A Hong Kong, la protesta contro le autorità di Pechino continua. Dopo le manifestazioni del 9 e del 16 di giugno scorsi, le più grandi da quando Hong Kong è rientrata sotto il dominio cinese nel 1997, l’attenzione della stampa occidentale è scesa, ma le proteste non si sono fermate. Lo scorso 1 luglio, giorno dell’anniversario del trasferimento di sovranità dal Regno Unito alla Cina, un gruppo di giovani manifestanti con elmetti da cantiere e maschere protettive è entrato nella sede del Consiglio Legislativo di Hong Kong e ha alzato sull’edificio la bandiera coloniale britannica. Un gesto ricco di significati, che vent’anni fa sembrava impossibile.
Per cosa protestano
La mobilitazione è iniziata lo scorso giugno, per manifestare il dissenso contro una legge che avrebbe introdotto l’estradizione dei prigionieri verso la Cina. In un paio di settimane, si sono tenute le manifestazioni più imponenti della storia recente di Hong Kong. Secondo gli organizzatori, circa due milioni di persone sono scese in piazza lo scorso 16 giugno, un numero che equivale a circa il 30% della popolazione della Regione Amministrativa Speciale. Le immagini che circolano in questi giorni ricordano quelle della cosiddetta rivoluzione degli ombrelli del 2014, quando le strade di Hong Kong furono invase da migliaia di persone che protestavano per ottenere maggiore democrazia. Dopo le proteste, il governo cinese ha per il momento deciso di sospendere il progetto di legge che prevedeva la possibilità di introdurre e agevolare l’estradizione verso la Cina per alcuni reati. Infatti, attualmente le leggi di Hong Kong sull’estradizione si basano su una serie di accordi bilaterali con altri paesi tra cui non rientra la Cina continentale. La nuova legge avrebbe invece reso possibile l’estradizione per reati come omicidio o violenza sessuale. La preoccupazione più grande dei cittadini di Hong Kong era che questa legge potesse permettere alle autorità cinesi di compiere violazioni di diritti umani e estradare i dissidenti politici.
La storia di Hong Kong
Come in altri casi del passato, il progetto di legge sull’estradizione è stato solamente la punta dell’iceberg di un sentimento di rivolta che in realtà è ben più profondo e radicato. Per capire bene le ragioni delle proteste bisogna risalire alla storia recente di Hong Kong. La regione, infatti, fu ceduta dalla Cina alla Gran Bretagna nel 1841 dopo la prima guerra dell’oppio. Da allora è sempre stata una delle più importanti colonie britanniche e, soprattutto negli ultimi anni del Novecento, questo ha permesso uno straordinario sviluppo civile ed economico del territorio. I 156 anni di dominio britannico si sono conclusi nel 1997, quando la sovranità sulla regione è passata di nuovo alla Repubblica Popolare Cinese. Questo trasferimento è stato accompagnato da un accordo tra i due paesi che prevede una sorta di per la Regione Amministrativa Speciale. Per un periodo di cinquant’anni Hong Kong godrà di un regime giuridico e amministrativo speciale. Secondo la formula “un paese, due sistemi”, Hong Kong gode di una certa autonomia dal governo centrale: ha un proprio parlamento e non ha competenze solo in materia di politica estera e difesa. Nonostante non ci sia piena democrazia e nonostante gli interessi cinesi siano sovrarappresentati nel governo locale, i cittadini di Hong Kong godono di diritti e libertà ben maggiori rispetto ai loro concittadini della Cina continentale. Sul territorio hanno effetto tutti i trattati sui diritti umani firmati dal Regno Unito prima del 1997: la stampa è teoricamente libera, l’opposizione politica è possibile, come dimostrano le manifestazioni degli ultimi mesi. Il grado di autonomia della “città-stato” è dunque molto ampio e comprende anche il sistema giudiziario, che segue le regole del common law britannico, e il sistema economico, caratterizzato dal un iper-capitalismo. Dunque, Hong Kong è un vero e proprio esperimento di commistione tra Occidente e Oriente.
Negli ultimi anni, però, i cittadini di Hong Kong hanno la sensazione che l’Oriente si stia avvicinando fin troppo. Il 2047, anno in cui finiranno i cinquant’anni di transizione, appena ventidue anni fa sembrava molto lontano, oggi invece sembra avvicinarsi sempre di più e Pechino sta cercando di accorciare il più possibile i tempi per ritirare l’autonomia. L’amministrazione di Hong Kong è ormai completamente screditata, la leader, Carrie Lam, sarà probabilmente costretta a dimettersi dopo le ultime proteste, per cui Pechino deve vedersela in prima persona con i manifestanti. Se la Regione vuole continuare a mantenere un minimo livello di autonomia nel futuro, deve cominciare ora a negoziare un accordo con la Repubblica Popolare Cinese. Dall’altra parte, i leader del Partito Comunista Cinese non possono permettersi di concedere troppo a Hong Kong, con il rischio che le altre Regioni autonome, come Macao, o gli altri territori con spinte indipendentiste, come Taiwan, emulino i loro concittadini. La stabilità sociale e il tacito consenso politico sono due elementi ritenuti fondamentali per il proseguimento dello sviluppo economico cinese, per cui Pechino tenderà a interferire e a sopprimere sempre di più le voci di protesta provenienti da Hong Kong.
La nuova generazione di manifestanti
Questa volta, però, il lavoro da fare non sembra affatto semplice. La nuova generazione di Hong Kong non ha mai conosciuto il dominio britannico, è nata già sotto quello cinese, godendo però di uno status speciale che ha permesso ai giovani di essere più simili ai loro coetanei occidentali che ai concittadini continentali. Questa generazione è testarda e coraggiosa, pronta a sfidare un governo che intende negare anche le più elementari libertà.
Inizialmente, la cessione della sovranità alla Cina, da parte del Regno Unito, era stata vista di buon occhio dagli abitanti. Il Regno Unito, per i cittadini di Hong Kong che sono per più del 90% di etnia cinese, rappresentava una potenza colonizzatrice. La Cina della fine del secolo, invece, era la madrepatria. Inoltre, si iniziava a vedere qualche possibilità di apertura della società cinese, che però non si è realizzata. Negli ultimi anni, con l’irrigidimento del sistema effettuato da Xi Jiping, le speranze di un’occidentalizzazione cinese sono pressoché scomparse.
I giovani di Hong Kong, abituati ad avere le loro libertà, vedono i 50 anni di regime differenziato previsti dall’accordo tra Cina e Regno Unito passare troppo in fretta. Il braccio di ferro di Pechino sembra stringersi sempre di più e sempre più velocemente. L’identità culturale e politica della popolazione non è, però, facilmente modificabile: la sola possibilità di manifestare e di esprimere dissenso, cosa che ai cinesi continentali non è minimamente concessa, è una libertà alla quale gli abitanti di Hong Kong non rinunceranno facilmente. La Cina deve dunque fare i conti con la storia. Hong Kong è molto diversa da Pechino o da qualsiasi altra città cinese, è troppo occidentale, troppo capitalistica per essere integrata pacificamente e senza concessioni nel grande stato asiatico.