Il mese di giugno, come sempre nella bella stagione, ci ha portato tanti tormentoni estivi e relativamente pochi album. Tra chi è impegnato a capitalizzare le ultime uscite in giro per i festival e chi invece si sta preparando al meglio per la stagione indoor, solo alcuni nomi, perlopiù big, hanno deciso di regalarci i propri lavori sulla lunga distanza. In questa rubrica mensile andremo ad analizzare alcune fra le uscite discografiche più interessanti, deludenti, curiose e quant’altro che hanno segnato il mese appena trascorso. Quali sono i dischi che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato questo giugno 2019? Andiamo a scoprirlo insieme.
Spoglio, ruvido, delicatamente brutale: The Book of Traps and Lessons, ultima fatica della cantautrice/artista spoken word Kate Tempest, è un angosciante ritratto della realtà attuale, una disturbante fotografia della società moderna che colpisce con un’inattesa violenza l’ascoltatore. Con la preziosa collaborazione dell’ormai leggendario Rick Rubin come produttore, Kate Tempest offre una conturbante visione del suo presente, interpretando i suoi testi con sincera tristezza e profonda rabbia ma mantenendo sempre una nota di fragilità nella sua voce, come se fosse sul punto di sgretolarsi assieme al flusso di parole che fuoriesce dalla sua bocca. La musica è appena accennata, talvolta proprio assente: la parola è al centro dell’opera, come il titolo suggerisce. Un disco, ma allo stesso tempo un libro. Il contesto sociale e politico in cui è ambientato è chiaro: dalla Brexit – come si intuisce già dalla copertina con le isole britanniche, paese d’origine della londinese Tempest – alla crisi ambientale, passando per i flussi migratori e il razzismo, viene dipinto uno scenario apocalittico dove apparentemente non sembra esserci speranza di redenzione per l’umanità, ormai condannata dalle scelte che l’hanno portata in un mondo grigio e tetro. Ma non c’è frustrazione nell’animo di Tempest: un sentimento di speranza, uno sguardo di ottimismo per il futuro, per quanto difficile da perseguire, si delinea all’orizzonte. È qui che Tempest, in maniera molto intima, vuole offrire una possibilità di salvezza a chi faccia lo sforzo di ascoltarla; le strade da percorrere non sono quelle più semplici dell’odio e dell’intolleranza, ma quelle più intricate dell’amore e della condivisione. Una presa di coscienza convinta e convincente, dove la musica si pone in secondo piano rispetto alla teatrale interpretazione di Kate Tempest. Un disco profondamente emotivo e che pretende una piena attenzione durante il suo ascolto, ma che ripaga lo sforzo. 8/10.
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Il cantante dei Radiohead alla sua terza prova solista (quarta, se si considera la colonna sonora di Suspiria di Luca Guadagnino uscita solamente qualche mese fa) si ripresenta quasi a sorpresa con ANIMA. L’album, composto da nove tracce, è anche idealmente il seguito ideale di quel Tomorrow’s Modern Boxes che cinque anni fa vedeva il nostro, sempre accompagnato dal produttore Nigel Goldrich, abbandonare la forma canzone di The Eraser in favore di una elettronica più pura. Il rapporto con il precedente lavoro è ambivalente in ANIMA: se da un lato l’intento resta quello di svincolarsi da strutture premeditate in favore di un flusso di coscienza e di un caos musicale, il risultato finale è invece quanto mai compatto e denso di brani godibili, sia di per sé che nell’economia dell’album. Dagli iniziali ritmi ossessivi di Traffic, passando per il pezzo migliore del lotto, Last I heard (…he was circling the rain), fino al finale Runwayaway, Yorke disegna un universo solo apparentemente privo di struttura canzone e destinato alla cultura club (oltre che all’omonimo documentario in programmazione su Netflix). Dalla coerenza dell’insieme emergono invece i singoli brani, che così lasciano un segno oltre al semplice (ma mai banale) ritmo ballabile. Una quadratura del cerchio per lo Yorke solista che, pur muovendosi sempre a livelli altissimi, mancava dell’incisività presente nei Radiohead. 7.5/10.
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A distanza di cinque anni da Pinata, il DJ Madlib e il rapper Freddie Gibbs tornano in studio per Bandana, secondo, riuscitissimo capitolo del loro sodalizio artistico. I due nomi potrebbero non sembrare un’accoppiata così vincente: da un lato Madlib, figura iconica nell’hip hop degli ultimi vent’anni e noto per le sue produzioni sofisticate ed eclettiche, dall’altro Freddie Gibbs, fra i migliori gangsta rapper in circolazione e dallo stile estremamente diretto e aggressivo. In realtà, l’incontro/scontro fra queste due figure musicali complementari è una combinazione azzeccatissima: l’attitudine da uomo del ghetto di Gibbs trova la sua dimensione sui raffinati sample di nostalgica black music di Madlib, creando uno scenario da film di blaxploitation anni Settanta. Madlib allestisce con minuzia cinematografica l’ambientazione, mentre Gibbs interpreta il ruolo di un uomo tormentato dai demoni di una vita criminale in cui suo malgrado si è ritrovato. Allo stesso modo, gli episodi raccontati e i personaggi citati del disco sono profondamente legati alla comunità afroamericana, da Tupac alla star dell’NBA Allen Iverson, Gibbs ritrae un’immagine più critica e incerta di questi individui, distendendosi sulle basi composte da batterie ruvide, chitarre jazz sinuose, sostenute linee di basso e da malinconiche voci soul. Non mancano gli ospiti di un certo calibro: Pusha-T, Killer Mike, Anderson Paak sono alcuni dei nomi che fanno una comparsata per dare il loro contributo a Bandana. Va però detto che la presenza di questi nomi, per quanto preziosa, non porta un valore aggiunto così distintivo, visto che il vero punto focale del disco rimane la dicotomia fra Gibbs e Madlib, le due anime di cui Bandana è la sintesi. 7,5/10.
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Glitterball, corpi stanchi e sudati dopo una notte di danze, la cassa dritta che cede il passo alle orchestrazioni e all’introspezione e ovviamente tanti tanti anni Ottanta nel nuovo album di Mark Ronson. Preceduto dalla perla Nothing breaks like a heart cantata da Miley Cyrus, Late Night Feelings si sviluppa sullo stesso semplice concetto: tutto l’album è un susseguirsi di prime donne della musica, dall’indie al mainstream, che si alternano nell’interpretare i dodici brani. Da Angel Olsen a Lykke Li, passando per Alicia Keys, Ilsey e Camilla Cabelo, il pregio di Mark Ronson, oltre ovviamente alla produzione sopraffina a cui ci ha abituato da sempre, è quello di aver saputo gestire un cast così ingombrante, indirizzandolo alla perfezione persino in ambienti musicali inediti per le artiste in questione. Il risultato è un collage di pezzi che sono piccoli capolavori di eleganza e scrittura pop, come il primo singolo, o True Blue, in cui Angel Olsen viene catapultata tra algidi synth che ricordano il Trip-hop dei Portishead. Un lavoro meno da classifica di quanto si possa pensare vedendo i nomi coinvolti, ma per certi versi molto simile a quel RANDOM ACCESS MEMORIES dei Daft Punk che è già un instant classic. 7/10.
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In occasione della sua seconda uscita con la Hyperjazz Records, Go Dugong – nome d’arte di Giulio Fonseca – decide di andare a riscoprire le radici musicali della sua città d’origine: l’ep TRNT è infatti dedicato a Taranto, città da cui il musicista di stanza a Milano proviene. In quattro brani, Go Dugong porta l’ascoltatore in un viaggio per altrettante zone della sua città: Salinella, Tamburi, Ilva e Lama. Dopo Balera Favela, in cui aveva trovato il punto d’incontro fra le ritmiche latinoamericane e la musica da club, Go Dugong scava nella tradizione salentina della tarantella e la inserisce in un contesto elettronico inedito. Il risultato è un convincente EP di trascinante bass music, dove trovano spazio però anche altri strumenti esotici e appartenenti a diverse culture musicali, dal didgeridoo alle percussioni africane. Attraverso questa pizzica in chiave elettronica, Go Dugong descrive la bellezza decadente di Taranto, con le sue problematiche e i suoi drammi (come in particolare, la ben nota situazione dell’Ilva). TRNT coglie le contraddizioni della cittadina ionica e le rappresenta nelle alienanti ritmiche della tarantella, guardandola con un occhio di nostalgico amore e di malinconia. L’effetto ipnotico dei convulsi tamburelli salentini permette di raggiungere uno stato di estraniazione in cui perdersi, mentre sullo sfondo si percepisce quello che è il drammatico ritratto di una meravigliosa città in declino. Un lavoro breve ma intensissimo, dove la musica non solo racconta i traumi di Taranto, ma è anche una via di fuga, un tentativo di cura di questi mali in una incondizionata dichiarazione d’amore di un uomo per la sua città. 7/10.
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Ben undici anni sono passati da quel Consolers of the Lonely che confermò il successo dei The Raconteurs dopo lo strepitoso esordio di Broken Boy Soldiers, con quella Steady as she goes che ancora oggi la fa da padrone in playlist e pre-concerti rock. D’altronde stiamo sempre parlando di una creatura di Mr. Jack White, qui in coppia con il cantautore Brendan Benson. Undici anni sono tanti; certo, sembrano molti meno se si pensa che in questi undici anni l’ex White Stripes ha rilasciato tre album da solista (tra cui lo sperimentale/sconclusionato e sfortunato Boarding House Reach del 2018), ampliato la propria etichetta Third Man Records, e confermato il fortunato sodalizio con la front-woman dei The Kills Allison Mosshart nei The Dead Weather, al loro terzo album. Di certo c’è che in undici anni i gusti musicali del pubblico cambiano e quel garage rock che è sempre stato la cifra primaria dei Raconteurs ha molto meno appiglio sul pubblico che in passato. Qual è quindi la ricetta di Help Us Strangers? Presto detto: fregarsene e riproporre quel garage rock. Indispensabile in questo il contributo di Brendan Benson, che va a smussare e arricchire in più di un brano la scrittura molto più dura e diretta di Jack White, pur essendoci qualche momento prevedibile di troppo. Ne vien fuori un album comunque più che godibile, anche se con un vago sapore di “fuori tempo massimo”. Prendere o lasciare. 5/10.
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Le recensioni di The Book of Traps and Lessons, Bandana, TRNT sono state curate da Vittorio Comand.
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