«Speriamo che ti violentino». Tutto qui. È facile e scontato. Ad accompagnare l’attacco ad una donna sono spesso gli insulti sessisti. Nel mondo dello spettacolo, nello sport, nella politica. Detta da un uomo, detta da una donna. L’offesa è banale e puntuale. Quella rivolta a Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, durante il suo arresto sul molo di Lampedusa, è solo l’ultimo esempio di un susseguirsi di aggressioni verbali e discriminazioni di genere che spesso vanno a colpire donne forti, che ricoprono cariche importanti, oppure che portano sulle spalle il peso di decisioni coraggiose. È il modo più veloce per chiudere la questione. Non serve entrare nei particolari della vicenda, politica o meno, che le coinvolge: è sufficiente attaccare la loro fisicità o la loro moralità.
«Ti piacciono i neri»: è questa l’analisi finale dell’intera vicenda Sea Watch da parte del lampedusano che festeggia l’arresto della capitana. E, a giudicare da ciò che leggiamo sui social, è evidente che non sia il solo a pensarla così.
Gli insulti sessisti rivolti a Carola hanno scatenato reazioni di condanna e hanno aperto nel Governo una discussione sul rapporto tra i commenti offensivi e discriminatori online e gli slogan sempre più aggressivi dei politici verso le donne e le altre minoranze. La nuova crepa nella maggioranza l’ha prodotta il deputato M5S Stefano Spadafora. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio ha accusato Matteo Salvini di aver alimentato una pericolosa deriva sessista, definendo Carola «sbruffoncella» o «viziatella comunista». «Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica?», si chiede Spadafora in un’intervista a Repubblica. La polemica sta tenendo banco da giorni, ma la sensazione è che l’indignazione si sia già esaurita in un vuoto esercizio retorico, sostituita dal vecchio gioco di sfidare il dissidente a lasciare la poltrona – spoiler: non la lascerà. Ma è davvero la politica a legittimare questo maschilismo?
L’organizzazione Amnesty International ha pubblicato da poco il barometro dell’odio, un rapporto in cui ha analizzato la relazione tra le parole dei politici e il discorso dell’odio in rete, prendendo in esame centomila tra post, tweet e commenti diffusi durante la campagna elettorale per le europee del 26 maggio 2019. I dati dimostrano come le donne siano bersaglio prediletto dei commenti degli utenti: quattro su cinque dei politici che ricevono più attacchi personali sono donne. Le candidate ricevono il doppio degli attacchi dei colleghi. E in quasi un quarto dei casi sono insulti sessisti.
Era il 2016 quando Salvini paragonò Laura Boldrini a una bambola gonfiabile. Le scuse non arrivarono. Anzi, il leader leghista rincarò la dose lanciando l’hashtag #sgonfialaboldrini. Tre anni dopo, la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, lo querela e chiede la chiusura delle sue pagine social, il mezzo con cui il ministro avrebbe veicolato i suoi messaggi d’odio. Tuttavia, la chiusura dei profili di Salvini non sarebbe nemmeno minimamente in grado di cancellare le tracce di odio diffuse in rete nei confronti della capitana. Sono innumerevoli le offese e le minacce lanciate dagli utenti stessi che circolano su Facebook e Twitter. Un esercito di giustizieri da tastiera invoca a gran voce la punizione più umiliante per una donna: ti devono stuprare. E lo stesso trattamento è stato riservato in poche ore ad Alessandra Vella, il gip che ha deciso la scarcerazione di Carola. Finita nel mirino del ministro Salvini, che la accusa di aver emesso una sentenza politica, è divenuta bersaglio sui social, il suo nome è diventato virale e gli insulti sessisti, le offese personali e le minacce l’hanno costretta a cancellare il suo profilo Facebook.
Quando alle persone si lascia uno spazio libero senza mediazione come i social network, queste sono le estreme conseguenze. Il dramma quotidiano sui social è quell’effetto parità per cui in rete tutti pensano di avere diritto di parlare e di esprimersi, pur non avendone titolo o, più semplicemente, pur non essendo necessario. E poiché la rabbia social è democratica, nessun fronte politico è escluso dalla gogna mediatica. Dopo aver espresso il proprio pensiero sulla vicenda Sea Watch, a essere vittima di insulti sessisti è stata Giorgia Meloni. Fra auguri di morte e meschinità, che la leader stessa di Fratelli d’Italia ha denunciato su Twitter, non può mancare il classico, il solido pilastro della misoginia: «Sei una puttana».
Sono solo pochi esempi. A essere vittime di offese che fanno riferimento alla sfera sessuale o al body shaming sono molte altre donne della politica, dello spettacolo, dello sport, donne che studiano e lavorano e compongono la propria vita in pace. Donne che rivestono un ruolo diverso nella società da quello che tradizionalmente ci si aspetterebbe. Insulti di questo tipo, anche quelli lanciati nella maniera più spontanea, quelli di pancia, dettati dalla rabbia o dalla fretta di scrivere, puntano a sminuirne l’importanza: sei solo una donna, e non vali più di una puttana.
La posizione di visibilità o di potere di una donna turba, se non fa sorridere, chi semplicemente non le riconosce la stessa autorità o la stessa rispettabilità che ci si aspetta di osservare per un uomo. Ecco il perché degli attacchi personali, ecco perché di un politico si può dire che sia un «corrotto», un «disonesto» o un «incapace». Perché a essere attaccato è il suo ruolo istituzionale, ciò che rappresenta a livello professionale. Tutt’al più si può offenderlo sul piano personale in quando poco di buono, ma ad esempio, Berlusconi è mai stato umiliato o mortificato per la propria vita sessuale? Al contrario, se non ci piace quello che dicono e quello che fanno le donne, preferiamo dire che Laura Boldrini è una bambola gonfiabile, Giorgia Meloni una zoccola, il gip Alessandra Vella una puttana comunista e Carola Rackete si meriterebbe di essere stuprata, ma tanto le piacerebbe pure.
Sono luoghi comuni diffusi, per scardinare i quali sarebbe necessario andare ad agire alla base, intervenire alla radice del problema: educare fin da piccoli a una politica di parità di genere, e allo stesso tempo educare le giovani generazioni a una presa di coscienza del peso di scrivere qualcosa online, della quale siamo responsabili tanto quanto lo siamo delle parole che ci escono di bocca. Per chi a internet si è avvicinato già da adulto, in qualche caso, la smania di dover dire la propria ad ogni costo ha sollevato non pochi dalla consapevolezza dei propri commenti. Tuttavia, più facile a dirsi che a farsi. Queste sono soluzioni a posteriori, necessitano di uno sforzo da parte di tutte le agenzie di socializzazione e i loro frutti si vedranno solo nel lungo periodo. Ora, invece, abbiamo fretta di correggere il più possibile.
Nel breve periodo dobbiamo quanto meno aspettarci che la politica sia superiore al cittadino. Nessuno ha spinto gli utenti ad andare a scrivere su Facebook che non vedono l’ora che Carola Rackete venga stuprata: la responsabilità è personale. Ma uno degli obiettivi della politica deve restare quello di prevenire e combattere tutte le forme di violenza contro le donne. E finché il modo più diffuso per sostenere un conflitto verbale con una donna sarà mortificarla e insultarla sul piano personale e sessuale, usare espressioni “colorite” come «sbruffoncella» è uno scivolone che la politica non può permettersi.