Eyes Wide Shut, l’ultima creatura cinematografica di Kubrick, diventa ventenne. Era chiacchierato ancora prima di uscire: nove anni dopo Full Metal Jacket (1987) uno dei registi più amati di tutti i tempi si rimetteva al lavoro con un progetto, una trasposizione cinematografica di Doppio sogno di Arthur Schnitzler, che aveva in mente ancora dal lontano 1971, i tempi di Arancia meccanica. All’inizio doveva unire la matrice freudiana di Schnitzler ad un casting ben diverso, che prevedesse i due coniugi come ebrei. Un’idea era Woody Allen come protagonista maschile: non casualmente un’icona delle nevrosi, conoscitore a sua volta della psicanalisi, ma anche un’icona della cultura ebrea americana. Tuttavia la rielaborazione del materiale di Schnitzler, nell’arco di venticinque anni e fino al sopraggiungere dell’avvio produttivo, ha subito altre svolte: i protagonisti sarebbero stati Tom Cruise e Nicole Kidman. La notizia fu inaspettata per gli estimatori del lavoro di Kubrick: da una parte il mondo di lustri di Hollywood, dall’altra un regista fedele ad un’idea pura di cinema, poco incline a cercare un cast stellare per finanziare il proprio film.
Crebbe la curiosità e l’attesa verso l’opera in fieri del regista, verso il suo possibile risultato, perfino per alcuni con il sospetto che dovesse inciampare. In un’indole artistica maniacale come quella di Kubrick, tuttavia nulla nel disegno non trova posto, nulla non ha una profonda ragione. Cruise e Kidman dovevano rappresentare due membri dell’alta società newyorkese di apparenza insospettabile. Nella superficie, nei loro corpi da divi come nella società mondana piena di lussi (e di alberi di Natale), vi doveva essere una patinatura dorata, regolare, di benessere indiscusso, mentre nella confessione domestica, nell’interno della psiche si sarebbe scatenato un abisso soggiacente, inaspettatamente più complesso e meno candido, rassicurante. Si tratta anche dell’opera terminale di Kubrick: non solo come esempio di ultima opera simbolica di un intero percorso artistico, ma anche nel funesto contesto produttivo. Eyes Wide Shut fu chiacchierato ancora prima di uscire per un altro triste evento, cioè la morte di Kubrick a lavori nemmeno ultimati. Infatti il cineasta consegnò il montaggio, e dopo quattro giorni, il 7 marzo 1999, morì di infarto. Il pubblico dunque si trovava davanti ad un lutto improvviso e un film il cui iter non era nemmeno del tutto compiuto, tanto che circolarono per vario tempo voci su un montaggio incompleto e terminato da Steven Spielberg, dunque un lavoro non interamente kubrickiano, non suggellato dalla sua soddisfazione perfezionistica. Oggi pare chiaro che invece il cut fosse conclusivo, tanto che il 1 marzo 1999 il film fu mostrato ai capi dello studio cinematografico e alla coppia Cruise-Kidman, alla presenza di Kubrick stesso. Eyes Wide Shut uscì il 16 luglio nelle sale americane, il 1 settembre in un’anteprima europea alla 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ed è sempre la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nella corrente edizione del 2019, tra il 6 settembre e il 7 settembre, a dedicare una speciale proiezione fuori concorso al capolavoro che aveva lanciato vent’anni prima presso il nostro continente. Il film di Kubrick è stato visto, rivisto e non smetterà presto questo volenteroso ripasso: tanto atteso prima di uscire, considerato l’alone mitico, persino un po’ fantasmatico della sua gestazione, e tanto discusso all’uscita, insieme all’elaborazione della fine di una carriera. È ancora discusso oggi, probabilmente ancora più amato rispetto alla mista accoglienza all’epoca dell’uscita. Il tempo dà i suoi frutti, e ad oggi si può ricordare i meriti del suo ultimo film, illuminare degli aspetti della sua complessa struttura, stratificazione.
Occhi chiusi e aperti
Lo strano titolo è già un importante indicatore. Eyes Wide Shut infatti è un’espressione di traduzione non facile. Si gioca sul detto comune “eyes wide open” (occhi spalancati, occhi sgranati), con una sostituzione di “open” con “shut” (chiuso), traducibile nel complesso come “occhi aperti chiusi” (Canova, 2000). L’ambiguità, la contraddizione interna, è del tutto voluta: Eyes Wide Shut è un film che gioca su molti elementi assimilabili a questa doppiezza presente già nel titolo. Un vedo/non-vedo che parla, innanzitutto, dell’impossibilità di distinguere del tutto la realtà dall’illusione, dal sogno, come anche della caduta della fiducia verso un approccio razionale al mondo, all’esistenza. Gli occhi della ragione hanno una cecità parziale, non possono cogliere lo spettro cangiante di un modo pulsionale più profondo, come lo sono ad esempio gli abissi dell’inconscio a cui si interessava Freud, per definizione non “illuminati” ma oscuri, e così anche i luoghi toccati dall’avventura straniante di Bill (Tom Cruise) nel film. Dal neorealismo in poi, passando per la nouvelle vague, le generazioni di cineasti degli anni Sessanta, infatti il cinema ha sempre più abbracciato il reale come qualcosa di sfuggente, di incerto, opaco. “Gli oggetti e le forme dello spazio poco a poco cominciano ad assumere caratteristiche inquietanti, enigmatiche” (Brunetta, 2004): una sensazione che può appartenere ai personaggi come allo spettatore. Kubrick stesso ha parlato a più riprese nelle sue interviste dell’esperienza di assistere a un film come fondamentalmente onirica: un “sogno ad occhi aperti”. Il dottor Stranamore e Arancia meccanica, un’ucronia e una distopia, sono due capolavori precedenti del cineasta inglese che già suggerivano dei contorni vagamente irreali di eventi, che pure, in quell’universo, erano presentati come perlopiù fattuali. Il dispositivo cinematografico crea immagini dal contorno tanto preciso, come vuole la costruzione netta, perfetta della scena di Kubrick, quanto, allo stesso tempo, con un’allucinazione strisciante, grazie anche ai contesti, alle storie in cui i personaggi si trovano. Eyes Wide Shut sublima l’onirismo già insito in maniera sottile nel cinema kubrickiano, diventando un elemento in primo piano.
Eyes Wide Shut è il viaggio di Bill dopo l’estromissione da un’idea solida su di sé, sul suo matrimonio e su tutto ciò che lo circonda. Bill è un medico, dunque un adeguato rappresentante di un certo mondo razionalistico, e che guarda caso si presenterà ad altri personaggi come il Dr. Bill Hartford, con tanto di tessera di riconoscimento. La tessera vanamente esibita è una specie di bracciolo bucato in un’oceano urbano di stranezze, in cui non è di certo la sua professione che lo aiuterà a districarne gli enigmi. La moglie Alice (Nicole Kidman) invece è una donna inserita nel mondo dell’arte. È utile e rivelatore un dettaglio a tal proposito: i dipinti che tappezzano le mura domestiche degli Hartford e che si può ben supporre che derivino dal gusto della stessa Alice, sono in una parte di stile vagamente fiabesco – e Alice può essere un’Alice attraverso lo specchio, da Lewis Carroll, per una donna inoltre che guarda ben più volentieri il suo riflesso allo specchio rispetto al marito. In uno di questi quadri figura, in un giardino aperto, un arco, come una porta, che dà sull’altra parte di giardino, una porta posizionata in maniera curiosa e che suggerisce l’apertura verso qualcosa di invisibile. Una singola immagine che già anticipa, ingloba tutto il film, l’esperienza verso l’esterno fatta da Bill. Le scene di Eyes Wide Shut dunque nascondono opposizioni, elementi già ricchi: da una parte la pratica medica, dall’altra quella artistica. Due modi di vedere, quelli di Bill e Alice, diversi, ma è Alice ad essere più dentro alle ambiguità vitali rispetto a Bill, ad essere cosciente persino per due, a tratti, di quanto siano labili le fondamenta del loro matrimonio. Non a caso la prima comparsa di Alice è di spalle, in un elegante vestito serale presto sfilato, lasciandola nuda. Subito dopo appare il titolo del film: Eyes Wide Shut.
Lo stesso corpo di Kidman pare una scultura nell’arredamento della camera da letto, tanto che ai lati dell’inquadratura sul corpo nudo ci sono delle colonne bianche, quasi a richiamare vagamente un contesto artistico. Il corpo di Nicole Kidman dunque è già un’incarnazione dell’arte stessa; provoca lo spettatore, lo invita inevitabilmente a guardare e a guardare oltre la soglia del normalmente consentito, dunque solletica già un mondo pulsionale. Il titolo richiama ancora la dinamica dello sguardo, ma è anche l’inquadratura che separa i due coniugi. Dopo l’apparizione di esso, vediamo invece Bill nella stessa posizione all’interno della casa, ma vestito, indaffarato a prepararsi prima di uscire. I due si stanno recando ad una festa organizzata dal magnate Victor Ziegler (Sydney Pollack), e dove entrambi i coniugi si trovano a flirtare con sconosciuti, dando già l’idea allo spettatore di tentazioni minanti una fedeltà ineccepibile. Lo sconosciuto che seduce Alice durante un ballo è significativamente ungherese, non statunitense come lei. L’uomo si serve persino di un riferimento all’Ars amatoria di Ovidio. La novella di Schnitzler d’altronde è ad ambientazione viennese di inizio Novecento, mentre Kubrick la traspone nella New York contemporanea: conserva la più secolare tradizione europea, che comprende la pubblicazione di Doppio sogno, così, attraverso il magnate dal cognome tedesco, il corteggiatore ungherese, il successivo costumista slavo. Una suggestione, quella dell’anfratto cavernoso della vecchia Europa, che si alimenta dunque di alcuni bizzarri accenti, di maschere veneziane e particolari rituali. Da quel mondo, che ha dato vita anche alla psicanalisi, viene la malizia, la coscienza ambigua.
Alice vede Bill in allegra conversazione con due modelle, Bill vede Alice con l’ungherese. Di ritorno a casa marito e moglie, nel mezzo dell’intimità sessuale, si domandano reciprocamente che cosa sia successo con i rispettivi “corteggiatori”. Ed è qui che Bill si vede minata la sua credenza superficiale sull’istituzione matrimoniale. Alice infatti, attraverso domande serrate, tutt’altro che posate, smaschera le sue convinzioni ingenue, quali l’insospettabilità di qualsiasi tentazione della moglie, in quanto sua consorte e madre dei suoi figli (richiamandosi dunque ad un’immagine classica della società patriarcale), schernendo anche la dichiarata irreprensibilità del marito, nonostante i corpi nudi femminili a cui è sempre esposto nella sua professione, in quanto ipocrita. Lo stesso flirt di Bill smentisce ciò, per quanto non sia successo niente. L’istinto dell’essere umano non può pienamente richiudersi in un’istituzione monogamica, pulita e solenne fino al vasto regno del mentale, come se la immagina il marito. Il personaggio di Tom Cruise dunque idealizza la figura della moglie, ma una sua confessione gli è fatale per far crollare tutto: Alice ammette un episodio passato durante il loro matrimonio che, silenziosamente, è stato un reale pericolo per la loro stabilità familiare. Colpita, quasi lasciata indifesa, immobile («I could hardly move» dice lei) dallo sguardo di un giovane ufficiale di marina, danese, tanto fugace quanto devastante, ha provato su di sé, in maniera intensa e indimenticabile, proprio quel mondo di istinti e sentimenti appartenente all’irrazionalità, tanto da innescarle il desiderio di fuga dal marito, persino dalle responsabilità di madre.
Tutto ciò si sarebbe scatenato qualora il danese – in una fantasia erotica e sentimentale dichiarata, confessata appunto da Alice – l’avesse notata e invitata a venire con lui. Uno stimolo di un altro straniero, emerso improvvisamente e in maniera fulminante. Tutto il resto dell’avventura di Bill è la scesa a patti con un’idea del loro rapporto non più immacolata, del mondo psichico della moglie e del proprio come molto più profondo di qualsiasi patto solenne e lineare. Anche lui dovrà compiere una fuga dall’ambiente domestico per avventurarsi nell’esterno. La fotografia di Eyes Wide Shut sottolinea il complesso onirico del film e in cui si muove, assai trasognato e sconvolto, Bill. Tutti gli interni domestici sono di un color crema che rimanda al rassicurante focolare familiare, e non manca mai il segno del Natale consumista, cioè l’abete decorato da mille luci artificiali e colorate. Kubrick infatti ha ricercato volutamente un’atmosfera natalizia, tipicamente moderna e capitalistica, e che si esplica soltanto in decorazioni, regali da fare e passeggiate ai centri commerciali, per fare da potente contrasto con lo stato mentale di Bill. Una sottile derisione, critica alla società, tramite la crescente alienazione del protagonista, acuendo un sentore di falsità, di futilità. Complice la paura di Kubrick di volare, il set del film non è stata effettivamente la Grande Mela, ma una ricreazione in patria inglese: proprio questa costruzione artificiale amplifica lo strato onirico. Raramente si vede una panoramica della città, quasi sempre si seguono le passeggiate di Bill, assorto in sé stesso, e così i contorni cittadini paiono davvero un’emanazione della sua mente. Beffato dalla moglie, che con una sincerità di cui lui non è mai stato capace ha ammesso i suoi desideri, una sua fantasia sessuale, punto nell’orgoglio virile e di uomo di un certo status familiare acquisito, vaga per una finta New York che restituisce spesso insegne di locali a luci rosse. Il neon, il colore acceso e il mondo esterno sono spesso associati: non solo la città è piena di luci neon, ma anche negli interni le finestre emanano sempre una luce bluastra forte, una notte che si svolge fuori dal loro nucleo familiare e che si staglia come contrasto cromatico potente.
Si può notare persino un locale, alla cui vetrata si appoggia una coppia di sposini intenta a baciarsi, con un commento musicale inquietante, dall’insegna “Nipped in the bud”. Si tratta di un’espressione idiomatica, to nip in the bud: si riferisce alla rimozione di germogli di fiori prima che possano crescere, mentre nel suo uso metaforico allude all’arresto di una crisi ad un primo stadio, per evitare ulteriori sviluppi. Si tratta, nel secondo caso, proprio della situazione che sta vivendo Bill: una crisi in atto, appena provocata, e un messaggio forse psichico che invita alla soppressione, all’eliminazione del disturbo per ritrovare l’equilibrio. La soppressione tuttavia non è possibile. Alice ha sollevato un polverone, ha dato avvio allo “psicodramma”, una profonda messa in questione. Gli sconosciuti che si succedono nel vagare notturno di Bill sono spesso donne che si rivelano per costumi sessuali più promiscui e disinibiti dell’immaginato: comparse in scene che sembrano reali e allo stesso tempo figlie della rielaborazione di Bill dell’immagine della moglie (le donne sono tutte bionde come lei). Infatti vi è la riproposizione ossessiva di una fantasia a catena di Bill, una specie di incubo erotico, dove il marito visualizza l’amplesso della moglie con l’ufficiale danese, incapace di togliersi la scena dalla testa. L’ossessione, lo stordimento, ma anche un senso di perdita delle coordinate, che siano geografiche o interiori, motivano anche l’uso occasionale della dissolvenza di Kubrick, in un modo che può ricordare l’uso della dissolvenza fatto da Scorsese per Taxi Driver, in un’altra camminata per la città di De Niro: la sensazione di sé come fantasma vagante, il tempo che scivola via senza una reale cognizione. Eyes Wide Shut infatti nel cuore dell’esperienza di Bill ha luogo di notte, in uno scorrere temporale inavvertito, il giorno sopraggiunge silenziosamente e si porta gli strascichi di turbamenti non ancora sopiti.
Il culmine dell’esperienza notturna, fuori dall’ordinario e dal quotidiano, è nella famosa scena dell’orgia in costume, in passato censurata dalla stessa casa produttrice del film. L’uso della maschera che fanno i partecipanti, tra cui Bill stesso, è indicativo: per allargare le maglie dell’ammesso si attua una finzione, si cerca un’altra identità – addirittura si inserisce l’ipotesi che sia tutta una sciarada per gli occhi di Bill, un punto che si presta bene a un’interpretazione metacinematografica, del cinema in quanto edificatore di illusioni. La maschera attraverso le fessure sugli occhi che lascia aperte, esalta lo sguardo: un senso di costrizione visuale, di restringimento che poteva provare Alex in Arancia meccanica, con le palpebre immobilizzate, costretto ad associare al cinema la musica di Beethoven a immagini grafiche di violenza. L’incredibile, il minaccioso è quello a cui assiste anche Bill.
E sia Alex (temporaneamente) che Bill sono impotenti: Alice attua tradimenti soltanto nei sogni, nelle fantasie ad occhi aperti, Bill esce per tentare di tradirla, ma si ritrova puntualmente impotente a compiere effettivamente un atto sessuale. Si potrebbe dire che per entrambi tutto e niente è successo. L’impotenza di Bill però è anche cognitiva: non riuscirà mai del tutto a cogliere che cosa sta vedendo, a farne emergere una conclusione accomodante e chiara, ritrovandosi sempre come spaesato (ovvero davvero un forestiero nella sua stessa città, mai conosciuta davvero), sempre inadeguato, persino accusato e intimato di starne fuori. Tuttavia si può rivedere un altro percorso, argomentato ad esempio dal filosofo Slavoj Zizek nel vivace documentario The Pervert’s Guide to Cinema (2006): ponendo come non si può scindere la sessualità dalla fantasia, da un’idea, una proiezione mentale attraverso cui noi rendiamo desiderabile un oggetto, nei rapporti di genere la fantasia femminile si costituisce come inevitabilmente diversa da quella maschile. Zizek, di influenza freudiana e lacaniana, teorizza che la donna sia più portata dell’uomo a “narrativizzare” il proprio desiderio sessuale: l’immaginato, anche se non è mai attuato e proprio perché non è mai attuato, ha in sé un forte desiderio irripetibile, dove la donna si riversa più apertamente rispetto al modo di fantasticare maschile in ambito sessuale. Infatti Zizek contrappone alla narrazione erotica il mondo della pornografia, dove la narrazione passa in secondo piano e si predilige il mostrare direttamente gli atti sessuali. Eyes Wide Shut allora si costituisce come il tentativo di Bill di pareggiare i conti con Alice, ma da una prospettiva errata in partenza, in quanto cerca direttamente l’atto sessuale. Infatti incontra sempre occasioni dove sia per le situazioni, che gli ambienti, i personaggi si è lontano da un erotismo vero e proprio e vissuto invece da Alice. Si sfiora in alcuni casi, complice ad esempio la maschera nell’orgia, la sostanziale impersonalità. Dice Zizek: «The entire film is his desperate attempt to catch up with her fantasy, which ends up in a failure. Many people don’t like, in that mysterious rich people’s castle, where they meet for the big orgy. They complain: this orgy is aspetic, totally non-attractive, without erotic tension. But I think: that’s the point. This utter impotence of male fantasising. The film is the story of how the male fantasy cannot catch up with the feminine fantasy of how there is too much desire in feminine fantasy and how this is the threat to male identity». Una teoria ora accennata, condivisibile o meno, che fornisce un’ulteriore lettura del capolavoro kubrickiano, generosa di elementi a supporto, e che dimostra davvero la potenza semantica del film, che si presta bene a tanti altri argomenti, letture, riflessioni.