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Gilets Noirs: un movimento d’emancipazione politica e umana

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Simone Manda

“Le pays, le plus racist du monde, c’est la France”.

Il progetto editoriale Redfish decide di aprire in questo modo il suo nuovo docu-film sui Gilets Noirs.

Uno di loro, dal nome fittizio per proteggere la sua identità, lancia la sua accusa con voce rassegnata, mentre la luce che entra dalla finestra alle sue spalle oscura il suo viso, anonimo, rendendolo ancora più invisibile. Ai suoi occhi, da sempre invisibile; per i nostri, per fortuna, Bakary e tutti quelli come lui hanno guadagnato un posto sotto i riflettori.

Da novembre 2018 il collettivo La Chapelle Debout, insieme ad altri gruppi e associazioni locali, sotto l’eponimo di Gilets Noirs ha preso forza, guadagnato terreno, e ogni atto di protesta ne ha ingrossato le fila. Sono loro stessi a darne le stime. Il 23 novembre 2018, al museo dell’immigrazione, la loro prima mobilitazione radunò tra le 300 e le 400 persone. Il 16 dicembre, durante un’altra occupazione, erano 720. Il 31 gennaio, se ne contavano già 1500.

Cifre che non riescono comunque a fare luce sull’effettiva propagazione del fenomeno degli irregolari: il Ministero degli Interni francese, nel 2017, ne ha stimato il numero nello 0,5% della popolazione, cioè circa 300.000 persone. Negli anni, però, le sanatorie che si sono succedute non sono mai riuscite a raggiungerne più di 30.000 per ogni tornata. In egual misura è il numero di coloro che ogni anno sono costretti a lasciare la Francia, trasportati a forza verso il proprio Paese d’origine o in quello che per primo li ha visti entrare nell’Unione Europea.

Gilets Noirs prendono possesso del Pantheon, il 12 luglio 2019. (Lahcène Abib)

I comunicati dei Gilets Noirs, lanciati dal profilo twitter e facebook de La Chapelle Debout, sono pregni di quella coscienza collettiva di gramsciana memoria “che ci trova tutti sotto il rullo compressore dello stesso paradigma economico”, come ci ricorda anche il sindacalista italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro.

Come l’uomo in rivolta di Albert Camus rifiuta il sistema prestabilito che lo assoggetta e decide di combatterlo, Soumahoro, nel suo libro L’Umanità in rivolta, denuncia le barbarie del capitalismo e da battaglia a uno dei suoi figli: il caporalato, che in Puglia ha il suo epicentro, una vergogna che macchia di sangue i pomodori nostrani. Ogni lavoratore sfruttato che chiede giustizia, ci spiega Soumahoro, non può non unirsi per una società più giusta, per tutti, che superi ogni distinzione di genere e di razza. Le discriminazioni non avranno fine finché la solidarietà che ne consegue non sarà coesa e lucida.

Ogni messaggio del collettivo parigino esprime i suoi concetti tuonando, posando le parole con decisione, proprio a dimostrare la coesione del loro progetto, e la lucidità della loro rivolta. La denuncia è verso quel sistema che, per negligenza, incompetenza e ignavia, produce mancanze, a tutti i livelli.

Nel caso dei Gilets Noirs, ciò che manca è un pezzo di carta. Lottare per i diritti dei sans-papiers di tutto il mondo significa anche rivendicare uno Stato di diritto che si rinnovi partendo dalle proprie storture, che non smetta di porre al centro il diritto a un lavoro, a una casa, alla felicità. Per questi ultimi della società, invece, ottenere tali diritti vuol dire scontrarsi con le leggi degli uomini.

La legislazione francese, in materia d’immigrazione, vede la procedura di ottenimento per un visto lavorativo afflitto da una burocrazia elefantina che, troppo spesso, agevola lo sfruttamento del lavoro migrante da parte delle aziende. L’inegualità delle proprie condizioni, secondo i sans-papiers, nasce dal razzismo di chi continua ad avvalersi di lavoro a buon mercato, ma rifiuta d’inserirlo in una cornice normativa che possa assicurargli una vita regolare, come quella di chiunque altro.

E così, nell’irregolarità, essi si mobilitano, si organizzano, invadono le piazze e gli stabilimenti industriali. Dai cancelli dei centri di detenzione per migranti fino al terminal 2F dell’aeroporto Charles de Gaulle essi fanno sentire la loro voce, in un’impresa che culmina nell’occupazione del Pantheon, a Parigi, il 12 luglio 2019.

In tarda mattinata, una folla urlante investe il monumento e in pochi minuti prende possesso dell’intera navata. Si chiede, per prima cosa, la libertà dei compagni in attesa di deportazione, di cui si fanno i nomi, raccontandone le storie. Dopo, documenti validi per ognuno e ognuna dei Gilets Noirs. Non importa se sudanese o mauritano, poco cambia se parla berbero o igbo. Vogliono un confronto diretto con il primo ministro Edouard Philippe, sono convinti delle loro risoluzioni e non arretreranno. In compenso, propongono soluzioni.

Sono 200.000 le abitazioni inoccupate di Parigi che, se opportunamente utilizzate, sarebbero un efficace deterrente alle proteste dei sans-papiers. Molti di essi, ancora liberi dal giogo del lavoro in nero, sono costretti a vivere nelle tendopoli, distesi tra i cavalcavia della città in un’aberrante visione: solo Porte de La Chapelle ne ospita quasi 1200.

Tendopoli di migranti a Porte de La Chapelle, Parigi. Foto: afp.com/Cristophe Archambault.

Il movimento dei Gilets Noirs raccoglie anche i lavoratori irregolari provenienti dai Foyers de travailleurs migrants (FTM), residenze sociali a basso costo sistematizzate dallo Stato francese a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, indispensabili per le migliaia di lavoratori stranieri in Francia. Si offriva così rifugio a chi viveva nelle bidonville, che negli anni Cinquanta erano abitate soprattutto da algerini in fuga dalla guerra d’indipendenza.

Quale che sia la condizione abitativa del migrante, chi risulta non beneficiario dello status di rifugiato viene detenuto nel corrispettivo francese dei Centri di Identificazione e Espulsione (CIE) italiani, i CRA. Sotto la cupola del Pantheon, i Gilets Noirs lì asserragliatisi chiedono la liberazione dei compagni rinchiusi in quelle strutture, soggetti a condizioni di prigionia sempre più simili a quelle di veri galeotti, e denunciando anche la detenzione di minori.

Nel 2016, la legge sull’immigrazione è stata rinforzata, permettendo una più ampia discrezione nei termini: i minori non accompagnati possono ora essere assegnati a un detenuto maggiorenne già presente nella struttura. Grazie a quest’escamotage, le regole di accesso per i minori nei centri d’espulsione si sono addolcite, portando a un aumento preoccupante: da quaranta nel 2013, a 275 nel 2017.

Minore o maggiore che sia l’età, al termine del periodo d’identificazione segue la liberazione, o l’espulsione forzosa. Ecco perché una delle tappe di protesta dei Gilets Noirs è stata l’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle: dal vicino CRA di Mesnil-Amelot, solo nel 2018, sono stati espulsi circa mille irregolari.

La protesta del Pantheon termina con una violenza inattesa, forzata dalla polizia contro un movimento che ha fatto della lotta pacifica il suo cavallo di battaglia. Nonostante questo, il Noir del loro appellativo non è dato solo dal colore della pelle. Come i Gilets Jaunes, essi fanno da megafono a una parte della società civile dimenticata e discriminata, la cui “collera ne ha annerito la protesta”.

La rabbia è verso quel sistema che non è mai riuscito a trovare una soluzione alternativa al calvario cui il migrante è sottoposto e verso lo Stato, che spesso ha risposto con la violenza alle manifestazioni di chi, negli anni, ha espresso dissenso.

Gilets Noirs caricati violentemente dalla polizia francese, il 12 luglio 2019. (Reuters/Charles Platiau)

Il 28 giugno del 1996, nella chiesa di Saint-Bernard, nel 18° arrondissements di Parigi, centinaia di migranti in situazione irregolare occupano l’edificio per otto settimane, un’occupazione talmente pacifica da permettere la continuazione delle attività religiose. La risposta del ministro degli interni d’allora, Jean-Louis Debré, fu comunque la repressione.

Eppure, non sono solamente tali sporadici episodi ad aver portato la rassegnazione a cedere il passo alla collera più nera. Nel comunicato del 19 maggio, il collettivo La Chapelle Debout spiega che i Gilets Noirs hanno abbandonato ormai la paura della morte: al suo posto resta viva la paura dell’umiliazione. In questo principio si possono apprezzare forti similitudini tra i Gilets Noirs e il Black Lives Matter, il movimento antirazzista afroamericano nato per contrastare i continui omicidi perpetuati dalla polizia statunitense sui cittadini neri. Se una coscienza degli ultimi è ancora possibile, è proprio in certi esempi di lotta condivisa ed emancipazione politica che si può tracciare un radicale progetto di emancipazione umana.

Al tempo della rivoluzione di Haiti, come racconta The Black Jacobins dello scrittore C.L.R. James, l’organizzazione dei rivoltosi haitiani contro il potere francese si servì del motto caro alle truppe napoleoniche: «Libertà, uguaglianza, fraternità – o morte». E cominciarono avvelenando se stessi e i loro padroni, appiccando il fuoco alle piantagioni, con l’obiettivo di liberarsi dalle catene che li legavano alla schiavitù, finendo per intonare la Marsigliese sul campo di battaglia, il loro nuovo inno alla rivolta.

A guidare questi dannati della terra contro l’ipocrisia dell’illuminismo occidentale c’era Toussaint L’Ouverture, rivoluzionario associato, dallo stesso C.L.R. James, al suo nemico Napoleone Bonaparte. Dando prova di profondo internazionalismo, Toussaint L’Ouverture e i suoi compagni ispirarono tanta gente quanta ne fecero arrabbiare: dai repubblicani radicali francesi al rivoluzionario latino-americano Simon Bolivar.

Questo Napoleone nero ispirò l’ideale e la lotta del popolo haitiano, in un esemplare progetto di emancipazione umana. Allo stesso modo, i Gilets Noirs, nel loro ultimo comunicato, cercano un Primo Ministro che si faccia avanti e li rappresenti. Come ci ricorda l’inno socialista L’Internazionale: «[…] ora tuona la ragione in rivolta». E i Gilets Noirs, forti delle loro ragioni, si vestono di tempesta.

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