Due anni fa una serie spagnola, grazie all’intelligente recupero e distribuzione internazionale da parte di Netflix, diventò di culto. Il termine è appropriato, perché La casa di carta (La casa de papel in lingua originale), giunta quest’anno alla sua terza stagione, ha fatto ben più di molte sue concorrenti più blasonate: è riuscita ad inserirsi nella contemporaneità. Se le magliette a tema Game of Thrones si possono ritrovare nel guardaroba di metà mondo occidentale e i feticci anni Ottanta vengono rispolverati ed esibiti dopo la visione di Stranger Things, la potenza della banda del Professore è stata quella di essere presente, anche in maniera decontestualizzata, in manifestazioni e cortei in tutto il mondo, dalle lotte politiche a quelle ambientali (in una variante verde del celebre costume di Dalì). La terza stagione approfitta di questa presa sulla società e la ripropone nella fiction, ovviamente in sottofondo a esagerazioni fumettistiche e romance soapoperistiche a cui il prodotto iberico ha abituato con le precedenti iterazioni.
La terza stagione poneva, già dalle premesse, un forte rischio: si temeva il possibile “salto dello squalo” (termine utilizzato quando uno show è costretto a mettere in scena azioni talmente assurde da risultare ridicolo, derivato da un celebre ed esagerato episodio di Happy Days in cui Fonzie saltava appunto uno squalo con gli sci ad acqua) e ciò, in parte, è avvenuto. L’epilogo della seconda stagione chiudeva definitivamente le avventure per il gruppo di criminali, sparsi per il mondo e nascosti dall’Interpol a godersi il bottino della straordinaria rapina alla Zecca dello Stato. Quando però un membro della banda verrà catturato e torturato, il Professore sarà costretto a riunire tutti per un ultimo colpo. Superate le prime puntate “internazionali”, ci si ritrova infatti in una situazione simile alle prime stagioni, con la banda all’interno di un luogo di massima sicurezza, la presenza di ostaggi da gestire, polizia con cui contrattare e un piano da Mission Impossible per superare ogni avversità. Ritornano i personaggi delle prime serie, senza particolari evoluzioni caratteriali e stravolgimenti. A Tokyo, Nairobi, Denver, Helsinki e Rio si aggiunge un nuovo personaggio, Palermo (il cui nome è stato rivelato in seguito a un’impegnativa e, come spesso accade per i prodotti Netflix, vincente campagna marketing in varie città d’Italia), atto principalmente a sostituire la figura di Berlino, sia come “antagonista” morale all’interno del gruppo, sia come legame con il passato del Professore. Lo stesso Berlino comparirà, anche se, conoscendo il suo destino nella scorsa stagione, avrà una parte marginale. Il personaggio del Professore è quello che maggiormente viene colpito e traumatizzato nelle nuove puntate: un elemento relativo all’organizzazione del piano farà crollare man mano le sue sicurezze e lo costringerà a una sfida mentale con le forze dell’ordine. La polizia, ancor più di prima, è raffigurata negativamente, tanto che, se l’ispettore Murillo era un personaggio dalla valida morale, nonostante il repentino cambio di fazione, il nuovo antagonista delle forze dell’ordine, Alicia, è un personaggio macchiettistico, al limite della parodia bondiana (ricorda per aspetto e atteggiamenti la Poppy di Kingsman – Il cerchio d’oro) che, per assurdo, si inserisce appieno nella narrazione sopra le righe intrapresa dalla serie.
Non è facile dare un giudizio sulla qualità effettiva della serie: se da un lato regia, montaggio, colonna sonora e interpretazioni, al limite del ridicolo, evidenziano come la serie si trovi ben sotto gli standard di prodotti del genere (basti pensare a serie nostrane come Gomorra e Suburra), il ritmo incalzante, accelerato da un voice over continuo che elimina i tempi morti, e dall’ormai dichiarata, soprattutto in quest’ultima stagione, volontà di esagerare e non prendersi sul serio, rendono evidente il successo stratosferico ottenuto da La casa di carta. Le stesse tematiche abbozzate e semplificate hanno facilitato la diffusione di questo fenomeno: le dinamiche populiste di lotta al potere, rappresentato dalle banche, dallo Stato e dalle forze dell’ordine, sono messe in scena con disarmante sciatteria, la banda del Professore non viene vista sotto cattiva luce in nessuna occasione, la vita criminale è esaltata e i novelli Robin Hood non pagano le conseguenze delle loro azioni. Il coinvolgimento del popolo è però messo in scena in maniera interessante, giocando metacinematograficamente con la fama dei rapinatori, sia nel mondo reale che nella narrazione. La maschera di Dalì ha soppiantato la storica icona di Guy Fawkes, tratta dalla graphic novel V per vendetta, come simbolo di resistenza, lotta di classe e sovversione al potere autoritario. Le influenze de La casa di carta nel mondo, dunque, non ne migliorano la qualità artistica, ma la dimostrano interessante da studiare e osservare come fenomeno sociale e storico.
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