Da dieci anni è in corso a Bologna una guerriglia civile a bassa intensità, un micro-conflitto urbano diffuso che si abbatte sui muri, i pali, le colonne e i portoni del centro storico a colpi di bombolette, pennarelli, marker e stencil; una guerra combattuta da un gruppo di soldati eterogeneo, dai ragazzini «sfigati» con le bonze, «gli sticker e gli stencil», agli studenti universitari con inclinazioni artistoidi. È la guerra delle scritte.
Emergenza cromatica: le tag
A Bologna, più che quella climatica di cui si parla oggi, l’emergenza è cromatica. Il centro storico si distingue per una cromia ben definita degli intonaci dei palazzi, vero e proprio tratto caratterizzante della città costante nei secoli, normato dal regolamento del Comune. Oltre agli intonaci, va considerato anche il cotto, materiale da costruzione diffusissimo sin dall’età etrusca a causa della scarsità delle pietre, utilizzato sia nell’edilizia sia nella statuaria (in città vi sono infatti numerosi compianti in argilla). I colori predominanti, caldi e morbidi, sono il rosso, il giallo e l’ocra. Si tratta di una tipicità regionale, o almeno emiliana, diffusa in tutti i comuni dell’area della città metropolitana e anche nelle campagne.
Le tag, numerosissime (varie decine di migliaia), non risparmiano nessuna strada, a parte poche eccezioni come via Fondazza e via Frassinago, e compromettono gravemente l’equilibrio visivo dei portici. Queste si ripetono in maniera ossessiva e agglutinante addensandosi in alcuni spot, seguendo una progressione batterica, come le infezioni, per cui dove ce n’è una ne compare subito una pletora. Il loro significato è autoreferenziale, valido solo per l’autore e i soggetti a cui è specificatamente indirizzato, cioè gli altri writer e le crew avversarie. Per un passante, una tag su un muro non ha significato, è solo uno scarabocchio; per l’autore, è un simbolo della propria identità.
Oltre a costituire un irrimediabile guasto estetico, si tratta anche di un atto di prevaricazione sugli altri e di imposizione forzosa di sé stessi nello spazio condiviso, perché ciò che i writer non riescono a capire, rinchiusi in una bolla tribale che atomizza la società e sembra avere la stessa matrice mentale del familismo amorale di stampo mafioso, è che i muri non sono semplici “muri”, ma parti di case, e quindi estensioni affettive di chi vi abita. Alterarne la superficie quindi, oltre a non permetterci di goderne le qualità intrinseche (cromatiche, architettoniche) e dunque di fatto limitando la nostra libertà, significa anche e soprattutto insidiare l’identità degli inquilini, o meglio quella porzione di identità che, policentrica e diffusa, si riflette nella cura della propria abitazione. Ciò provoca un vero e proprio disagio emotivo e psichico tra i fruitori passivi e coatti del segno (i passanti), una sorta di insofferenza che demoralizza e incattivisce i cittadini, specialmente le persone anziane o non più giovani, minando il sentimento sociale e compromettendo l’attitudine bolognese storicamente orientata alla collaborazione e alla fiducia.
Inoltre, le tag (almeno quelle del centro di Bologna) hanno completamente esaurito il loro portato innovativo e ribelle e smesso di essere «una forma di riqualificazione auto-organizzata», brandalista, colorata e rivoluzionaria, di lotta all’ordine costituito, riducendosi a un fenomeno stagnante e drammatizzato. Da unico mezzo per esprimere sé stessi in un contesto critico ed escludente come era il ghetto di New York negli anni Settanta, lo spontaneismo dei writer si è degradato in un vandalismo becero e ottuso, quasi mai site-specific o basato su un serio studio del lettering. Pur potenzialmente fertile in quanto sintomo di una crisi, anzi della crisi che investe l’Occidente, in sé non porta nessuna opportunità di avanzamento o nuovo orizzonte, e quindi è sterile, se non quasi reazionario. È un processo macchinale che dietro non ha nulla e davanti ancora meno, perché un conto è scrivere sui muri per reagire al degrado e passare dai «ferri ai microfoni, dai coltelli ai piatti, dalle bombe alle bombolette, dalle botte alla break dance»; un altro è scriversi addosso, portando di proposito il degrado in contesti che degradati non sono. L’invito di pionieri del writing come Phase 2 (che Bologna la conosce molto bene, avendo collaborato coi Messaggeri della Dopa e con l’FCE) a non scrivere su luoghi di culto e sugli edifici di interesse storico è stato dimenticato. Vale la pena ricordarlo: a differenza del Bronx del 1970, a Bologna non ci sono ghetti, la povertà è limitata, non ci si spara dai finestrini, non c’è discriminazione razziale e la città possiede uno dei centri storici medievali più belli d’Italia. Bologna, nemmeno nelle periferie, non è né anonima, né alienata, né grigia. A parte un generico disagio personale e una buona dose d’ignoranza, non c’è nessun motivo per scrivere (così tanto e così male) su un muro. Scegliere volontariamente di deturpare la città, questo tipo di città in questo periodo storico, solo per soddisfare il proprio ego lasciando un segno, è un atto vigliacco che nessuna crisi di appartenenza, impeto di rappresentanza o ansia di riconoscimento può scusare.
Le tag, poco a poco, con un’incidenza direttamente proporzionale all’aumento del loro numero, rimodellano e colonizzano il tessuto urbano inficiando la sedimentazione dei significati. La città smette di essere una realtà complessa e stratificata, dal punto di vista diacronico e culturale, e diventa un’immensa visione orizzontale a una dimensione, dove il passante è condannato a una contemporaneità a-storica (o iper-storica): spossante, scorporata e opprimente.
Muri come bacheche? L’imperio della vista
A Bologna i muri non sono più muri, ma bacheche pubbliche (tanto che su Palazzo Paleotti, in Piazza Verdi, nel cuore della zona universitaria, vi era sino a qualche anno fa la scritta “bacheca”, con tracciato un quadrato nero a delimitare un immaginario pannello) del tutto simili a quelle dei social network, dove ognuno scrive quello che gli passa per la testa. Aforismi, giochi di parole, pensieri, pseudo-poesie, dichiarazioni d’amore, riflessioni, citazioni.
Forse non è azzardato ipotizzare un nesso tra il nostro bisogno ossessivo di comunicare (digitale, mobile e incorporeo), e il proliferare del fenomeno delle scritte, perdurante ma caduco, che non a caso interessa i giovani, i quali considerano del tutto naturale il gesto di affidare le proprie confessioni (come quelle che si trovano sulla pagina Facebook Scritte ignoranti a Bologna o Rimasugli) a un muro. È l’imperio della vista: ogni superficie diventa schermo su cui proiettare le nostre compulsioni, in una riproposizione generalizzata del nostro rapporto patologico con computer e smartphone, in cui tutti siamo legittimati a dire ciò che ci pare solo perché possiamo dirlo. Abituati quotidianamente a una saturazione cromatica e a un irrimediabile sovraccarico visivo, effimero ed epidermico, lo replichiamo senza vergogna o pudore, seguendo pulsioni pubblicitarie e il bisogno spasmodico di ri-significare la città a nostra immagine. Talmente assuefatti alla connessione da esporre le nostre intimità riproduciamo, senza rendercene conto, i paradigmi dominanti della comunicazione di massa, creando continui surplus d’informazione. Immersi in un’attitudine malincoironica e cazzara, disillusa e individualista, pensiamo di essere poeti e invece siamo solo epifenomeni di Facebook, o al massimo di Gio Evan o della defunta Fabbrica del Degrado.
Rivoluzione permanente
Alcune scritte di matrice anarchica o riconducibili al mondo antagonista, ai collettivi e ai centri sociali, come «[nome a scelta] libero», «senza Stato si sta bene», «eat the rich», «smash capitalism» o i graffiti che ricompaiono periodicamente su Palazzo Hercolani, approntano sui muri della città una coreografia rivoluzionaria o pre-rivoluzionaria perpetua, che tuttavia si rivela essere di cartapesta, perché se la rivoluzione è permanente, ciò significa che non potrà mai avere luogo, dato che questa è per definizione episodica e consiste in una rottura di soglia. L’attesa della realizzazione esclude la realizzazione in sé, elevando sé stessa a unico orizzonte concepibile, dilatato all’infinito, e trasformandosi di conseguenza in una forza conservatrice.
Sarà il caso di essere chiari: le scritte sui muri non servono a nulla, anzi. Questo per tre motivi: primo, perché queste sono talmente tante e talmente simili che finiscono inevitabilmente per perdere la loro carica sovversiva. Diventano slogan vuoti, per cui il messaggio ne risulta annacquato, quando non completamente ignorato dal passante. Secondo, perché non hanno seguito tra la popolazione, se non un’esigua minoranza. Scrivere sui muri durante la Primavera di Praga aveva senso, perché era espressione di un moto popolare, di un sentimento di rivolta diffuso, ma oggi a Bologna, e in Italia, non c’è nessun sommovimento collettivo, nessuna agitazione ctonia scuote le masse, se non il bisogno disperante di ricostruire un nuovo tessuto sociale, che le scritte puntualmente frustrano, esacerbando il conflitto generazionale e ideologico. Terzo, e stupisce come i soggetti di cui sopra non se ne accorgano, insistendo in un’ostinazione insensata, ogni scritta va a foraggiare la campagna elettorale perpetua dei partiti di destra e destra estrema, che possono contemporaneamente aizzare la popolazione contro i “vandali”, invocando un repulisti, e screditare l’amministrazione PD, aumentando, senza quasi nessuno sforzo, i consensi. Un esempio lampante di questa dinamica è costituito dalle scritte lasciate al seguito della recente manifestazione dell’Xm24. Continuando con questo ribellismo infantile, parossistico e ultra-retorico non si ottengono risultati, se non quello invidiabile di farsi odiare dai cittadini e di squalificare l’intera manifestazione e le istanze condivisibili che questa porta avanti.
Classismo, legami e senso del sacro
Le scritte sui muri, come ben afferma Vittoria Montanaro su L’asino, non rappresentano solo un «atto ostile», ma anche un atto classista, perché a soffrirle non sono certo i cittadini più facoltosi, che vivono perlopiù in Santo Stefano (una delle tre vie pulite della città), sui colli, a San Lazzaro o in ville protette da muri e cancellate, bensì le persone comuni, un ceto medio-basso non ancora impoverito ma sempre più stanco, composto da precari, salariati, studenti fuorisede e piccoli commercianti che a causa (anche) delle scritte vedono abbassarsi il valore immobiliare delle strade in cui si trovano i propri negozi. In parole povere, chi non ha soldi per cancellarle si rassegna a subire; chi li ha, cioè le classi più abbienti, le banche e le istituzioni, che ironicamente sono il bersaglio di molte scritte, approfitta della situazione per ripulire il proprio palazzo, il quale inevitabilmente spicca e diventa uno status con cui esibire potere, costruendo un immaginario di zone a diverse velocità. Senza contare che il Comune, per risolvere il problema, deve investire tempo e risorse che potrebbero essere impiegati in altro modo. Forse che imbrattando i muri delle case ACER in Bolognina diminuiscono le diseguaglianze sociali?
Certo, lasciare una traccia di sé stessi, dire; «Io esisto!» è insito nell’essere umano, e dietro alle scritte può esserci la sacra febbre della “fotta”, l’amore, perché «il nostro amore non è la vostra legge» e la poesia (vera), che non si può chiamare «poesia da quattro soldi». Ma la “fotta” è cieca, l’amore se non è condiviso si degrada facilmente in fanatismo e la poesia, o almeno la suggestione poetica che può celarsi tanto dietro l’adolescenziale furto di un motorino quanto dietro a una guerra, è un sentimento troppo vago e soggettivo per ergerlo a giustificazione.
È pur vero che una certa quantità di scritte è fisiologica in una città come Bologna che ha dato i natali agli Skiantos, alla Traumfabrik e a una delle scene hip hop più prolifiche d’Europa, che ospita una statua di Freak Antoni emerso da un water e che alla tappa del Giro d’Italia ha esposto uno striscione con scritto «- biga, + figa». Tuttavia, oltre una certa soglia, un atteggiamento giocoso può facilmente sfociare in sopruso, pur creativo, e quindi in violenza, perché, come giustamente afferma Calvino in Collezione di sabbia, commentando il saggio di Armando Petrucci La scrittura tra ideologia e rappresentazione,
La parola sui muri è parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza via di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto: e questa è aggressione, è arbitrio, è violenza. […] È la presenza della scrittura, le potenzialità del suo uso vario e continuo che la città deve trasmettere, non la prevaricazione delle sue manifestazione effettuali [il grassetto è nostro, N.d.R.].
Così, il vero discrimine è sempre lo stesso: i legami. Se un’opera, come un graffito ben eseguito, una scritta ficcante o le opere di street art (qui la mappa delle opere di street art e writing. Per una panoramica sul mondo del graffitismo e della street art a Bologna e non solo consigliamo la pagina Graffitismo e street art) di cui ormai Bologna è capitale europea anche grazie all’impegno del Comune, genera nuovi legami con e tra i fruitori della stessa attraverso il dialogo col contesto urbano, arricchendo la comunità (cioè se la sua qualità, o meglio la sua aretè, si calibra sulle qualità circostanti estrinsecandone il potenziale), allora quell’opera ha senso. Se, al contrario, un’opera non genera, ma distrugge i legami che già esistono, imponendo la sua qualità sulle altre, degradando il contesto urbano e impoverendo la comunità, allora va eliminata. L’opera quindi, oltre a una sua grammatica, deve possedere un’etica che le permetta di integrarsi e sviluppare una sorta di collaborazione, di rapporto attivo con i riceventi.
In parole povere, una scritta dev’essere “bella”. Se lo è, il suo diritto a esistere se lo guadagna da sé, fuori da ogni giudizio aprioristico.
Oltre all’etica però, forse, più di tutto, annichilito dal brusio perpetuo di questa modernità nevrotica, i giovani (e non solo loro) hanno perso quel sentimento di cui l’etica stessa è solo un’appendice: il senso del sacro verso il mondo. Quell’impulso innato che ci spinge a non calpestare una lumaca e a non scrivere sul muro di una chiesa anche se siamo atei, a rispettare, come diceva Zanzotto, l’«immenso donativo» del paesaggio e della vita. Si tratta qui di capire che ogni espressione personale ha il suo tempo e il suo luogo, e non già per l’esercizio di una superiore autorità regolatrice, bensì perché ogni espressione personale è tempo e luogo dove essa si esprime al meglio; e si esprime al meglio nel confronto, che contiene ma supera il conflitto. La ricerca incessante del nostro tempo e luogo e la loro armonizzazione coi tempi e coi luoghi degli altri, privati o condivisi, costituisce un esercizio di libertà, forse l’unico degno di senso.
Prove tremende aspettano la città e il Paese: l’unico modo per superarle è insieme. Siamo in guerra, non possiamo più permetterci di farcela a vicenda.