce, lo infossa giorno dopo giorno, fino alla tragica fine. Il tema del queer e dell’ambiente LGBT è costante in Dolan e non manca nemmeno qua, come ciò che è soffocato dall’esigenza dello spettacolo. Ed è anche questo, ripensando all’autobiografismo di Dolan, che non gli consente di essere un attore e artista di valore indubitabile: se per Dolan l’arte è riversare sé stessi per poter “esplodere”, Donovan, reprimendosi continuamente, non esce dalla sfera del mestierante di bell’apparenza, timoroso di rompere lo schermo. Così anche il suo monito ai fan di essere sé stessi diventa una recita paradossale, una formula di massa mai attuata per sé, nemmeno con la propria famiglia o i propri amori.

In un film sul potere attoriale, Dolan ha scelto proprio di ricorrere a continui primi piani molto ravvicinati. D’altronde, una parte importante del valore del suo cinema è proprio nella potenza espressiva degli attori. Come accennato, un cast importante in La mia vita con John F. Donovan lo aiuta: Natalie Portman, Susan Sarandon, Kit Harrington, Kathy Bates, Michael Gambon e altri. Lo stesso Rupert bambino è un nome noto a Hollywood: è Jacob Tremblay (era anche il bambino di Room e di Wonder). Lo stesso Dolan, pur distaccandosi dai codici di Hollywood attraverso uno sperimentalismo più accentuato e una distintiva sincerità, ha costruito il proprio cinema sul pathos e spesso ha reinterpretato il mélo declinandolo nella sua corda personale. Lo stile che osa riguarda anche la carica emotiva delle sue scene, dove non solo molto è investito nella capacità di un attore, ma anche nella sua mano, che non teme il ricorso frequente e spettacolare al ralenti, accompagnato da una colonna sonora ad alto volume, volta a dilatare momenti chiave dell’intimo dei personaggi. La colonna sonora spesso è mainstream, non ha paura di dichiarare il proprio gusto talvolta non raffinato (sorprese nel precedente È solo la fine del mondo con Dragostea din tei): in La mia vita con John F. Donovan non c’è soltanto Rolling in the Deep di Adele, ma anche Adam’s Song dei Blink-182, Jesus of Suburbia dei Green Day, Bittersweet Symphony dei The Verve, Stand By Me cantata da Florence + The Machine. Una colonna sonora che può costituire un’ulteriore aggiunta sul tema della cultura di massa e di chi vi ha contribuito artisticamente, considerando che una buona parte di queste persone sono proprio della cultura del decennio scorso, come lo stesso di Donovan. In La mia vita con John F. Donovan il poter godere di alcune scene chiave di questo tipo, riconoscendone l’energia del regista canadese, è compromesso dal fatto che siano frammiste a momenti dove le corde del film virano sullo stucchevole, fino ad allora estraneo a Dolan, dando il risultato claudicante criticato da molti.

Foto: thespacecinema.it

Altrettanto depotenziato in generale, con punte di diamante qua e là, è il riproposto rapporto madre-figlio travagliato, fino a una famiglia disfunzionale più larga (come in È solo la fine del mondo), accennata, ma non approfondita. La propria natura più vera è sempre collegata per Dolan al rapporto con la madre. Qui essa è protettrice, figura più dimessa. Sarandon, che interpreta la madre di Donovan, pare una figura dell’America del focolare, di provincia, con i modi rudi e con problemi taciuti rispetto alla giovialità tenuta (ad esempio l’alcolismo). Portman invece, madre di Rupert, è un’attrice che non è riuscita a decollare e si è accontentata di un’esistenza più “ordinaria”, ma che potesse garantire la sopravvivenza a lei e il figlio, considerando che il marito si è allontanato. Tuttavia la possibilità di un aggiustamento e di un riscatto passa proprio per il confrontarsi con le madri, per una riappacificazione, un ritorno nell’affettività del grembo materno il cui sentimento, per quanto disordinato e non sempre ideale, è veritiero. Non a caso, la madre di Donovan ricorda al figlio che, per quanto dichiari che i due siano su pianeti diversi, lei viene da questo pianeta e lui da lei. Un’estraneità totale del tutto impossibile e da cui partire per ritrovare sé stessi, in quel fondamento sanguigno che si sposa bene con l’animo di Dolan.

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