I migranti a bordo della nave Open Arms sono rimasti in mare per diciannove giorni. Non potevano scendere, glielo impediva il decreto Sicurezza Bis. Glielo impediva il ministro Matteo Salvini, che però ha sempre parlato a nome del Governo italiano. Un Governo ormai in pezzi, comunque, che a detta del leghista dopo «troppi no» non è più in grado di remare in avanti fingendo di non vedere le macerie del paesaggio.
Mentre conta le sue ultime ore, l’esecutivo è scosso da alleanze spezzate e rivolte interne, ed è in questo confuso contesto che si incastra l’ennesima vicenda di una nave ferma in mare colma di uomini, donne e bambini che hanno vissuto l’orrore dei campi di detenzione in Libia. Questo lo dice Oscar Camps, il fondatore della Ong Open Arms, dalle quale per ora è stato autorizzato solo lo sbarco di alcuni migranti per motivi medici e per i minori non accompagnati. A permettere il passo in avanti sui minori è stato l’ormai ex premier Conte, che con una lettera aperta su Facebook indirizzata a Salvini per la prima volta ha aperto un serio versante d’opposizione nei confronti del ministro dell’Interno.
In una seconda lettera Conte conferma anche che dalla Commissione europea «ci è stata confermata la disponibilità di una pluralità di paesi europei a condividere gli oneri dell’ospitalità per tutte le persone di cui ci stiamo occupando». Un fronte diplomatico quello dell’ex presidente del Consiglio, diametralmente opposto rispetto a quello di Salvini, costruito tutto su una linea dura anti-immigrazione e su un’avversione categorica nei confronti dell’Europa.
Insomma, la crisi di Governo ha rovesciato tutto il suo potenziale sull’unico tema che non ha mai veramente ricevuto nessuno dei «troppi no» che ad oggi hanno interrotto i negoziati giallo-verdi. Il problema è la fastidiosa ma giustificabile sensazione che questo «no» sia arrivato troppo tardi, che sarebbe potuto arrivare quando la nave si chiamava Diciotti o Sea Watch, oppure quando il Decreto Sicurezza Bis è finito sui banchi della Camera, se non prima dell’avvio stesso delle conversazioni tra Lega e 5 Stelle, quando tutti sapevano precisamente che sarebbero state prese queste misure. Invece il vicepremier leghista non ha trovato un ostacolo sulla sua strada, se non quello dei fascicoli della magistratura. Ed è difficile dimenticare che ad aiutarlo ad aggirare questo ostacolo una volta è stato proprio il Movimento 5 Stelle.
Il tema dell’immigrazione era solo uno dei punti dell’accordo giallo-verde, peraltro condiviso pienamente solo dalla Lega, eppure il Governo ne ha fatto il centro delle sue azioni. Da più di un anno il ministro Salvini usa strategicamente casi come quello della Open Arms per costruire consenso, canalizzare su di sé l’attenzione dell’opinione pubblica e intrappolarci in un gioco in cui è lui a dettare le regole, dividendo chi partecipa alla discussione in buoni e cattivi, dove per assurdo i cattivi sono apostrofati come «buonisti».
«Mi insultino, mi attacchino, mi blocchino finché vogliono», scrive Salvini su Facebook. «Risponderò sempre col sorriso e la voglia testarda di continuare a combattere per questo splendido Paese».
Combattere per questo Paese significa chiudere i porti, e cos’altro? L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, eppure questo governo non ha mai messo in discussione nessuna delle leggi che svalutano il lavoro e la dignità dei lavoratori. Poteva mettere le mani sul Jobs Act e frenare la rincorsa alla precarizzazione che riduce il potere rivendicativo dei lavoratori. Oppure poteva non opporsi alla proposta sul salario minimo, ma a detta del sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon «in Italia le priorità sono altre». Poteva non impedire ai lavoratori della società russa Lukoil Italia di esercitare il loro diritto costituzionale di scioperare. Poteva insistere sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, eppure quest’anno i morti sul lavoro sono in aumento. Ha portato a termine l’obiettivo di realizzare Quota 100, ma è una misura che pesa già sulle spalle delle nuove generazioni, acuendo il problema della disoccupazione giovanile e aumentando il deficit. Eppure l’unica preoccupazione di questo governo sono stati i migranti. E non quelli che emigrano dal nostro paese per cercare lavoro altrove, chiaramente. Ma quelli che arrivano, o tentano di arrivare, e prima ancora di toccare terra portano sulle spalle il fardello e la responsabilità dell’insicurezza sociale, della criminalità, e di tutti i mali che affliggono l’Italia.
Il problema sta proprio qui, che questo atteggiamento è stato, se non condiviso, perlomeno non osteggiato, e legittimato da un Governo che solo ora, mentre raccogliamo i suoi cocci, dichiara dissenso. Oggi una maggioranza non c’è più, il desiderio di Salvini di ritornare alle urne ha letteralmente ribaltato la politica, e su cosa succederà il numero degli scenari possibili è incalcolabile. Ma tutte le volte che una decisione in tema d’immigrazione è stata presa, una maggioranza c’è stata. Fragile, instabile, a posteriori ci sembra di averne visto la fine certa sin dal principio. Ma una maggioranza, effettivamente, c’è stata e non ha mai pronunciato un no esplicito alla politica dei porti chiusi. Questo è il primo. È un no forte dal punto di vista politico, perché ha spianato la strada ad una definitiva fine dei negoziati tra il Movimento e la Lega, sancita dal chiaro discostamento di Conte dalla linea di Salvini, ma la sensazione è che il pentimento di una metà del Governo sia arrivato in tragico ritardo.
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