Anche i geologi sembrano convincersi che viviamo nell’antropocene, una nuova era geologica i cui cambiamenti climatici sono imputabili all’azione dell’uomo. La percezione di questo cambiamento epocale (le ere geologiche durano in genere svariate migliaia di anni) si sta riflettendo anche nella letteratura, in particolare in quella fantascientifica. La letteratura new weird, sottogenere (o nuovo genere) derivante dal fantasy che mischia elementi horror, fantascientifici e ambientazioni fantastiche, sembra essere la risposta alla domanda che assilla gli ecologisti: è possibile immaginare un futuro o un mondo dove la natura è qualcosa di completamente diverso? La Trilogia dell’Area X dello scrittore statunitense Jeff VanderMeer sembra proprio proprio voler compiere questo sforzo di immaginazione. Un ecosistema che non risponde alle leggi biologiche conosciute dall’uomo. Un confine invisibile, che separa l’ignoto dal mondo conosciuto; un confine semovente, inarrestabile, spinte da forze altrettanto sconosciute. Organismi e creature che hanno funzioni vitali totalmente differenti a quelli che popolano la Terra. L’Area X immaginata da Jeff Vandermeer appare come la versione ecologica dei miti di H.P. Lovecraft, abitati da mostri e incubi assurdi, al di fuori di ogni concezione logica o razionale. Una porzione di mondo aliena, che potrebbe essere un’allegoria del mondo che verrà.
Trent’anni dopo essere stata creata da una misteriosa anomalia, l’Area X rimane un enorme punto di domanda per il governo statunitense. Resa nota al mondo esterno come una semplice zona di contenimento per un disastro ambientale provocato dall’uomo (una nuova Chernobyl), nessuno è in grado di comprenderla. Nel corso degli anni sono state mandate numerose spedizioni esplorative, gestite dalla’associazione governativa Southern Reach, ma nessuna di queste ha avuto successo. Le caratteristiche dell’ambiente, la natura della sua genesi, le motivazioni che la muovono e i rischi che l’Area X comporta per il resto del mondo non sono per niente chiari agli studiosi. I membri delle numerose spedizioni tornano quasi tutti in uno stato confusionale, svuotati dalla propria personalità, salvo morire poco dopo di cancro. Gli scienziati si trovano di fronte a qualcosa di inspiegabile, a cui il metodo scientifico non può dare nessuna risposta. L’Area X sembra un buco nero, un vortice in grado di risucchiare quanto trova di umano e di rigettarlo come trasformato in altro.
La protagonista di Annientamento (primo libro della trilogia, a cui si è ispirato anche l’omonimo film) è una biologa che fa parte di una delle suddette spedizioni. Nominata soltanto con il suo titolo di studio (all’interno dell’Area X non sono permessi nomi personali: gli altri membri saranno soltanto “la psicologa”, “la topografa” e “l’antropologa”), la biologa fornisce al lettore il primo sguardo su quel mondo alieno che si trova dietro il confine. L’Area X è una zona di mondo abitata da una forza sconosciuta, per certi versi totalmente naturale, ma d’altra parte fin troppo naturale, così da risultare distante e impalpabile. La capacità di VanderMeer è saper descrivere un ambiente compatibile con la nostra comprensione comune, ma di spingersi un po’ oltre in certi frangenti. Senza (quasi) mai descrivere vere e proprie mostruosità, VanderMeer lascia scorrere l’immaginazione del lettore attraverso un sapiente uso del dico e non dico. Così, quelle che sembrano delle inquietanti scritte lasciate all’interno di un tunnel sono in realtà degli organismi che si dispongono a forma di lettere; delfini che nuotano in un fiume lanciano occhiate dall’aria vagamente umana; lo stesso tunnel appare, per qualche ragione, più come una torre capovolta che come un vero e proprio tunnel.
Pian piano anche la biologa subirà una metamorfosi, diventando sempre più partecipe dell’ecosistema che ha intorno, entrando in una speciale sintonia con esso. Si potrebbe dire che l’Area X l’abbia assimilata o che la biologa abbia compreso l’Area X, e tutte e due le cose nello stesso tempo. Ciò che l’Area X mette a dura prova è la nostra capacità di immaginare il funzionamento della natura e tutto il relativo ecosistema. Di fronte a un ambiente tanto diverso, i membri delle spedizioni, ad eccezione della biologa, non si accorgono di aver a che fare con un modo diverso di intendere la vita biologica. Percepiscono la stranezza, e spesso anche l’orrore che aleggia, ma come la Southern Reach sono convinti che ci sia qualcosa di tremendamente sbagliato all’interno dell’Area X. Qualcosa da individuare con precisione e da sradicare, come se fosse un’erbaccia, non qualcosa di vivo e autonomo, le cui categorie di esistenza sono slegate da quelle antropocentriche. Solo la biologa, nel suo essere diventata una parte dell’Area X, può capirne le istanze.
Mark Fisher, in un suo saggio riguardo la letteratura weird, descrive la sensazione che proviamo nel leggere cose “strane” (weird, appunto) nel seguente modo:
Il weird è un tipo particolare di turbamento. Implica una sensazione di inappropriatezza: un’entità o un oggetto weird è così strano che ci fa sentire come se esso non dovesse esistere, o almeno non dovesse esistere qui. Eppure, l’entità o l’oggetto sono qui, quindi le categorie che abbiamo usato fino ad ora per dare un senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, alla fine: è il nostro modo di comprendere che è inadeguato.
Quella dell’Area X è una strana natura, certamente, una natura a cui l’uomo non è abituato. Non appena diventa chiaro, nel corso del secondo libro (Autorità), che la genesi dell’Area X potrebbe essere stata scatenata anche da un intervento umano, ecco che sembra arrivare l’urgenza di una ridefinizione di termini. Se l’Area X è qualcosa di alieno, ma è in parte anche opera dell’uomo, cade definitivamente la separazione tra il mondo naturale e quello artificiale. Quando ci si accorge, poi, che il confine invisibile che separa i due mondi non è stabile, ma anzi è in movimento, appare evidente un ulteriore fatto: ciò che ora è comprensibile, domani potrebbe non esserlo più. La porzione di terra ancorata al senso comune potrebbe essere facilmente strappata via dall’Altro e non essere più.
Il grande fulcro concettuale dell’opera di VanderMeer si gioca qui. Quello che ci sta chiedendo l’autore statunitense è di immaginare un mondo naturale diverso, in qualche modo ostile, a cui non siamo abituati ma con cui potremmo essere forzati a convivere. Si tratta, parafrasando il titolo del terzo libro (Accettazione), di accettare queste nuove categorie. Un mondo naturale regolato da meccaniche che ci sono sconosciute e incomprensibili, forse addirittura senza dei meccanismi come li intendiamo noi. E se nel mondo reale i cambiamenti climatici fossero così repentini da non darci non solo qualche problema a vivere, ma anche a comprendere che cosa stia succedendo? Se il disastro ambientale odierno si sviluppasse secondo una metamorfosi incomprensibile, come comportarsi? I membri delle spedizioni all’interno dell’Area X entrano a contatto con una realtà che è successiva a un qualsivoglia collasso degli Stati civili. La Trilogia dell’Area X è un puro horror per l’uomo dell’antropocene perché lo mette di fronte a qualcosa di mai visto e inspiegabile, che però potrebbe manifestarsi negli anni a venire. L’ecologia moderna cerca di mettere in guardia nei confronti dei pericoli dell’inquinamento per via degli effetti dannosi che ha sugli organismi biologici. L’ecologia new weird pone il lettore di fronte all’inimmaginabile, che è più spaventoso di un cancro perché non ci sono strumenti per diagnosticarlo e allo stesso tempo risulta abbastanza palpabile da risvegliare il sentimento di urgenza.
La Trilogia dell’Area X ci invita a una ridefinizione delle nostre categorie di conoscenza, ma anche della nostra identità come specie. Quella dell’estinzione umana è un’idea relativamente nuova all’interno della cultura, emersa principalmente dal momento in cui l’uomo è stato in grado di migliorare sensibilmente le proprie condizioni di vita a scapito del resto del pianeta. Allora forse è bene cominciare a pensare a un nuovo modo di intendere la natura e il nostro rapporto con essa. È l’idea del’antropologo Viveiros de Castro, studioso dei nativi sudamericani, che da qualche anno propone di rivalutare il modo in cui gli indios si approcciano con le forze naturali. Un approccio più unitario, dove la distinzione tra uomo e natura non è così marcata come nel mondo occidentale. Un modo che agli occhi dell’uomo occidentale appare totalmente insufficiente, chiaramente superstizioso, impossibile da sostenere all’interno di un paradigma di società scientifica. Ma la domanda di Viveiros de Castro è estremamente radicale: e se, termine le risorse naturali, giunti al vero e proprio collasso, l’unica opzione non fosse che un vero e proprio ritorno alla natura su canoni diversi da quelli che abbiamo conosciuto?
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