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Spettacolo

Midsommar: il nuovo folk horror di Ari Aster

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Anastasia Piperno

Arriva nei cinema italiani il secondo film di Ari Aster, Midsommar, dopo il chiacchierato e divisivo Hereditary (2018). Entrambi i lavori del regista nutrono la recente ondata di film horror che, secondo l’apparato critico, stanno rivitalizzando il genere grazie alla creatività, alla ricerca, alla maggiore cura formale e indole riflessiva di alcuni cineasti rispetto al classico horror di puro intrattenimento e di scarso interesse afrtistico. Nomi d’esempio di questa rinnovato filone sono Jordan Peele (Get Out, Us), Robert Eggers (The VVitch), David Robert Mitchell (It Follows). In particolare tra The Vvitch di Eggers e Midsommar di Aster – ma anche The Ritual (2017) e Apostle (2018) su Netflix – si rintraccia un comune interesse per il folk horror. Sia Eggers che Aster infatti hanno compiuto accurate e lunghe ricerche di storia del folklore e di antropologia culturale per il proprio materiale narrativo.

Nel caso di Midsommar il regista, come raccontato al New York Times, si è documentato sulla mitologia nordica, l’alfabeto runico, il folklore e le tradizioni svedesi, ma anche usanze parallele come quelle legate a culti di altre zone sul festival legate al solstizio d’estate e un’utile lettura di Il ramo d’oro di Frazer, dove sono riportate varie tradizioni pre-cristiane. Tutto ciò per costruire la storia di questo suo secondo lungometraggio: una storia di lutto, di solitudine, di incontro con l’altro anche su un piano culturale. Al centro c’è Dani (Florence Pugh, attrice talentuosa vista già in Lady Macbeth di William Oldroyd), che si ritrova improvvisamente addosso il peso di un terribile evento: la morte della sorella e dei genitori. La famiglia disfunzionale, come in generale il tema della famiglia, torna da Hereditary: la sorella bipolare, infatti, ha ucciso in un momento di cruda e incontrollata violenza i genitori e poi si è suicidata. Nel momento della perdita atroce, Dani si appoggia alla spalla del fidanzato Christian (Jack Reynor), che tuttavia lascia a desiderare come partner a causa di molte disattenzioni, motivate anche dall’evidente punto morto in cui è arrivata la loro relazione, durata tre anni. Christian, studente di antropologia, viene invitato dall’amico Pelle (Vilhelm Blomgran) insieme ad altri amici e compagni di studio a fare un viaggio in Svezia, più precisamente nella regione centrale di Hälsingland, assistendo al festival di mezza estate di una particolare comunità del villaggio di Hårga, che vive secondo antiche usanze pagane. Pur a malavoglia, invita all’ultimo momento anche la fidanzata Dani, che cerca un interessante diversivo, una fuga dalla sua dolorosa situazione.

Una discesa vertiginosa nel diverso radicale

Il debito di Aster per Midsommar non è soltanto di ricerca etnografica e letteraria, ma di certo è anche di natura cinematografica. Il recupero di alcune suggestioni folk nell’horror nasceva negli anni Settanta con La pelle di Satana (1970) di Piers Haggard e The Wicker Man (1973) di Robin Hardy, e proprio a quest’ultimo si rifà esplicitamente Midsommar. Oltre ad espliciti omaggi visuali sul finale, i due film hanno in comune l’incontro tra degli esponenti della società occidentale e una comunità pagana di crude pratiche e qualche oscuro segreto da svelare. Tuttavia nel film di Hardy tale comunità non si appoggia ad antiche tradizioni svedesi, ma è di derivazione celtica. Inoltre in The Wicker Man lo straniero in visita era un poliziotto britannico, cattolico praticante, mentre nel film di Aster sono degli universitari americani.

Ciò riflette d’altronde uno spirito più moderno, dove vi è più curiosità intellettuale che una devozione cristiana (praticamente assente). Resta il fatto che in entrambi i film c’è una società remota per la mentalità dei protagonisti, che incute rigetto, sospetto, fino al vero e proprio timore. Midsommar di Aster però prende una strada personale, virando su un focus prettamente psicologico, complice la fase di scrittura del film avvenuta tempo prima, in un momento difficile per il cineasta, di drammatica rottura nelle relazioni personali, di lutto. La scrittura per Aster ha avuto una funzione di esorcizzazione del proprio male, di terapia, e così sarà per Dani il viaggio nell’Hälsingland. Per Dani, primo e imprescindibile punto di vista, l’esperienza presso Hårga è primariamente un momento di confronto con gli abissi del proprio dolore, di liberazione catartica e ambigua.

Foto: movieplayer.it

La società di Dani e dei suoi compagni è la società del razionalismo appianante, ma anche della nascita della psicanalisi che testimonia tutto un mondo fantasmatico sepolto, sacrificato. La morte è polvere nascosta sotto il tappeto, fino agli estremi dello spirito positivista moderno delle società del primo mondo. Si può pensare anche al tema della criogenesi, presente ad esempio nel romanzo Zero K (2016) di Don DeLillo, acuto osservatore della società moderna americana. Questa pratica ormai non futuristica, ma già attuata, reale è sintomo di una volontà di superare i limiti del corso vitale, cancellare la morte stessa come evento naturale attraverso le potenzialità degli strumenti tecnologici sempre più avanzati, così da non dover morire mai, non dover mai arrivare a fare i conti con l’esperienza della fine, dell’ignoto in essa che attende ogni individuo. In Midsommar il trauma della morte è evitato sia da Dani, incapace nell’avvio della storia di guardare direttamente dentro di esso, sia dai compagni. Si tratta di un argomento tabù, fonte di disagio e imbarazzo, di condoglianze formali senza altra partecipazione più veritiera.

Dunque nella comunità dei protagonisti la morte è qualcosa di mostruoso, spesso troppo doloroso da accettare, da allontanare. È associata a una concezione del corso vitale lineare, se non proprio verticale nell’immaginario cristiano, nella solenne entrata in un’aldilà, che può essere anche infernale. Invece tra gli abitanti di Hårga, dove il culto della natura di matrice pagana esclude questo iter dell’anima di stampo cristiano, vige una concezione circolare della vita, che s’appoggia alla rigenerazione naturale, in cui niente muore, ma tutto si trasforma. Se questo può sembrare un altro modo per non pensare alla morte come un reale, ineludibile termine, in verità è proprio in questa alternativa concezione, dove tutto è volto a una conservazione collettiva, che si approda con più serenità alla morte del singolo corpo e del singolo individuo.

Non è un caso che eventi di morte nella breve parte iniziale, cioè l’episodio funesto della famiglia di Dani, avvengano a porte chiuse, in antri domestici oscuri, appresi solo in un secondo momento dalla protagonista, mentre i rituali di morte della comunità di Hårga, come il suicidio procurato dai membri più anziani una volta raggiunti i settantadue anni, avvenga letteralmente alla luce del sole, all’esterno e davanti a tutti gli altri, riunitisi anzi per assistere come momento cruciale e necessario del festival di Midsommar. Un evento come la morte procuratasi da sé, considerato un ulteriore argomento delicato della nostra società, viene visto con sgomento dai protagonisti.

Foto: cinematografo.it

Infatti nella scene di entrata ad Hårga Aster attua uno dei numerosi guizzi formali che rendono la sua opera particolarmente estetizzante: un movimento della mdp che rovescia letteralmente il campo dell’inquadratura, dando l’impressione di una sinistra vertigine che ben si accorda a molte altre sequenze del film di trip allucinato, ma comunica anche l’idea dell’entrata in un mondo radicalmente diverso dal proprio, di un ribaltamento di tanti principi, di normali schemi mentali e abitudini. Aster esprime questo cambio radicale anche con un cambio climatico: Midsommar si apre in un contesto urbano americano innevato, mentre tutta la successiva parte ambientata ad Hårga è in un sole accecante. Si tratta del fenomeno del sole di mezzanotte, che assume toni persino claustrofobici per i ritmi dei protagonisti, ma gioca anche con un potente contrasto rispetto alla tradizione horror.

L’horror infatti è associato al buio, all’oscurità, dove spesso l’ombra è fonte di incapacità di poter vedere meglio, di timore dell’ignoto, è immagine simbolica del male in quanto nascosto, mentre ad Hårga vige l’impossibilità di rifugiarsi nell’ombra, di fuggire, nascondersi, come si sarebbe fatto “a casa propria”, nell’occultamento del trauma. Non solo non c’è vera fuga, ma un continuo essere trascinati nel vortice di un’esperienza assurda per i propri canoni. Il sole di mezzanotte non può che confondere la naturale percezione temporale di Dani e gli altri, non riuscendo più a distinguere le ore del giorno da quelle della “notte”, un altro elemento che sfida le loro abitudini mentali. Il calarsi in questa comunità passa, come accennato, anche per momenti di allucinazione causati dalle sostanze psicotrope assunte volontariamente o inculcate da membri della comunità come parte integrante della partecipazione a celebrazioni nel festival di Midsommar.

È proprio nell’abbandono dato dalle droghe che si può abbracciare una differenza così radicale, allargando i confini della coscienza e incontrando, dunque, quegli spettri tanto evitati. Aster esprime le sequenze di trip con motivi prettamente inconsci di Dani, attraverso ralenti e altri particolari movimenti di macchina, di rievocazione onirica e di immagini del ricordo ripescate. L’elaborazione del lutto in Midsommar è un calarsi nel proprio male, nella propria psiche infestata, scaricandola in riti comunitari, di esposizione pubblica e fomentati dalla condivisione. L’elemento horror in Aster dunque non risiede soltanto nella morsa in cui si è tenuti dall’enigmatico alieno Hårga, ma anche nella paura di sé della negatività covata, di una propria forza distruttiva ribollente, che preme per uscire. Come il profondo di sé è ambiguo e una fusione di impulsi al di là del bene e del male, utili alla conservazione di sé ma allo stesso tempo potenzialmente distruttivi, così anche la comunità di Hårga contiene in sé vari aspetti, altrettanto conservativi e mai soltanto positivi o negativi, come qualsiasi cultura.

Foto: indiewire.com

Per Aster torna infatti la famiglia nella forma della comunità, e anche qui vi sono due modi di vivere al confronto. Da una parte c’è l’individualismo di matrice americana, e che appartiene ai ragazzi in visita: non solo in seno alla famiglia biologica di Dani c’è un disgregamento ormai in cancrena, non più recuperabile, ma anche nel collettivo di amici e soprattutto nel rapporto di coppia, il quale è una possibile nuovo nucleo familiare per Dani, vige l’interesse del singolo sopra ogni altra cosa e una disgregazione, un annaspare nel recinto della fattoria di Hårga prettamente individuale, allontanandosi uno dall’altro. Aster tratta questo suo folk horror anche come pretesto psicologico per una terapia di coppia e non solo di Dani stessa, cercando di portare alla luce una crisi tra i due fidanzati, un cordone da tagliare inevitabilmente.

In questo piccolo gruppo che si introduce ad Hårga la stessa comunità è strumento innanzitutto di affermazione del proprio profilo intellettuale, venendo usato come argomento della tesi universitaria di Josh (William Jackson Harper) e poi di Christian, che non si fa scrupoli ad invadere il campo di interesse dell’amico, appropriandosi della sua stessa idea per la tesi. Questa inaspettata condivisione della tesi viene percepita da entrambi come una missione elettiva usurpata, non di certo come una ricerca fatta in genuina condivisione e cooperatività. Scarsa è anche l’autentica condivisione tra Dani e Christian, dato che il peso psicologico di Dani, per il quale lei cerca supporto dal fidanzato, viene considerato da Christian come un peso, da cui non ha il coraggio di affrancarsi. In questo gruppo individualista il singolo non può che essere un’isola, accennando all’intramontabile tema dell’incomunicabilità che caratterizza il cinema e la letteratura moderni. Se l’interno emotivo di sé rimane tra gli amici americani come una regione del tutto privata, anzi, fin troppo vista l’indifferenza generale e la volontà di non averci troppo a che fare, gli abitanti di Hårga adottano pratiche non solo di condivisione emotiva, ma di vera e propria mimesi delle sensazioni di un membro a funzione fomentatrice e poi catartica.

L’emozione del singolo è qualcosa che può essere ritrovato, con procedimento empatico, anche in sé, può essere fatto proprio, scaricandolo e supportando così il singolo membro, fondendosi in un coro e un organismo collettivo di espressione, come lo sono le danze rituali attuate durante il film. Hårga dunque rappresenta un opposto collettivista rispetto alla mentalità americana sopra citata e il cui funzionamento non può essere illuminato pienamente dalla ragione dell’altro opposto. Il film è già ricco di vignette a scopo didattico sugli usi della comunità, cariche di immagini corporali, di sangue, che rimandano alla crudezza delle fiabe, ma Aster inserisce anche un testo che va formandosi di giorno in giorno negli anfratti segreti di Hårga, scritto da una sorta di mostro e scemo del villaggio, cioè un individuo deforme e con un ritardo mentale, frutto deliberato di rapporti incestuosi, e che ha una funzione oracolare per la comunità. Un oracolo carico a sua volta di enigmi, dato che l’espressione scritta di cui si avvale non è facilmente decifrabile e costituisce un ultimo fondo impenetrabile, quasi mistico della profonda alterità di Hårga.

Si stabilisce un leitmotiv nell’immaginario di Aster dunque, che è quello della deformazione mostruosa del fisico, già presente in Hereditary. Gli effetti dell’endogamia sono i lati più controversi – l’incesto è un tabù comune a moltissime culture – e ancora visibili, nel corpo di un particolare individuo, delle pratiche conservative di Hårga, di una famiglia coesa, ma allo stesso tempo che ha una sua maniera molto controllata di integrare nuovi elementi esterni.

Dani, però, è una potenziale integrazione, attratta dentro al vortice di Hårga attraverso forze motrici emotive e inconsce. Persa, conscia di recidere l’unico legame affettivo che ha, affrancandosi da ciò che la tiene legata a Christian, rimarrebbe senza famiglia se non fosse per la lenta penetrazione di Hårga nel suo trauma, nella sua solitudine e nella sua vulnerabilità correlata. Non è nuovo ad esempio che varie sette sfruttino la vulnerabilità e il periodo di solitudine, di difficoltà di un particolare individuo per puntare nel vivo, manipolare e dare ad esso l’idea di una famiglia acquisita, per quanto strano, oscuro possa essere il prezzo da pagare per fare parte di essa. Il passaggio da una famiglia ad un’altra avviene in un’immersione che fa propri riti, nuovi linguaggi derivati dalla natura, abilità di danza, di espressione del corpo fino ad allora sopite, tutto un terreno che è atavico, ma anche irrazionale; integrando anche momenti in cui improvvisamente la protagonista parla in svedese (quasi si trattasse di un fenomeno di possessione). Si tratta dunque di un passaggio di carattere ambiguo, un superamento del lutto viscerale, che lascia in sospeso categorie morali, lascia decantare un’eco sinistra fino all’ultima inquadratura.

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